di Annalisa Bucchieri

Con le donne e per le donne

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Il valore femminile fatto proprio e difeso dalla Polizia di Stato da più di mezzo secolo. Ne parliamo con Laura Boldrini, che ospiterà alla Camera dei Deputati un convegno sull’argomento

speciale 02

Per l’8 marzo parliamo di donne comuni ma al contempo straordinarie, donne che ogni giorno sorreggono come colonne portanti la società italiana lavorando con impegno e con altrettanto impegno curando la famiglia, gli affetti e le relazioni sociali. Tra loro tante vestono la divisa della Polizia di Stato. è stata proprio questa la prima forza dell’ordine a credere nel contributo che l’altra metà del cielo avrebbe potuto dare alla causa della  legalità e della sicurezza, istituendo già nel ‘59 il Corpo di polizia femminile dedicato ai reati contro donne e minori. 

Da oltre mezzo secolo, quindi, la Polizia di Stato è impegnata nella lotta contro la violenza di genere. Grande l’investimento di risorse ed energie nella formazione specializzata degli operatori delle volanti e delle squadre mobili, nei protocolli d’intesa con le associazioni territoriali, in ammonimenti e allontamenti degli uomini maltrattanti effettuati dai questori.

Se ne parlerà nel convegno La Polizia di Stato con le donne, una storia di impegno e appartenenza, alla Camera dei Deputati, ospitato dalla sua Presidente Laura Boldrini, che con Poliziamoderna ha voluto anticipare alcune riflessioni.

Negli ultimi dieci anni le donne in polizia sono cresciute numericamente e non solo. Oggi occupano posti apicali, si sono specializzate e qualificate professionalmente, entrando in reparti e nuclei tradizionalmente maschili (Nocs, Sommozzatori, Artificeri, ecc). Secondo lei è un’eccezione nel panorama lavorativo italiano o rispecchia un trend positivo generale? 

Indubbiamente le donne hanno fatto moltissimi passi in avanti, l’intera società li ha fatti riconoscendo il valore del loro impegno e del loro lavoro. Alla Polizia di Stato va certamente riconosciuto il merito di aver intrapreso questo percorso già da tempo, in particolare con la riforma dell’81 tramite la quale è stata eliminata la ripartizione tra settori esclusivamente maschili o esclusivamente femminili. In altre parole, il risultato è che oggi in polizia tutti/e fanno tutto. E questo non è un passaggio da poco, perché di fatto riconosce un vecchio principio delle battaglie per le questioni di genere: non ci sono mansioni o ruoli svolti da un uomo che non possano essere svolti anche da una donna. 

Mi piacerebbe poter affermare che si tratta di un trend positivo generale, ma purtroppo dobbiamo riconoscere che così non è. Nel nostro Paese sono ancora molti gli ambiti in cui le pari opportunità sono un miraggio. Ci aiutano a capire di più la situazione i dati del Global Gender Gap Report, redatto ogni anno dal Global Economic Forum di Ginevra. Le ultime ricerche ci dicono che l’Italia è al 71esimo posto su 136 Paesi in termini di possibilità economiche e di carriera politica o dirigenziale. Se poi parliamo di differenze salariali tra uomo e donna, l’Italia precipita al 124esimo posto su 136 Paesi. Sono numeri che devono far riflettere e che evidenziano come ci sia ancora molto da fare con le donne e per le donne. Anche perché, come dice chiaramente un’altra ricerca del Fondo monetario internazionale, l’esclusione o la penalizzazione delle donne nel mondo del lavoro ci costa anche in termini economici. In particolare in Italia, secondo l’FMI se eliminassimo i gravi ostacoli al lavoro femminile attualmente esistenti, il Pil crescerebbe di 15 punti percentuali. In altre parole abbiamo un 15% di Pil potenziale inespresso a causa delle discriminazioni contro le donne. 

La polizia é impegnata a 360 gradi sul fronte della violenza domestica, del femminicidio, dello stalking. Come giudica i risultati ottenuti negli ultimi anni? 

Negli ultimi anni la Polizia ha fatto dei passi in avanti, sono nati settori specializzati per trattare con le donne vittime di violenza e per prevenire e contrastare i reati in questione. La consapevolezza e la conoscenza del fenomeno è cresciuta tra gli operatori e le operatrici. Tuttavia resto dell’idea che la violenza sia un fenomeno strutturale, dunque culturale. In Italia è di certo così: il fenomeno riguarda praticamente in egual misura il Nord, come il Sud. Ma è anche trasversale: i maschi violenti infatti appartengono ad ogni estrazione e ceto sociale, non esistono “zone franche”. Ecco perché sono sempre più convinta che, accanto all’azione repressiva, che resta di fondamentale importanza, sia necessario anche un approccio interdisciplinare che cominci dall’educazione sentimentale nelle scuole. Perché, mi chiedo, c’è ancora chi si oppone all’insegnamento nelle scuole del rispetto di genere? E soprattutto bisogna entrare nell’ottica indicata dalla Convenzione di Istanbul che questo Parlamento ha approvato come primo atto. Una pietra miliare nella lotta contro la violenza di genere, perché stabilisce che la violenza contro le donne rappresenta una violazione dei diritti umani. Dunque non è un fatto privato, da trattare tra le mura domestiche. Senza contare che la violenza ha un costo per lo Stato, perché la donna che ha subito violenza spesso per giorni non può lavorare, ha bisogno di cure mediche, legali, dell’assistenza psicologica e quant’altro. 

La Polizia di Stato ha investito molto sulla formazione dei suoi operatori sia per la repressione del reato di genere che per l’assistenza pratica e psicologica alla donna abusata e maltrattata. Molte le Questure che hanno siglato protocolli di intesa con le associazioni sul territorio per seguire la vittima anche dopo che ha denunciato e instradarla verso un nuovo percorso di vita. Crede che questo spirito di sostegno, che rientra anche nella cultura della vittimologia, possa essere maggiormente supportata dallo Stato?

 Accompagnare le donne dopo la denuncia è fondamentale perché non si può chiedere alle donne di denunciare, di esporsi contro mariti o compagni e poi lasciarle sole. E’ qualcosa di simile a ciò che accade ad esempio con le vittime di usura: non possiamo chiedere ai cittadini di denunciare chi estorce loro denaro a interessi astronomici e poi abbandonarli a loro stessi. Per questo ritengo fondamentale il lavoro dei centri antiviolenza e delle case rifugio, strutture che forniscono alle donne, e ai loro figli, la possibilità di non tornare a casa dopo aver subito e denunciato la violenza. In questo senso credo che lo Stato debba fare di più. Certo molto è stato fatto in questa legislatura. Ed infatti con la legge 119 del 2013, sono stati stanziati fondi consistenti contro la violenza di genere: 16,5 milioni di euro per i centri antiviolenza nel biennio 2013-2014 e 30 milioni di euro per il piano nazionale contro la violenza di genere. 

A questi vanno aggiunti gli ulteriori stanziamenti previsti dalla legge di stabilità 2015: un totale di 18 milioni di euro, di cui dieci da destinare al Piano antiviolenza e otto ai centri e alle case rifugio. Ci tengo molto a citare anche quest’ultima tranche di stanziamenti, non solo perché si tratta di una somma consistente, ma anche perché ad essa ha contribuito l’intergruppo delle donne deputate, con un emendamento alla legge di stabilità, attraverso il quale sono stati aggiunti alla cifra iniziale, altri 2 milioni e mezzo di euro. Di questo organismo fanno parte quasi 100 deputate appartenenti a tutti i gruppi politici presenti a Montecitorio. Obiettivo dell’intergruppo delle deputate è porre le questioni di genere al centro del dibattito politico-legislativo, così come organizzare incontri, iniziative e dibattiti sulle questioni che interessano la vita delle donne. 

Tornando ai centri antiviolenza e alle case rifugio, tengo a precisare che di certo va migliorato il meccanismo di redistribuzione dei fondi, come spesso messo in evidenza dalle associazioni più impegnate a sostenere le donne nei territori, tenendo presente sempre l’interesse principale: non lasciare mai sole le donne che denunciano. è chiaro che, sostegno a parte, nel quale la polizia con i suoi operatori ormai specializzati può svolgere un ruolo fondamentale, sono diversi i fattori che aiutano le donne nel loro percorso per liberarsi dalla violenza. Uno di questi è certamente il lavoro: una donna che lavora è anche più libera dalla violenza perché può più facilmente lasciare la casa in cui ha subito maltrattamenti.  

Recentemente si è recata a Scampia per una visita ufficiale al nostro commissariato, come è nata questa scelta?

Sentivo da tempo l’esigenza di dire grazie alle donne e agli uomini dello Stato che si spendono e, troppo spesso danno anche la vita, per la nostra sicurezza. Qualcosa che diamo troppo spesso per scontata dietro alla quale c’è il lavoro silenzioso e lo spirito di abnegazione di centinaia di agenti, ispettori, commissari. Volevo rendere omaggio a queste persone e volevo farlo in un territorio particolarmente difficile e per questo ho deciso di andare a Scampia. È stata una bellissima giornata e ho visto che anche lì, all’interno del commissariato, c’è un pool specializzato, formato in prevalenza da poliziotte, che si occupa di violenza sui minori e sulle donne. Ho visitato con loro la “stanza di Alice”, la stanza che accoglie le donne e i bambini che denunciano i maltrattamenti. 

Anche il fronte dell’immigrazione vede la Polizia di Stato in prima linea. Cosa pensa del nostro impegno, lei che per tanti anni si è occupata del tema?

Negli anni in cui ho lavorato per l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ho potuto vedere da vicino l’operato delle forze dell’ordine, polizia, carabinieri, guardia di finanza, impegnati sui fronti diversi. In particolare conosco bene a quale compito delicato siano chiamati poliziotte e poliziotti nei centri di prima accoglienza: il compito di identificare i migranti che arrivano sulle nostre coste. Un lavoro non semplice che richiede sempre la massima attenzione, anche perché un errore nella trascrizione del nome, cosa che può accadere nonostante la presenza del mediatore culturale, può creare enormi complicazioni alla persona. Per non parlare poi delle difficoltà ad identificare quando i soggetti non vogliono fornire le proprie generalità e le impronte digitali. Dunque un lavoro indispensabile, tanto più oggi che sono stati creati gli hot spot, all’interno dei quali l’identificazione è la prima, fondamentale, tappa della procedura di ricollocamento voluta dalla Commissione Europea.  

Recentemente è stata creata una taskforce di contrasto al cyber-terrorismo all’interno del Servizio polizia postale e delle comunicazioni, guidata da una donna, il vice questore aggiunto Barbara Strappato, che tra l’altro coordina sei sezioni analoghe sul territorio. Quanto ritiene importante questa attività antiterrorismo, tra quelle che può porre in essere il nostro Paese, nell’impegno in prima linea contro l’Isis?

Ritengo si tratti di un’attività importantissima. Soprattutto di fronte a questa nuova forma di terrorismo, strutturato dal punto di vista informatico. La partita antiterrorismo, insomma, si gioca in gran parte anche sulla Rete, dove l’Isis fa proselitismo e addestramento. E mi fa particolarmente piacere che a guidare questa taskforce sia una donna, a riprova di quanto dicevamo prima: non ci sono ruoli di appannaggio esclusivamente maschile. Contro l’Isis però è necessario agire tutti insieme, è necessario che le polizie dei vari Paesi europei si parlino, interagiscano, si scambino informazioni. Altrimenti, come abbiamo visto anche di recente con gli attentati di Parigi, poco si potrà fare in termini di prevenzione.     

Tante ragazzine hanno la possibilità di fare sport nei centri junior e ben 100 atlete sono riuscite a scalare la vetta olimpionica o mondiale della loro specialità sportiva vestendo la tuta dei Gruppi sportivi Fiamme oro della Polizia di Stato. Lei da ragazza ha avuto occasione di praticare lo sport nelle strutture pubbliche?

Ho sempre amato molto lo sport. E mi spiace di praticarlo poco ora che sono presidente della Camera. Per molti anni ho giocato a pallavolo, sempre in strutture pubbliche. Anche adesso amo sciare e nuotare, ma come dicevo in questa fase della vita non ho tante occasioni per poterlo fare. 

Ultimamente si è recata a Lesbo, candidata al premio Nobel per la pace, insieme all’isola di Lampedusa, per l’accoglienza verso i rifugiati. Quali impressioni ha ricevuto da questo viaggio?

Innanzi tutto vorrei dire che ho trovato a Lesbo la stessa atmosfera che tante volte ho trovato a Lampedusa: gente generosa che non si tira indietro e accoglie tra mille difficoltà.  A Lesbo, ultima tappa  di una visita ufficiale in Grecia, ho incontrato anche la Guardia costiera italiana che, insieme a quella greca e alle altre forze di Frontex, stanno facendo un grande sforzo per salvare vite umane.  

Ma lo scopo della mia visita nell’isola dell’Egeo era principalmente dire grazie al popolo greco che, nonostante la difficilissima situazione che sta vivendo, non si è tirato indietro nel fornire accoglienza a chi fugge da guerre e persecuzioni, non ha chiuso le porte a nessuno. Sono andata lì anche ad incontrare le tre anziane simbolo della campagna per il premio Nobel agli abitanti delle isole dell’Egeo: Emilia, Mariza e Stratia, hanno dagli 83 ai 90 anni, vivono a pochi metri dalla spiaggia degli sbarchi e in questi mesi non hanno esitato ad assistere personalmente i rifugiati che arrivano stremati, soprattutto i bambini. Preparano loro i biberon caldi e la foto di Emilia che allatta un neonato in spiaggia ha fatto il giro del mondo. Anche loro, mi hanno raccontato, sono state figlie di profughi. I loro genitori erano tra quel milione e mezzo di greci che nel 1922 vennero cacciati dalla Turchia. In qualche modo queste anziane signore stanno restituendo ciò che altri avevano dato alle loro famiglie. 

A Lesbo sono andata anche per lanciare un appello forte e chiaro all’Europa, “LesbochiamaSchengen” è stato il motto: insieme al viceministro dell’Interno, Jannis Moutzalas, e al vicepresidente del Parlamento Anastasios Kourakis, ho indossato un giubbotto salvagente di quelli lasciati in spiaggia dai rifugiati sbarcati. I salvagente rappresentano lo sforzo che  quest’isola sta sostenendo, uno sforzo che dovrebbe diventare di tutto il Vecchio Continente. Insomma ritengo che Lesbo stia offrendo questa possibilità  a tutti gli Stati membri dell’Unione europea:  uscire dal vicolo cieco dei muri e della chiusura delle frontiere. Da quest’isola si sta levando un grido d’allarme e la risposta che arriverà dai 28 condizionerà il futuro del nostro Continente. Perché  se la Grecia verrà esclusa dall’area Schengen, come qualcuno sta proponendo, l’Europa stessa naufragherà. Avrà cioè perso la bussola dei suoi valori,  accettando di non rispettare le regole che si è data nei suoi stessi trattati. ϖ

04/03/2016