di Paolo Guiso*

Le misure di prevenzione patrimoniali

CONDIVIDI

I presupposti per il sequestro dei patrimoni illeciti

Inserto

1. L’origine e la natura
delle misure di prevenzione patrimoniali

Sino allo scorso decennio, il contrasto alle organizzazioni criminali avveniva con gli strumenti repressivi previsti dal codice penale e di procedura penale.

Rispetto alle sanzioni penali, le misure di prevenzione, in particolare quelle patrimoniali, svolgevano un ruolo del tutto secondario e residuale.

Quest’ultime erano state introdotte dalla legge Rognoni-La Torre del 13/09/1982 nr. 646, a pochi giorni di distanza dagli omicidi dell’onorevole Pio La Torre e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, per contrastare più efficacemente la criminalità organizzata di tipo mafioso.

Si era compreso infatti che non bastava arrestate gli autori di tali reati associativi, che potevano essere facilmente sostituiti da altri membri dell’organizzazione, ma occorreva colpirli nel loro aspetto patrimoniale, costituendo questo il movente e la ragione primaria dell’esistenza di tali sodalizi criminosi. 

Per tale ragioni, oltre a introdurre il reato di associazione mafiosa (art. 416 bis), la novella prevedeva:

l’obbligo di svolgere indagini  patrimoniali nei confronti degli “indiziati di appartenere ad associazione mafiosa” e dei suoi familiari,

il sequestro anticipato dei beni, quando sussistono “sufficienti indizi”, tra cui la “notevole sperequazione tra il tenore di vita e l’entità dei redditi”, per ritenere che “siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego” (art. 2 bis e ter l. 565/75);

la confisca dei beni se il soggetto non riusciva a dimostrare “la loro legittima provenienza”(art. 2 ter l. 575/65 ). 

Benché la legge nr. 55 del 1990 avesse esteso tali misure anche o ad altri delitti tipici di criminalità organizzata (art. 74 dpr 309/90, art. 629, 630,644, 648 cp) il sistema era ancora lontano da realizzare una strategia generale di contrasto patrimoniale, poiché i provvedimenti ablatori riguardavano solo determinate fattispecie tipiche di reato e presupponevano l’adozione di una misura di prevenzione di tipo personale. 

Ciò portava problemi di ordine pratico, nel caso di morte del proposto nel corso della procedura di prevenzione, poiché veniva meno la possibilità di sequestrare i beni, malgrado fosse evidente la provenienza illecita dei beni, visto il collegamento che doveva esistere tra la misura personale e quella patrimoniale. 

Il vero punto di svolta si è avuto con l’approvazione del “pacchetto sicurezza” del 2008-2009, per fronteggiare l’emergenza criminale connessa all’immigrazione clandestina (dl 92/2008 convertito dalla l.125/2008; l. 94/2009),  che da un lato estendeva le  misure di prevenzione patrimoniali anche  ai  c.d. pericolosi “comuni” di cui all’art. 1 della  legge 1423/1956, dall’altro introduceva  la possibilità di applicare autonomamente le misure patrimoniali, indipendentemente da quelle personali, perfino in casi di morte del proposto, potendo essere disposte nei confronti degli eredi nel limite di cinque anni).

L’effetto pratico fu quello di generalizzare le misure di prevenzione patrimoniali, realizzando così un sistema binario che poneva a fianco della repressione penale quella del contrasto ai patrimoni nella disponibilità dei mafiosi, terroristi o “pericolosi comuni”, mediante il sequestro e la confisca dei beni di origine illecita.

L’assetto normativo così definito veniva confermato dal nuovo codice antimafia, approvato con il decreto legislativo del 6 settembre 2011 nr. 15, il quale, se pur non riuscendo ai risistemare l’intera disciplina sulla criminalità organizzata, ha avuto il pregio di accorpare in un’unica fonte l’intera materia delle misure di prevenzione, sino ad allora distribuita in varie norme. 

La nuova disciplina ha infatti formalizzato la possibilità di applicare disgiuntamente le misure patrimoniali da quelle personali (art. 18 comma 1 dlgs 159/11), facendo  sorgere dei dubbi sulla   possibilità di continuare ad inquadrare l’istituto tra le misure di prevenzione ante delictum, essendo  venuto meno il legame con la pericolosità del proposto.

Secondo parte della dottrina e della giurisprudenza (Cass. pen.  sez. V,  sent. n. 14044 del 13 Novembre 2012, “Occhipinti”) infatti, a seguito delle modifiche intervenute, il sequestro e la confisca non svolgono più una funzione preventiva, assumendo un carattere “oggettivamente sanzionatorio”, fondato sulla presenza di indizi di colpevolezza rispetto a comportamenti illeciti passati (come gli indizi di appartenenza ad associazione mafiosa), ancorché non assurgono al rango di prova penale.

Per questi autori,  le misure di prevenzione patrimoniale svolgerebbero una funzione surrogatoria del diritto penale, nei casi in cui la prova raggiunta non consentirebbe di pervenire ad una condanna penale. 

Alcuni autori evidenziano ciò parlando dell’introduzione nel nostro ordinamento di  un’ actio in rem, fondata sulla pericolosità oggettiva dei beni, più che su quella personale.

La questione non è di poco conto se si considera i suoi riflessi pratici, sul piano della individuazione della disciplina giuridica, in caso di successioni di leggi nel tempo. Infatti se si attribuisce alle  misure di prevenzione patrimoniali una funzione sanzionatoria, si dovrebbe logicamente  negare la possibilità di una loro applicazione retroattiva (art. 200 cp), dovendo valere per queste le regole opposte tipiche del “diritto punitivo” (art. 25 comma 2 Cost., art 2 cp). 

Se accolta tale tesi rischierebbe di snaturare l’istituto, da sempre inserito tra le misure ante delictum in funzione preventiva e soprattutto restringere la portata innovativa della riforma (per la sua inapplicabilità retroattiva) e quindi vanificare  gli obiettivi di politica criminale perseguiti. 

Oltretutto, il riconoscimento di una funzione sanzionatoria della confisca mal si concilia con l’assenza, nel caso de quo,  di un giudizio di colpevolezza su uno specifico fatto-reato.

Per questo, la dottrina più autorevole ha precisato che l’applicazione disgiuntiva delle misure patrimoniali da quelle personali non ha portato il superamento della pericolosità sociale del proposto, ma solo della sua attualità

Il sequestro e la confisca, in quanto misure di prevenzione, presuppongono necessariamente la prova della pericolosità del soggetto, senza la quale diverrebbero prive di fondamento giuridico e di dubbia legittimità costituzionale (art.41 e 42 Cost).

La  pericolosità sociale del soggetto, all’epoca del loro acquisto,  costituisce infatti, il principale indizio della loro provenienza illecita, unico motivo capace di giustificare tali provvedimenti che sarebbero altrimenti  in contrasto con il diritto di proprietà e di iniziativa economica individuale. 

Una volta dimostrato l’origine illecita del bene, questo andrà sequestrato, anche se dovesse venire meno la pericolosità sociale del suo titolare, poiché  conserva nel tempo la sua  capacità di inquinamento del mercato economico lecito.

La stessa Corte Costituzionale nella sentenza nr. 335 del 1996 ha affermato che la funzione della confisca “eccede quella delle misure di prevenzione consiste nel sottrarre definitivamente il bene dal circuito economico di origine, per inserirlo in altro esente dai condizionamenti criminali che caratterizzano il primo”.

L’accoglimento di tale tesi avrebbe come effetto anche quello di salvaguardare l’attuazione retroattiva delle misure di prevenzione patrimoniali in modo disgiuntivo da quelle personali, secondo la regola del tempus regit actum (art. 200 cp) e di conseguenza la strategia di contrasto voluta dal legislatore, sottesa alla riforma del 2008 e 2009, altrimenti a rischio per l’eccessiva contrazione del suo ambito applicativo.

Tale tesi ha trovato conforto anche in una recentissima Sentenza della Corte di Cassazione (Cass. pen., SS.UU., sent. n. 4880 del 26 giugno 2014, “Spinelli”), che facendo proprie le argomentazioni sopra esposte, ha confermato la natura preventiva della confisca, superando, al momento, le discordanti posizioni sostenute dalla dottrina nonché della giurisprudenza di merito e  legittimità.

2. I presupposti soggettivi: la pericolosità sociale

Secondo il nuovo codice antimafia, (artt.20 e 24 d.lgs 159/2011), l’applicazione delle misure patrimoniali è subordinata alla prova della:

pericolosità sociale del proposto;

provenienza illecita dei beni, ovvero della loro sproporzione.

La pericolosità sociale indica l’attitudine di un soggetto a commettere reati; nel caso delle misure patrimoniali costituisce il principale indizio della provenienza illecita del bene, desunta  proprio dalla pericolosità del soggetto acquirente, anche se questa successivamente  venga meno.

Il suo accertamento prescinde da un giudizio di carattere criminologico come anche dalla commissione di reati, come accade invece per le misure di sicurezza. 

Esso infatti consiste:

nel verificare se il soggetto da proporre rientri in una delle categorie di pericolosità previste dal legislatore; 

nel formulare un giudizio in ordine alla  effettività  e concretezza della sua  pericolosità. 

Tali categorie sono elencate nel nuovo codice antimafia (artt. 1,4,16), che ha avuto il merito di raccogliere in un’unica fonte le diverse figure, in precedenza sparse in varie leggi.

Queste sono identiche per le misure di prevenzione personali (art. 4) e per quelle patrimoniali (art 16), eccezione fatta per la possibilità di applicare quest’ultime alle persone fisiche e giuridiche, segnalate al Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite o ad altro organismo internazionale competente sul congelamento di fondi, quando vi è pericolo che questi possono essere dispersi, occultati o utilizzati per il finanziamento di organizzazioni terroristiche (art. 16  comma 1 lett. b).

Le diverse categorie di pericolosità sono costituite da quella: 

“comune o generica (art 1 e 4 codice antimafia), riferita a coloro che:

sono abitualmente dediti a traffici delittuosi; 

vivono abitualmente  con i proventi di attività delittuose; 

sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei  minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica;

 “qualificata” (ex L. 565/75) per gli indiziati:

di appartenere alle associazioni di tipo mafioso (art 416 bis);

di gravi delitti in materia di mafia, previsti dall’art. 51 comma 3 bis  del c.p.p., di competenza del Procuratore distrettuale; 

 del reato di cui all’art 12 quinquies comma 1 della legge 356/92;

“eversiva”, ex legge 152/75, nei confronti di coloro che:

compiono atti preparatori, diretti a sovvertire lo Stato attraverso la commissione di alcuni delitti tipici indicati dalla legge (art. 4 comma 1 lett.d) o commessi con finalità di terrorismo;

hanno fatto parte di associazioni politiche del disciolto partito fascista, quando debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere un’attività analoga a quella precedente; 

compiono atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista con l’esaltazione o la pratica della violenza; 

fuori dei casi sopra indicati, sono stati condannati per uno dei delitti previsti in materia di armi (l. 895/67 e art.8 e ssg. L. 497/74), quando debba ritenersi, per il loro comportamento    successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine di sovvertire l’ordinamento dello Stato o per terrorismo anche internazionale; 

sono istigatori, mandanti, finanziatori dei reati sopra indicati;

“nelle manifestazioni sportive”, nei riguardi degli indiziati di aver agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenze durante eventi sportivi (art. 6 l. 401/89): in questi casi l’eventuale confisca potrà essere disposta solo sui beni, nella loro disponibilità, che possono agevolare la condotta pericolosa (art. 16).

Per non incorrere in censure di illegittimità costituzionale, sotto il profilo  del rispetto del  principio di tassatività (art. 25 Cost.), il legislatore ha individuato le singole categorie di pericolosità alla commissione di reati, per renderle più determinate e non fondate su elementi vaghi ed incerti.

Lo scopo era quello di evitare, come avveniva in passato, giudizi soggettivi ed arbitrari,  basati sulla  valutazione del modo di essere della persona, ovvero del disvalore sociale o morale della sua condotta (si pensi alle misure nei confronti degli zingari, oziosi, vagabondi o alla categoria dei soggetti proclivi a delinquere).

Ciò non significa che l’accertamento della pericolosità sociale coincide con la prova della responsabilità penale in ordine ad uno specifico fatto di reato.

Il nuovo codice antimafia ha espressamente riconosciuto l’autonomia del procedimento di prevenzione che può essere svolto anche in assenza dell’azione penale (art. 29 dlgs 159/11) o in presenza di una sentenza di assoluzione.

L’accertamento della pericolosità implica un giudizio globale sulla personalità del proposto, in cui rilevano in primis i precedenti penali, ma anche tutta una serie di comportamenti penalmente irrilevanti (come le frequentazioni criminali) sintomatici della pericolosità del soggetto. 

Nel caso della “pericolosità comune o generica”, l’appartenenza a tale categoria richiede una reiterazione  e/o abitualità dall’attività delittuosa, non potendo pervenire ad un tale conclusione,  soltanto sulla base di una manifestazione sporadica o occasionale, anche se di rilievo penale. 

Questo non vale però per la pericolosità qualificata, ove la presenza di indizi di appartenenza mafiosa o di reità in ordine a gravi delitti tipici di criminalità organizzata, è da sola sufficiente a formulare un giudizio di giudizio di pericolosità per l’elevato valore sintomatico di tali fatti.

In tali casi  viene però richiesta una duplice prova, in ordine:

all’esistenza oggettiva dell’associazione di tipo mafioso o degli altri reati tipici indicati (art. 4 comma 1 lett. a-b del dlgs 159/11), desunta normalmente dai pregressi provvedimenti giurisdizionali e cautelari pronunciati su di essi;

all’appartenenza all’associazione mafiosa o alla commissione di alcuno dei reati tipici da parte del proposto, desumibile,  in assenza di una sentenza di  condanna, da elementi indiziari, purché basati su fatti certi, dal valore  probabilistico (Cass. pen. sez. II, sent. n. 1976 del 25 novembre 1998; anche Cass. pen. sez.VI, sent. n. 41355 dell’11 novembre 2011).

L’astratta appartenenza ad una delle categorie, non è sufficiente a formulare un giudizio di pericolosità, in quanto occorre valutare la sua esistenza in concreto, dovendola escludere in presenza di comportamenti reiterati scarsamente significativi.

La necessità di un accertamento della pericolosità sociale è espressamente menzionato nell’art. 6 del nuovo codice antimafia, secondo cui le misure di prevenzione, personali e/o patrimoniali, possono essere applicate “alle persone indicate nell’art. 4, quando siano pericolose”.

Tale regola riguarda oggi anche i soggetti indiziati di appartenere ad associazione mafiosa.

In passato per essi prevaleva la regola di presunzione di pericolosità, in base al broccardo semel mafioso semper mafioso, per cui chi entrava a far parte dell’organizzazione, lo faceva  per sempre sino alla morte (Cass. pen. sez. VI, sent. n.  499 del 9 gennaio 2009).

L’automatismo applicativo di tale misura veniva censurato dalla dottrina, che ha visto nel superamento del giudizio concreto di pericolosità, una reintroduzione delle categorie passate per “tipo di autore”, contrastanti con i principi della Costituzione.

Del medesimo avviso è la Corte di Cassazione, che ha escluso la possibilità di “scorciatoie probatorie” in una materia così delicata, che coinvolge i diritti di libertà delle persone (Cass. pen. sez. I,  sent. n. 17932 del 13 ottobre 2010, “De Carlo”).

La Corte ha precisato che di presunzione si può parlare solo per indicare la continuità del vincolo associativo, come riflesso della prova della appartenenza del soggetto, da modulare in base al tempo decorso dall’ultima manifestazione indiziaria. 

Pertanto, l’effettività della pericolosità sociale va sempre accertata anche rispetto ai casi di pericolosità qualificata.

L’unica deroga ammessa è quella della prova della sua attualità, da cui si può prescindere, nel caso di applicazione disgiuntiva delle misure di prevenzione patrimoniale (art. 18).

Tuttavia, anche in questo caso, permane sempre la necessità di acclarare la pericolosità del proposto, ancorché in via incidentale limitatamente all’epoca dell’acquisto del bene, senza la quale le misure patrimoniali perderebbero il loro fondamento giuridico divenendo di dubbia legittimità costituzionale. 

 

3. La prova della pericolosità sociale

La prova del giudizio di pericolosità sociale costituisce il tema centrale dell’istituto, da cui dipende la stessa tenuta dell’istituto, sotto il profilo della legittimità ed effettività della sua funzione.

La questione di fondo attiene alla natura  del giudizio di pericolosità per il rischio immanente che questo possa trasmodare in una valutazione arbitraria sulla persona, basata su elementi equivoci, non pienamente significativi,  frutto di un mero sospetto. 

Sul punto è intervenuta varie volte la Corte Costituzionale che, al fine di salvaguardare la legittimità dell’istituto, ha formulato degli indirizzi interpretativi compatibili con la Costituzione, norme, dando  indicazioni anche sui criteri del giudizio di pericolosità.

In particolare in tutta una serie di pronunce, la Corte Costituzionale ha precisato che le misure di prevenzione, per non andare incontro a censure di incostituzionalità (art. 13 e 25 Cost.), si devono fondare su “fatti concreti e certi”, consistenti in manifestazioni esteriori sintomatici della pericolosità sociale del soggetto,  con esclusione degli “elementi di giudizio vaghi e incerti, che lascerebbe aperto l’adito ad arbitri” (sentenze nr. 23/64, n.177/1980).

Tale esigenza di fondo non può tuttavia giustificare l’impiego di uno standard probatorio troppo rigoroso, commisurato a quello penale, fatto che vanificherebbe la funzione specifica delle misure di prevenzione patrimoniali nella lotta contro il crimine organizzato. 

La prova nelle misure di prevenzione non potrà mai coincidere con quella penale per la diversità dei loro oggetti: il giudizio di pericolosità sociale, nel primo caso; la colpevolezza di un soggetto rispetto ad uno specifico fatto di reato, nel secondo.

Di conseguenza, mentre nel processo penale viene richiesta infatti la certezza o la gravità degli indizi di prova, secondo i criteri indicati nell’art. 192 cpp; , nel procedimento di prevenzione basta invece rilievo la prova indiziaria, dovendo formulare un giudizio prognostico, in termini probabilistici, in ordine alla commissione futura di un reato. 

Presupposto dell’indizio è l’esistenza di un fatto oggettivo e certo, da cui inferire, mediante un ragionamento logico di tipo induttivo, l’elevata probabilità che quel reato sia stato commesso dal proposto e che il proposto ne possa commettere altri in futuro.

Il giudizio di pericolosità non richiede la sussistenza di elementi di fatto che fondino il  convincimento “oltre ogni ragionevole dubbio”(art. 533 cpp), essendo sufficiente che questo, da una verifica logica, sia ragionevole e altamente probabile, poiché supportato da “fatti concreti e certi”, ovvero da circostanze oggettive verificabili, aventi un valore sintomatico e non da congetture o aspetti della personalità che rappresentano solo la manifestazione di un  sospetto . 

Il carattere indiziario della prove trova riscontro anche nel regime probatorio del procedimento di prevenzione. Ad esso si applica infatti, la disciplina meno rigorosa del procedimento di esecuzione (art. 666 cpp richiamato dall’art. 7 comma 9 del codice antimafia), che attribuisce rilevanza giuridica anche alle prove assunte “senza particolari formalità”, compreso l’esame dei testimoni e la perizia (art. 185 disp. att. cpp), che non sarebbero utilizzabili nel processo penale ordinario (es. i verbali di interrogatori o di sommarie informazioni rese da indagati connessi senza gli avvisi di cui all’art. 64 cpp; le intercettazioni affette da un’ inutilizzabilità relativa, prodotte senza allegare i decreti autorizzativi).

Tali differenze consentono l’ingresso nel procedimento di prevenzione di un più ampio materiale probatorio rispetto a quello penale, assumendo valore indiziario, ai fini dell’accertamento della pericolosità, differenti aspetti del comportamento o della personalità del proposto, che sarebbero invece irrilevanti per il  giudizio di colpevolezza, come, per esempio: i precedenti penali della persona,  gli atti e relazioni della polizia giudiziaria anche se ripetibili, le denunce e gli esposti all’Autorità di p.s., le pregresse misure di prevenzioni, le misure interdittive antimafia, la frequentazione di pregiudicati, il tenore di vita e le segnalazioni di operazioni sospette.

Tali indizi si ricavano soprattutto attraverso un’attività cartolare di acquisizione degli atti e/o delle informazioni: 

dei  pregressi procedimenti giudiziari, anche se non riguardano direttamente il proposto, previo nulla osta del P.M. titolare del fascicolo (sentenze di condanna e di assoluzione; ordinanze di custodia cautelare; atti delle indagini preliminari come, le intercettazioni, interrogatori, verbali di sommarie informazioni testimoniali); 

dell’attività di polizia giudiziaria contenuti nei fascicoli personali (informative di reato; verbali di arresto, perquisizione e/o sequestro, di sommarie informazioni; annotazioni di vario tipo; pregresse proposte di misure di  prevenzione);

dall’ interrogazione delle banche dati a disposizione delle Forze di Polizia ( S.D.I, Punto fisco dell’anagrafe tributaria, Sister dell’agenzia del territorio, Telemaco della Camera di Commercio, l’Inps, Aci-Pra e della Motorizzazione);

della Pubblica Amministrazione o delle imprese e società interessate (certificati del casellario giudiziale, dei carichi pendenti; Ufficio del registro; l’AIMA per i contributi della C.E.; le Capitanerie di Porto per le imbarcazioni);

dagli accertamenti bancari presso gli Istituti di credito, che a differenza delle altre hanno carattere facoltativo, essendo lasciato all’organo proponente la valutazione dell’opportunità di richiederli.

L’organo proponente può svolgere anche altri tipi di indagini, come i servizi di osservazione, pedinamenti, rilievi fotografici, assunzione di informazioni, mentre non sono ammesse attività “invasive”, non essendo previsto, per le misure di prevenzione, lo svolgimento di intercettazioni, sequestri e perquisizioni.

Fa eccezione la possibilità per la polizia giudiziaria di richiedere al Pubblico Ministero il sequestro o l’esibizione della documentazione di interesse in possesso delle banche o società private secondo la normativa del codice di procedura penale (art. 19 comma 4 dlgs 159/2011).

Ciò non impedisce, soprattutto nei casi in cui emergono nuove notizie di reato (per es. art 12 quinquies dl 306/92), ipotesi peraltro non infrequente, la possibilità di aprire un nuovo procedimento penale e sfruttare le maggiori possibilità investigative offerte dalle indagini preliminari per acquisire ulteriori elementi da utilizzare, al termine, per formulare una proposta più completa di misura di prevenzione patrimoniale.

 

4. I presupposti oggettivi: la disponibilità diretta o indiretta dei beni

I presupposti oggettivi delle misure di prevenzione patrimoniali sono:

la disponibilità diretta o indiretta dei beni;

la sproporzione del patrimonio rispetto al reddito dichiarato ovvero la sua provenienza illecita (art. 20 e 24).

La definizione di disponibilità evoca la volontà del legislatore di ampliare le possibilità di intervento, andando oltre il concetto civilistico di proprietà e/o di possesso.

Il codice antimafia recepisce una nozione sostanziale, estesa a tutti i beni che rientrano nella sfera giuridico-economica della persona, andando oltre il dato dell’intestazione formale. La stessa Corte di Cassazione ha precisato che il concetto di disponibilità, non presuppone una relazione materiale con il bene, riferendosi anche a tutte quelle situazioni in cui la persona agisce uti dominus, anche se tale potere è esercitato tramite colui che ha il concreto godimento del bene (Cass. pen. sez. II, sent. n. 6977 del 23 febbraio 2011).

Tale nozione vi ricomprende infatti, sia le ipotesi di disponibilità diretta dei beni sia quelle di disponibilità indiretta.

La disponibilità diretta si riferisce ai beni intestati al proposto, quale titolare di un diritto di proprietà o di altro diritto reale, secondo le norme del diritto civile: 

per i beni immobili, occorre un atto pubblico di trasferimento a  favore del proposto (la trascrizione non ha valore costitutivo, ma soltanto probatorio rispetto ai terzi);  

per i beni mobili registrati, la cessione può essere dimostrata dal possesso del bene e da un qualsiasi atto che provi  l’accordo traslativo  (es. mandato a vendere) avendo la registrazione solo un valore dichiarativo.

La disponibilità indiretta riguarda i beni intestati fittiziamente a terze persone, rispetto ai quali il proposto agisce, di fatto, uti dominus, determinando la destinazione e l’impiego del bene.

Vi rientrano una pluralità di situazioni, che vanno dalla cessione del diritto di proprietà, alla conclusione di negozi simulati o fiduciari (come la stipula di contratti di locazione, affitto, oppure la conclusione di cessioni fiduciari, la costituzione di trust), a situazioni di mero fatto, in cui il terzo, titolare formale del bene versi in uno stato di soggezione nei confronti del proposto (Cass. pen. sez. I, sent. n. 39799 dell’11 ottobre 2010).

La prova del carattere formale dell’intestazione deve essere rigorosa, poiché si va ad incidere sul diritto di proprietà di una terza persona (art. 42 Cost.). 

In deroga alla regola generale, non bastano più meri indizi, ma occorrono elementi probatori connotati dalla gravità, precisione e concordanza, secondo un standard simile a quello penalistico (Cass. pen. sez. V., sent. n. 30579, del 2 agosto 2011).

In particolare la prova deve vertere:

sul “tipo di rapporto” sottostante intercorrente tra il proposto ed il terzo (compartecipazione criminale, rapporto di lavoro, di parentela, di affetto, di amicizia), che dà conto dei motivi dell’intestazione fittizia a favore del primo; 

sulla sproporzione economica dell’operazione rispetto al terzo intestatario, motivo del probabile reimpiego delle risorse provenienti aliunde dal proposto. 

L’accordo elusivo intercorso tra le parti può essere dimostrato attraverso:  

atti processuali o di indagine come: le intercettazioni o le dichiarazioni testimoniali, compreso il  materiale non utilizzato per il procedimento penale, da cui si possono invece ricavare invece elementi utili ai fini patrimoniali;

attività di osservazione, assunzioni di informazioni testimoniali, per  dimostrare l’effettiva disponibilità del bene, intestato al terzo, da parte del proposto;

accertamenti patrimoniali (anche bancari e fiscali), per verificare la congruità dell’operazione rispetto al terzo e risalire a chi ha realmente fornito la provvista per compiere l’operazione;

la ricostruzione oggettiva dell’operazione economica, per individuare eventuali  accordi simulatori o elementi di anomalia, come:

la stipula di atti collegati che conferiscono al proposto un potere di controllo sul  bene, creando  una situazione di apparenza non conforme a quella reale (es. la stipula di contratto di locazione, di affitto di impresa, di negozi fiduciari o trust, in luogo della vendita a favore del proposto; deleghe di firma nei conti correnti bancari;  l’ingresso nella compagine sociale di familiari o amici del proposto);

il pagamento di un prezzo di acquisto inferiore al valore di mercato o effettuato in  contanti;

la stipula di mutui non proporzionati al reddito del terzo, soprattutto se garantiti da fideiussioni del proposto;

l’acquisto in epoca successiva o comunque ravvicinata a provvedimenti restrittivi o alla proposta e/o applicazioni di misure di prevenzione personali.

L’onere probatorio è semplificato dalla previsione di alcune presunzioni iuris tantum di intestazione fittizia, la cui ratio è nel rapporto di parentela con il proposto o nella gratuità dell’atto compiuto, rispetto ai quali il terzo difficilmente potrà essere definito di buona fede.

In particolare, il nuovo codice antimafia presume fittizi (art. 26):

i trasferimenti e le intestazioni, anche a titolo oneroso, effettuati nei due anni precedenti la proposta della misura di prevenzione, nei  confronti dell’ascendente, del discendente, del coniuge o della  persona stabilmente convivente, nonché dei parenti entro il sesto grado e degli affini entro il quarto grado;

i trasferimenti e le intestazioni, a titolo gratuito o fiduciario, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione, anche nei confronti dei terzi.  

Un’ ulteriore presunzione si ricava nella norma che impone indagini patrimoniali anche nei confronti del coniuge, dei figli e di coloro che hanno convissuto negli ultimi cinque anni  con il destinatario della misura (art. 19). La ratio della stessa, ispirata ad un massima di comune esperienza, è nell’ordinaria condivisione dei beni tra i componenti dello stesso nucleo familiare. Ne deriva che anche i beni intestati ai familiari si presume siano nella disponibilità del proposto, salvo poi dimostrare che sono stati acquistati con risorse personali di origine lecita (Cass. pen. sez. V, sent. n. 30579 del 2 agosto 2011; anche Cass. pen. sez. VI, sent. n. 5577 del 14 febbraio 2011).

Si è osservato che tali presunzioni realizzano un’inversione dell’onere della prova, conferendo al terzo il compito di dimostrare che il bene non rientri nella disponibilità del proposto, documentando le modalità del suo acquisto ed in particolare della provenienza delle risorse impiegate. 

L’opinione prevalente ritiene invece che non vi sia alcuna inversione dell’onere della prova, poiché spetta all’organo proponente dimostrare i presupposti della presunzione legale, mentre al terzo eccepire, a sua discolpa, che il bene rientra nella sua disponibilità personale. In sostanza, si tratta soltanto di un meccanismo di semplificazione della prova, operante nell’ambito della normale dialettica processuale.  

Del medesimo avviso è la giurisprudenza, che ha escluso una violazione del principio del contraddittorio, potendo il terzo intervenire nel procedimento di prevenzione e far valere le proprie ragioni, dopo l’adozione del sequestro inaudita altera parte.

Inoltre, sul terzo non grava una probatio diabolica, egli ha solo un onere di “allegazione”, dovendo indicare temi o tracce di prove, per dare giustificazione della disponibilità di risorse economiche commisurate al valore del bene (Cass. pen. sez. II, sent. n. 6977 del 23 febbraio 2011). 

Egli potrà perfino dimostrare il possesso di risorse adeguate, allegando redditi illeciti, come quelli da evasione fiscale. A differenza del proposto, infatti, egli non deve dimostrare la provenienza legittima, ma solo la disponibilità del bene, anche provando di averlo acquistato con risorse di origine illecita, fermo restando le altre conseguenze di legge che derivano dalle sua allegazione (Cass. pen. sez. II, sent. n. 2181 del 6 Maggio 1999 “Sannino”).

Per essere attendibile, il terzo non si può limitare ad affermazioni generiche, ma deve fornire prove documentate o almeno riscontrabili sul piano logico o fattuale (estratti c/c; depositi bancari; successioni ereditarie; contabilità parallele; ricevute nominative di vincite al gioco), altrimenti difficilmente riuscirà a dimostrare la sua buona fede, ovvero della sua estraneità all’attività illecita del proposto. 

In particolare, a partire dalla sentenza nr. 487/95 della Corte Costituzionale, la giurisprudenza ha ricondotto la buona fede del terzo al principio generale della colpa (Cass. pen. sez. I, sent. n. 30507 del 1 agosto 2011).

 Il terzo di buona fede è il soggetto la cui ignoranza sull’origine illecita del bene deriva da un errore scusabile alla stregua dei criteri di diligenza sulla “colpa” (Cass. pen. sez. I, sent. n. 32937 del 31 agosto 2011).

Tale prova è ardua da sostenere nei trasferimenti a titolo gratuito o tra familiari, in virtù del rapporto sottostante esistente, che fanno presumere l’intestazione fittizia del bene. 

 Se il terzo fornisce tale prova, il giudice dispone la revoca del provvedimento ablatorio, con conseguente restituzione del bene sequestrato, disponendo eventualmente, la confisca per equivalente (art. 25 dlgs 159/11).

Nel caso opposto, invece, una volta accertato il carattere fittizio della cessione, il Giudice dispone la nullità degli atti di trasferimento compiuti a favore del terzo e la conseguente confisca del bene (art. 26 dlgs 159/11). 

In tali ipotesi, il giudice potrebbe anche disporre la trasmissione degli atti in procura, trattandosi di situazioni che spesso configurano il reato di cui all’art. 12 quinquies della legge  356 del 1992, che sanziona (con la reclusione da due a sei anni) colui che “attribuisce fittiziamente ad altri la titolarità o la disponibilità di denaro, beni o altre utilità al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniali o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli articoli 648, 648-bis e 648-ter del codice penale”.

 

5. La prova della provenienza illecita dei beni

La prova della disponibilità di beni deve essere congiunta a quella della loro provenienza illecita, ovvero della loro sproporzione, rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica svolta (art. 20 e 24 dlgs 159/11).

Tale prova costituisce il fondamento dell’istituto, la cui ratio è quella di contrastare le organizzazioni criminali eliminando dal mercato i patrimoni illeciti da queste accumulati (rectius acquistati con modalità o con l’impiego di risorse illecite). 

Secondo la disciplina previgente, la sproporzione costituiva indizio sufficiente a dimostrare la provenienza illecita del bene e alternativo rispetto alla prova diretta e specifica di quella di origine criminosa (Cass. pen. sez. I, sent. n. 2104 del 2 giugno 1994).

Il giudice infatti, disponeva il sequestro dei beni quando “sulla base di sufficienti indizi come la notevole sperequazione fra il tenore di vita e l’entità dei redditi apparenti o dichiarati, si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego” (art.2 ter comma 2 l. 575/65). 

La confisca veniva disposta nella fase successiva del contraddittorio pieno, in presenza degli stessi presupposti del sequestro, quando non veniva “dimostrata la legittima provenienza” del bene da parte del proposto (art.2 ter comma 3 l. 575/65). 

In sostanza, sia per il sequestro sia per la confisca si richiedevano “sufficienti indizi” della provenienza illecita del bene, il primo dei quali era rappresentato dalla sproporzione del valore dei beni (Cass. pen. sez. II, sent. n. 35628 del 23 giugno 2004 “Palumbo”).

La norma sulla confisca veniva modificata dalla legge 125 del 2008 (c.d. pacchetto sicurezza), per adeguarla a quella penale dell’art.12 sexies legge 356 del 1992, ed in tale versione, recepita nell’art. 24 del nuovo codice antimafia, secondo cui  “il Tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati  di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica,  nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”.

Tale riformulazione determinava un difetto di coordinamento rispetto alla norma sul sequestro, rimasta invece invariata.

Secondo una dottrina, ciò avrebbe determinato un cambiamento nel regime della prova, facendo venire meno la perfetta omogeneità della disciplina giuridica, sino ad allora esistente. 

In particolare, alcuni hanno sostenuto che per la confisca non basta la sproporzione, ma occorre una prova piena dell’origine illecita dei bene (o almeno della “connessione temporale” tra la pericolosità sociale e l’acquisto del bene), conforme allo standard penale, come farebbe presumere la sostituzione dell’espressione “sufficienti indizi” con la locuzione che i beni “risultino” di provenienza illecita.  Tale soluzione consentirebbe altresì di elevare le garanzie individuali, riequilibrando le posizioni sostanziali, rispetto al rischio di confische “allargate” dagli effetti sproporzionati rispetto ai labili indizi di prova richiesti.

L’interpretazione proposta appare in contrasto con: 

la ratio della nuova norma, di agevolare la lotta ai patrimoni illeciti delle organizzazione criminali, dal momento che la richiesta di una prova più rigorosa, avrebbe l’effetto di  restringere il suo ambito applicativo; 

la volontà del legislatore di armonizzare la disciplina della confisca di prevenzione con quella penale, di cui all’art. 12 sexies l. 356/92, che si fonda sulla sproporzione del patrimonio.

Per tali ragioni, altri autori hanno ritenuto che, l’inserimento nella disposizione della congiunzione “nonchè”, avrebbe comportato una differenziazione dell’onere della prova, richiedendo la sufficienza indiziaria solo per la sproporzione dei beni, mentre sarebbe necessario la prova piena per la dimostrazione diretta (con altri elementi) della provenienza illecita dei beni. 

Tale tesi non sembra invece compatibile con il carattere unitario della norma sulla confisca, che richiede, rispetto ad entrambi i tipi di prova, la dimostrazione che i beni siano “frutto di attività illecite o ne costituiscono il reimpiego”.

In realtà, nel modificare il testo previgente, il legislatore non intendeva innovare il regime della prova, ma soltanto adeguare la confisca di prevenzione a quella penale (ritenendo che ciò potesse agevolarne l’applicazione), senza tenere in debito conto le differenze sostanziali esistenti tra i due istituti.

Nel procedimento di prevenzione, infatti, mancando una sentenza di condanna (rispetto all’ipotesi dell’art. 12 sexies), la prova si deve necessariamente fondare sulla dimostrazione della provenienza illecita dei beni, senza la quale la misura sarebbe priva della sua ragione giustificativa ed in contrasto con la Costituzione. 

Di conseguenza, la sproporzione dei beni rileva quale indizio dell’origine illecita del patrimonio del soggetto, alla stessa stregua della prova diretta della provenienza illecita, rispetto alla quale non può che operare in via alternativa.

In tal senso propende anche il dato letterale della norma (art. 24), che considera la sproporzione una delle prove possibili, per giungere a dimostrare la provenienza illecita dei beni, alla pari di quella ricavata attraverso elementi diretti. 

Tale soluzione sarebbe coerente anche con le norme in tema di “amministrazione dei beni connessi ad attività economiche” (art. 34 dlgs 159/11), che richiedono per la confisca solo una prova indiziaria per la confisca, benché si tratti soltanto di terzi che hanno agevolato l’attività mafiosa.

Ne deriva che, al di là delle modifiche formali intervenute, ancor oggi non sussiste alcuna divergenza nella prova tra il sequestro e la confisca, fondati sui medesimi presupposti.

L’ unica differenza è nell’ intervento del proposto nella fase della confisca,  il quale può far valere il proprio diritto di difesa, dimostrando “la provenienza legittima” del bene: prova che consente una cognizione piena della vicenda e al provvedimento finale di avere una maggiore attendibilità ed efficacia. 

Tale soluzione è confermata anche dalla  giurisprudenza di merito e di legittimità, che ha escluso l’intervento di modifiche sostanziali alla disciplina,  essendo ammesso il sequestro e/o la “sia dei beni il cui valore risulti sproporzionato alla capacità reddituale del proposto sia dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscono il reimpiego, sulla base di un dato presuntivo che quei beni di valore sproporzionato, non siano stati legittimamente acquisiti” (Cass. pen. sez. V, sent. n. 27228 del 21 aprile 2011 “Cuozzo”; anche Cass. pen. sez. V, sent. n. 16311 del 23 gennaio 2014 “Di Vincenzo”).   

6. I criteri di accertamento della provenienza illecita

Secondo la normativa vigente, oggetto del sequestro e della confisca sono i beni che costituiscono “il frutto di attività illecite o ne costituiscono il reimpiego” (art. 20 e 24 dlgs 159/2011).

Tale definizione comprende i beni che costituiscono il provento diretto del reato o il suo utilizzo indiretto attraverso il reinvestimento in attività lecite. 

Parte della dottrina vi ha desunto la necessità di un nesso causale tra il bene e la specifica attività illecita, alla base del giudizio di pericolosità (sostanzialmente la confisca riguarderebbe soltanto i beni che costituiscono il prodotto, il profitto ed il prezzo del reato come nella confisca penale ex art 240 comma 1 cp).

In realtà, le disposizioni (art. 20 e 24 dlgs 159/11) non richiedono alcun nesso pertinenziale rispetto a determinati reati, poiché si riferiscono genericamente ai beni provenienti da attività delittuose, senza specificarne il relativo nomen iuris (Cass. pen. sez. VI, sent. n. 36762 del 27 maggio 2003). 

Tale interpretazione è coerente con la ratio dell’istituto di costituire un efficace strumento di dissuasione nella lotta alla criminalità organizzata, che sarebbe in parte disattesa se si consentisse al proposto di conservare quei beni “frutto di attività illecite” soltanto perché non connessi con la specifica condotta pericolosa a lui imputata. 

Parte della giurisprudenza ritiene tuttavia necessaria almeno la prova di una connessione temporale tra la condotta pericolosa e l’acquisto dei beni, non potendo ritenere “frutto o reimpiego di attività illecite” i beni acquistati prima delle manifestazioni di pericolosità. Ne deriverebbe che, possono essere oggetto di sequestro e/o di confisca, soltanto i beni entrati nella disponibilità del proposto contemporaneamente o successivamente al compimento della condotta criminosa, circostanza che assume valore indiziario circa la loro provenienza illecita (Cass. pen. sez. V, sent. n.3413 del 2008 “Giammanco”). 

Del medesimo avviso è anche parte della dottrina, secondo cui la connessione temporale è il più importante indizio della provenienza illecita del bene (nel medesimo senso si parla anche di “pericolosità del bene”), senza la quale le misure patrimoniali perderebbero la loro legittimazione giuridica, divenendo “pene del sospetto” incompatibili con i principi costituzionali (art. 13, 41, 42 Cost.).

Alcuni autori hanno anche osservato che la connessione temporale rappresenta “l’ultimo baluardo”, per salvaguardare il legame tra la confisca del bene e la pericolosità sociale del proposto e quindi la sua natura di misura di prevenzione, venuta meno la quale, essa si trasformerebbe in una sanzione di dubbia validità ed efficacia pratica, per il restringimento dei suoi effetti che conseguirebbe all’applicazione dei principi generali del diritto penale (tra cui il divieto di retroattività, presunzione di innocenza, di colpevolezza). 

La richiesta di una connessione temporale avvicinerebbe la nostra confisca a quella “senza condanna” del diritto comunitario, fondata sulla “doppia prova”, della sproporzione e della provenienza illecita dei beni (decisione quadro GAI 212/2005).

Di diverso avviso è altra parte  della dottrina e della giurisprudenza, formatosi sulle orme di quella penale sulla confisca  ex art. 12 sexies dl 306/92 (Cass. pen. SS.UU. sent. n. 920 del 19 gennaio 2004, “Montella”), secondo cui la confisca di prevenzione non presuppone una correlazione temporale, con l’effetto di poter sequestrare anche beni acquistati in epoca antecedente alle prime manifestazioni di pericolosa del soggetto (Cass. pen. sez. I, sent. n. 21717 dell’8 aprile 2008, “Failla”).  

Tale soluzione si basa sull’interpretazione letterale delle norme sul sequestro e la confisca (art. 20 e 24 dlgs 159/11), che non richiedono la prova di un nesso temporale tra la commissione dei reati e l’acquisto dei beni, ma solo della pericolosità sociale del proposto, ancorché non attuale e dalla sproporzione del valore del patrimonio, oltre all’assenza di giustificazioni in ordine alla sua provenienza legittima.

La  rilevanza della correlazione temporale contraddice inoltre, a livello sistematico, il superamento del dato temporale dell’attualità della pericolosità sociale, con il riconoscimento dell’applicazione disgiuntiva delle misure patrimoniali incentrata sulla pericolosità ex se del bene (art. 18 dlgs 159/11). 

Tale esegesi si giustifica anche in base allo scopo della norma di costituire un efficace deterrente contro l’illecita arricchimento della criminalità organizzata, consentendo anche la “confisca allargata” dell’intero patrimonio; funzione che sarebbe invece contraddetta se si limitasse l’oggetto del sequestro inserendo surrettiziamente un requisito di ordine temporale (Cass. pen. sez. II, sent. n. 10455 del 17 febbraio 2005). 

Questa soluzione avrebbe infine, anche il vantaggio di superare il problema della datazione della pericolosità sociale, soprattutto in quella qualificata, in cui l’appartenenza all’associazione mafiosa normalmente precede le prime manifestazioni esteriori dell’esistenza di tale legame (Cass. pen. sez. II, sent. n. 25558 del 16 aprile 2009). 

La presenza di opinioni divergenti, rende la questione giuridica ancora aperta, con una prevalenza dell’indirizzo contrario alla correlazione temporale, anche se in alcune recenti sentenze la Corte di Cassazione ha lasciato intuire l’esigenza di una prova più rigorosa della provenienza illecita, fondata quantomeno sulla prova della connessione temporale tra pericolosità sociale ed acquisto del del bene, senza però giungere ad una presa di posizioni definitiva sull’argomento (Cass. pen. sez. VI, sent. n.  25341 del 24 febbraio 2011, “Meluzio” ; Cass. Pen., Sez. I, n. 44327, 18 luglio 2013 dep. 31 ottobre 2013, “Gabriele”).

 

7. La sproporzione del patrimonio

La prova dell’origine illecita dei beni, può essere fornita, in via alternativa, attraverso la dimostrazione della sproporzione del loro valore rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica svolta.

La sproporzione opera come presunzione iuris tantum, costituendo un indizio che i beni sono “frutto di attività illecite” o ne “costituiscono il reimpiego”.

Essa consente un’agevolazione dell’onere della prova, al fine evidente di rendere più efficace il contrasto alla criminalità organizzata, colpendola nell’aspetto per loro più rilevante: l’accumulo delle ricchezze illecite.

Parte della dottrina ha espresso alcuni dubbi sull’attribuzione di un ruolo centrale alla sproporzione, ritenendola un elemento neutro, scarsamente significativo per la provenienza illecita dei beni, che potrebbero derivare da fonti lecite diverse da quelle dei redditi  dichiarati al fisco (es. eredità, donazioni, vincite al gioco).

Il pericolo evidenziato è quello di una trasformazione della confisca in una “pena del sospetto”, con una finalità succedanea al diritto penale (soprattutto in mancanza di prove adeguate per un tale giudizio), in deroga alle sue garanzie tipiche.  

Ciò comporterebbe gravi rischi per le libertà individuali, che potrebbero essere private dell’intero patrimonio sulla base di semplici indizi di pericolosità, ancorché passati, ed una presunzione di illiceità, ricavata solo dalla sproporzione del patrimonio. 

Per riequilibrare le posizioni delle parti, parte della dottrina richiede, de iure condendo, la prova specifica della provenienza illecita o almeno l’esistenza di una connessione temporale tra la condotta pericolosa e l’acquisto del bene, in luogo o ad integrazione della sproporzione del valore  beni.

De iure condito, non appare tuttavia ancora superabile il dato testuale (art. 20 e 24 codice antimafia), che ritiene sufficiente la prova della sproporzione, in aggiunta a quella della pericolosità sociale del proposto, per richiedere il sequestro e la confisca dei beni nella sua disponibilità.

Il calcolo della sproporzione si effettua raffrontando  il valore dei singoli beni con il reddito del soggetto pericoloso dichiarato a fini fiscali e/o quello delle sue attività economiche.

L’accertamento segue un iter logico, che ha inizio con l’individuazione del patrimonio nella disponibilità del proposto (o viceversa con l’accertamento del reddito).  

Questa è un’operazione particolarmente complessa per la varietà delle fonti di reddito, il frequente ricorso a prestanome o ad altre forme di occultamento del patrimonio, anche con transazioni internazionali. 

A tale fine, oltre alle consuete interrogazioni delle banche dati a disposizioni delle forze di polizia (Camera di Commercio, Anagrafe tributaria, Catasto, Conservatoria Immobiliare, ACI, Motorizzazione), assume particolare rilievo la lettura degli atti dei procedimenti penali (in particolare i provvedimenti giudiziali e degli atti di indagine), nell’ottica differente delle indagini patrimoniali, da cui si possono ricavare importanti informazioni sui beni nella disponibilità del proposto, sulla origine delle  risorse e sulle intestazioni fiduciarie.

Nel compendio patrimoniale vanno considerati l’insieme dei beni immobili, mobili registrati, società, disponibilità finanziarie (conti correnti, titoli, con tributi statali), a qualsiasi titolo nella disponibilità del proposto. 

I beni devono essere valutati secondo i valori di mercato ricorrendo a parametri oggettivi (es. per i beni immobili, la borsa immobiliare).

La valutazione dei beni, in mancanza di riferimenti certi, comporta un certo margine di discrezionalità da parte dell’organo proponente, che rende spesso necessario, nella fase successiva al sequestro, la nomina di un perito, per una più precisa ponderazione dei valori.

Le quote sociali vengono indicate col loro valore nominale o reale se più elevato, accertato mediante l’esame degli atti di cessione, scritture contabili, accertamenti bancari, dichiarazioni testimoniali.

Nel caso di impresa, oltre alle quote sociali, si devono individuare anche i beni aziendali, che potranno essere oggetto di sequestro.

In base al principio di proporzione, se il proposto è titolare di quote minoritarie il sequestro verrà effettuato pro-quota, se invece ha la maggioranza oppure se esercita un controllo effettivo sull’intera società, il provvedimento riguarderà l’intero complesso aziendale, per sua natura avente carattere unitario e infungibile (Cass. pen., sez. V, sent. n. 17988 del 30 gennaio 2009” Baratta”).

Differente è il caso in cui nell’impresa vengono reinvestiti capitali illeciti, divenendo essa stessa “frutto di attività illecite” e quindi suscettibile di sequestro e/o confisca per intero (Cass. pen., sez. I, sent. n. 11620 del 23 marzo 2011).

Dopo aver ricostruito il patrimonio, si dovrà determinare il reddito del proposto (o viceversa il patrimonio), che rappresenta il secondo termine del raffronto. 

La normativa vigente indica, come parametri di riferimento, quelli del reddito dichiarato ai fini fiscali e dell’attività economica svolta.

I due criteri hanno un rapporto alternativo, per cui una volta accertata la sproporzione rispetto al reddito dichiarato al fisco non occorre un’ ulteriore verifica rispetto all’attività economica.

La Suprema Corte di Cassazione ha affermato che il giudice può: “limitarsi a prendere in considerazione solo uno dei citati parametri, non essendo necessario che, constatata la sproporzione tra il valore dei beni ed uno dei parametri medesimi, passi ad ulteriore valutazione con l’altro parametro” (Cass. pen., sez. I, sent. n. 2860 del 10 giugno 1994 “Meriggi”). 

Ma in altra pronuncia, con riferimento al reddito proveniente dalla gestione di terreni agricoli, ha precisato che: “trattandosi di una valutazione di situazioni economiche reali, poiché è richiesto che la valutazione debba riferirsi a dati reali, il Tribunale doveva tener conto del reddito agrario effettivo e non di quello dichiarato” (Cass. pen, sez.VI, sent. 4458 del 14 novembre 1997 “Manzella”).

Il riferimento all’attività economica comporta quindi, un’integrazione del reddito qualora quello effettivo sia superiore a quello dichiarato ai fini fiscali.

Ciò si spiega per l’esistenza di alcuni redditi che possono essere legittimamente dichiarati in misura forfettaria, con valori inferiore rispetto a quelli reali (attività agraria; utili sociali) e di altri che sono perfino esentati dall’obbligo di dichiarazione (redditi di capitali, ricavato di vendite o donazioni).

Secondo parte della dottrina, i redditi delle attività economiche rilevano solo se inferiori a quelli dichiarati al fisco, potendo rappresentare un indizio dell’attività di riciclaggio, mentre sarebbero irrilevanti nell’ipotesi opposta (redditi economici più elevati rispetto a quelli dichiarati), altrimenti si verrebbe ad attribuire valore all’evasione fiscale, al fine di escludere la sproporzione.

In passato, alcune sentenze della Cassazione, condivise da parte della dottrina, avevano ritenuto rilevanti i redditi da evasione, derivante da attività lecita, sulla base del rilievo dato dalle norme (art. 20 e 24 dlgs 159/2011) ai redditi imponibili derivanti da attività economiche, altrimenti:

“si verrebbe a colpire il soggetto, espropriandone il patrimonio, non per una presunzione di illiceità della sua provenienza, ma per il solo fatto della evasione fiscale, condotta che non può ricondursi allo spirito e alla ratio dell’istituto in questione, il quale mira a colpire i proventi di attività criminose e non a sanzionare la infedele dichiarazione dei redditi” (Cass. pen. sez. VI, sent. n. 29926 del 26 luglio 2011).

La dottrina e la giurisprudenza prevalenti, al contrario, ritengono irrilevanti i redditi da evasione, poiché non idonei a “giustificare la legittima provenienza dei beni”, data la loro natura illecita, sotto diversi profili, anche caso del c.d. condono tombale (Cass. pen. sez. II, sent. n. 36913 del 13 ottobre 2011 “Lopalco”; anche Cass. pen. sez. I, sent. n. 11473 del 24 febbraio 2012 “Allegro”).

Tale tesi si rifà al dato testuale, che non prevede l’esistenza di un nesso causale tra i beni ed una specifica attività delittuosa, potendo derivare da una qualsiasi condotta criminosa, come l’evasione fiscale, che notoriamente si accompagna a illeciti di varia natura (reati fiscali, societari, tributari, falsi in genere). 

 L’illiceità di tali redditi non è esclusa dall’origine lecita dell’attività economica svolta, la quale non incide sulla natura della condotta specifica da cui derivano, considerato anche che, di consueto, il provento dell’evasione viene reimpiegato nella stessa attività aziendale, con l’effetto di rendere illecita un’impresa, ab initio immune da ogni contestazione.

L’irrilevanza dei redditi da evasione è stata confermata da una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione, secondo cui la mancanza, nella confisca di prevenzione, di un nesso di pertinenzialità con una specifica attività criminosa (invece presente nella confisca ex art. 12 sexies dl 306/92, che presuppone una condanna per determinati reati), fa rientrare anche gli evasori abituali nella categoria di  “coloro che vivono abitualmente con i proventi di  attività delittuose” (art.1 comma 1 lett. b. dlgs 159/2011), di talché anche i beni nella loro disponibilità, di valore sproporzionato, si devono  ritenere “frutto di attività illecite” (Cass. pen. SS.UU., sent. n. 33451 del 29 maggio 2014 “Repaci”).

Al fine di dimostrare la legittima provenienza dei beni, si deve invece tener conto:

dei redditi dei familiari conviventi, oggetto anche loro delle indagini patrimoniali (art. 19 comma 3), soprattutto se intestatari di beni ( la mancanza di redditi adeguati è infatti sinonimo di  un’intestazione fittizia);

delle altre entrate da fonte lecita, non rientranti nel reddito dichiarato o d’impresa, registrate nel corso dell’anno (es. donazioni, vendite,  mutui, contributi comunitari, vincite ).

L’insieme dei valori attivi vanno calcolati al netto delle:

spese per il sostentamento della famiglia, per prassi determinate secondo i dati forniti dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) sulla spesa media al consumo, divisi per ragione, per quoziente familiare, ed area geografica;

altre uscite sostenute nel corso dell’anno per acquisti e pagamenti con causa lecita (Cass. pen. sez. VI, sent. n.  3851 del 7 dicembre 1998 “Sforza”).

Tali dati si possono ricavare: dalle dichiarazioni dei redditi delle persone e delle società (mod. unico, 730, 770); dall’interrogazione delle banche dati e/o dall’acquisizione di copia degli atti negoziali, dell’Ufficio del Registro, della Conservatoria Immobiliare, del Catasto; dall’esame degli atti costitutivi, dei bilanci, delle dichiarazioni dei redditi delle società e/o delle imprese individuali, ricavati dalla Camera di Commercio e dalla banca dati dell’anagrafe tributaria.

Una volta determinati il totale delle fonti dei redditi e degli impieghi, si potrà procedere al calcolo della sproporzione effettuando la somma algebrica di tali valori, con riferimento il momento dell’acquisto di ogni singolo bene.

La Cassazione ha precisato che la sproporzione non può essere calcolata globalmente, secondo i valori  esistenti nel momento in cui viene formulato il giudizio, ma occorre determinarla rispetto all’epoca dell’acquisto di ogni singolo bene (Cass. pen. sez.V, sent. 23041 del 28 marzo 2002). 

Tale metodo analitico è essenziale per evitare errori di valutazione, poiché un bene, di valore sproporzionato rispetto alle condizioni economiche attuali, potrebbe non esserlo se confrontato con la disponibilità del proposto nel periodo del suo acquisto (es. donazioni, eredità). 

Al contrario, un esame della situazione patrimoniale circoscritto nel tempo, potrebbe impedire di raffigurare il reimpiego dei proventi illeciti, in presenza di operazioni economiche apparentemente lecite, che invece hanno origine in pregresse acquisizioni illecite.

Per poter una rappresentazione del patrimonio che sia il più possibile attendibile, occorre procedere ad un’analisi complessiva dell’intera storia economica del proposto, partendo dalla percezione dei primi redditi e ricostruendo, anno dopo anno, l’evoluzione del suo assetto finanziario e patrimoniale, sino all’epoca attuale della valutazione della misura (Cass.pen. sent. n. 721 del 26 settembre 2006 “Nettuno”).

L’analisi storico-economica del soggetto è ancor più significativa se effettuata insieme a quella criminale, con lo studio dei precedenti penali e dei relativi  atti processuali, poiché consente di individuare quei legami e fatti rilevanti, che hanno determinato l’accrescimento economico del soggetto (soprattutto in presenza di una consecuzione temporale e di una corrispondenza  tra la commissione di reati di natura  patrimoniale, i proventi ricavati  e gli investimenti effettuati): in tal modo, l’accertamento della sproporzione, da mera presunzione,  diventa il mezzo per ricavare la prova specifica della provenienza illecita dei beni e quindi legittimare il  sequestro e la confisca dell’intero suo patrimonio “frutto di attività illecite” o del  “reimpiego” di tali proventi.

 

8. Il sequestro anticipato 

L’efficacia delle misure patrimoniali è rafforzata dalla possibilità di ottenere in via anticipata il sequestro dei beni, prima della fissazione della prima udienza, quando vi è concreto pericolo che i beni vengano dispersi, sottratti o alienati (art. 22 comma 1 dlgs 159/2011).

La richiesta della misura non si fonda su un generico pericolo di dispersione, implicito in vicende che vedono coinvolti soggetti socialmente pericolosi, ma su fatti concreti ed attuali, da cui si palesa l’intenzione del proposto di occultare il propri patrimonio per eludere eventuali provvedimenti nei suoi confronti.

Il sequestro anticipato è richiesto dall’organo proponente, contestualmente alla presentazione della proposta, al Presidente del Tribunale, che dovrà decidere entro il termine di cinque giorni.

A sua volta, questi dovrà sottoporre il provvedimento alla convalida del Tribunale entro il termine di trenta giorni, anche se nella pratica, per evitare un duplice passaggio, si va diffondendo la prassi di presentare direttamente all’organo collegiale la richiesta di sequestro anticipato.

Tale provvedimento non va confuso con il  sequestro che può essere invece richiesto al Presidente del tribunale,  nel corso della procedura, direttamente dall’organo operante, nei casi particolari di urgenza, come quando emergano successivamente nuovi beni nella disponibilità del proposto a cui andrebbe subito esteso il provvedimento ablativo.

Il sequestro dei beni non conclude il procedimento di prevenzione, esso è una fase prodromica che anticipa gli effetti penali della confisca, che costituisce il vero provvedimento finale, con cui si realizza il trasferimento dei beni dal proposto allo Stato e quindi si attua la funzione specifica  delle misure patrimoniali di eliminare dal mercato economico cespiti patrimoniali di origine illecita. 

Per l’operatore di polizia, questo comporta che il suo compito non si esaurisce con il sequestro dei beni, in quanto durante tutto l’arco della procedura, d’iniziativa o su delega del Tribunale, dovrà continuare a svolgere le indagini sopra descritte, oltre a verificare la fondatezza delle giustificazioni addotte dalla  parte nel tentativo di dimostrare la provenienza lecita del bene.

Ne deriva che l’efficacia delle misure di prevenzione patrimoniali, passa soprattutto attraverso la professionalità e specializzazione degli operatori di polizia, indispensabile per prevenire errori di valutazione  in una materia così ampia e complessa, che porterebbero a un rigetto della proposta e alla conseguente revoca del sequestro anticipatamente adottato, esponendo così lo  Stato a un’azione di responsabilità, finendo perfino per  legittimare, di fatto,  il possesso di beni che invece avevano  un’origine illecita. 

 *vice questore aggiunto della Polizia di Stato

04/03/2016