di Anna Costanza Baldry*

Noi ci siamo

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La Convenzione di Istanbul ha fornito alle forze di polizia nuovi strumenti per contrastare il fenomeno della violenza domestica. L'esperienza pilota della questura di Milano

Noi ci siamo

La scia di sangue non si ferma, ma l’entrata in vigore della cosiddetta Convenzione di Istanbul ha rappresentato un ulteriore salto di qualità nella lotta contro il femminicidio e la violenza familiare sulle donne, e così anche la Polizia di Stato da oltre un anno è chiamata ancor di più a svolgere un ruolo fondamentale per il contrasto e la prevenzione di tali reati.
Un ruolo che la polizia già svolgeva in passato attraverso una formazione apposita e l’attivazione di protocolli con le altre realtà del territorio che si occupano del fenomeno, ma anche con risposte concrete. Un impegno quotidiano che, però, da solo non basta. Le donne che ogni anno muoiono per mano del loro partner o ex, anche dopo averlo denunciato, sono ancora molte, troppe e il loro numero stenta a diminuire rispetto al calo degli omicidi in generale. Perché il problema della violenza contro le donne non si elimina con una legge: la violenza contro le donne ha radici culturali molto più profonde e radicate nella società per cui pur trattandosi di condotte che costituiscono reati, vengono ancora viste come “questioni private” lasciando così le tantissime donne e ragazze vittime di aguzzini, sole, impaurite, in pericolo. Una vittima denuncia la persona con cui ha o ha avuto una relazione solo quando non ha alternative, quando è esasperata e disperata. Lei vuole che la violenza finisca, vuole vivere libera senza doversi controllare le spalle ogni volta che esce o entra in casa. Rivolgersi alla legge è come dire: «Ho paura, io non so più come farlo smettere…». La vittima non può e non deve salvarsi da sola, deve essere aiutata a 360°, in maniera efficace, non stigmatizzante, con il coinvolgimento anche dei Centri antiviolenza (numero verde 15.22). È compito di tutti e di tutte farsi carico di questo problema. Ce lo dicono da tempo le Nazioni Unite, ce lo chiede l’Europa, ma ce lo chiediamo noi stessi perché solo così potremmo sperare che le nuove generazioni non abbiano più quelle decine e decine di bambini e bambine orfani a cui ogni anno il padre sottrae la madre uccidendola, o costretti a vivere in una casa dove la violenza ha preso il posto alle carezze (per saperne di più www.switch-off.org).
In quelle case la Polizia di Stato è chiamata a dare risposte e a intervenire ogni giorno e ogni notte, in ogni città di Italia. Le chiamano “liti in famiglia”, anche se sono spesso molto di più che liti banali, bensì vere e proprie aggressioni e in alcuni casi anche uccisioni. È un compito difficilissimo quello che si chiede agli uomini e alle donne che lavorano sulle Volanti. Spesso a uno dei loro primi incarichi, con ancora fresco il ricordo di quello che hanno studiato ma non ancora messo in pratica. Gestire un intervento di “liti in famiglia” da quando arriva la chiamata alla Sala operativa a quando si lascia l’abitazione richiede competenza, empatia, prontezza e coraggio.
È così che alla questura di Milano, si sta sperimentando da oltre un anno una nuova procedura. Ha il nome della prima donna, Eva e secondo Maria Josè Falcicchia, dirigente dell’Ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico (Upgsp) che coordina il progetto con il contributo scientifico del Dipartimento di Psicologia della Seconda università degli studi di Napoli, «si sta rivelando un’arma vincente». Eva, appunto, acronimo di Esame delle violenze agite, è un protocollo ormai metabolizzato dai poliziotti delle volanti milanesi, così come le due pagine di “Processing card”, il prontuario degli interventi sui maltrattamenti diramato dal questore Luigi Savina. «Lasciando una traccia nello Sdi (Sistema d indagine), i nostri terminali, adesso possiamo intervenire in maniera più incisiva – afferma il dirigente delle Upgsp – Prima, quando arrivavamo nelle case, prendevamo atto dell’accaduto ma senza poter procedere all’arresto». Il maltrattamento è un reato anche psicologico, le donne faticano a denunciare il padre dei propri figli, per vergogna, per paura, spesso lo perdonano o hanno un’ambivalenza che in ambito psicologico chiamiamo Sindrome di Stoccolma (vedi box). «Ora, prosegue la Falcicchia, dopo ogni intervento compiliamo questa scheda-questionario, check-list in cui annotiamo ad esempio, le condizioni del luogo dell’intervento, degli oggetti, di eventuali figli, aggressioni su animali. Annotiamo se sono stati sentiti i vicini, carpendo così ogni elemento utile per comprendere quel che è accaduto. Con la procedura che chiamiamo cruscotto operativo, Cope, lasciamo un precedente in archivio che quindi risulta anche nello Sdi, in modo che, in eventuali interventi successivi fatti dalla stessa volante in quella o in altre città o dall’Arma dei Carabinieri, quel precedente è già presente e noto. Se senza uno specifico precedente non si può arrestare per maltrattamenti, ora possiamo arrestare il responsabile, perché la “traccia” degli interventi fatti. Questa è una procedura efficace che evidenzia l’abitualità delle condotte violente, come prevende l’art. 572 cp e quindi ci permette di procedere d’ufficio». Tutto ciò ha una serie di vantaggi, fra cui “sollevare” la vittima dal peso di dover denunciare il marito e compagno e quindi provare sensi di colpa, timore di minacce e ricatti o pressioni legate all’eventuale querela.
Da aprile 2014, quando è iniziata la sperimentazione, al 30 settembre 2015 sono stati effettuati 1.147 interventi da parte delle Volanti per questo tipo di chiamate alla Sala operativa. A seguito di tali interventi, per “liti in famiglia”, 78 persone sono state arrestate e 170 indagate.
Assieme al Dipartimento di psicologia della Seconda università degli studi di Napoli, presso il quale lavoro e dove sono responsabile del Centro Studi-Cesvis (www.sara-cesvis.org) ci siamo occupati dell’analisi dei dati relativi a tutti questi interventi di polizia per conoscere che cosa accade e che cosa può aiutare sempre più l’operatore delle Volanti che interviene a perfezionare l’efficacia del suo operato e la prevenzione della recidiva o dell’escalation.
Ne viene fuori una fotografia interessante anche se stiamo parlando di 2-3 interventi al giorno relativi alla solo questura di Milano. L’età media delle vittime (donne/uomini) è di 41 anni più o meno la stessa (40 anni) degli autori. Le vittime sono donne nell’83% dei casi (in tutto 903), mentre gli autori delle aggressioni sono per l’87% uomini. Si tratta di coniugi o conviventi e la polizia è chiamata a intervenire a tutte le ore del giorno e della notte, anche se il 35% degli interventi si concentra tra le 22 e le 6 del mattino, e nella stragrande maggioranza dei casi, come prevedibile, gli interventi sono effettuati presso le abitazioni (82,5%). Vengono riferite lesioni riportate dalla vittima nel 46% degli interventi e dall’autore nel 15% del totale. Nel 41,4% dei casi sono presenti al momento dell’intervento anche figli minori, e in circa il 30% delle volte gli operatori della polizia hanno riscontrato che i bimbi erano agitati (16,9%), impauriti (6,3%) o piangevano (6,3%). Gli autori delle aggressioni dichiarano di fare uso di sostanze stupefacenti nel 25,6% delle volte e di alcol nel 21,5%. L’autore delle violenze ha nel 54,5% dei casi dei precedenti, ed è interessante notare come nel 32% dei casi è la stessa vittima che, anche in presenza dell’aggressore, riferisce alle forze dell’ordine che teme per la propria incolumità. I poliziotti stessi rilevano che nell’11% dei casi ha direttamente assistito ad atteggiamenti intimidatori nei confronti delle vittime. Sono solo dati, statistiche eppure si tratta di un lavoro importantissimo che forse, se esteso in maniera sistematica anche ad altre questure, può rappresentare un’ulteriore risposta efficace al reiterarsi di tali violenze perché in questi casi la risposta è altamente professionale e basata su un’immediata valutazione del rischio e della recidiva. Non è un caso che a Milano da quando è stata introdotta questa sperimentazione gli arresti in fragranza sono aumentati. I femminicidi continuano, ma intanto qualcosa si muove, anche nelle best practices.
*psicologa e criminologa, docente alla Seconda università
degli studi di Napoli

Foto di Domenico Fiandaca,
poliziotto autore delle foto pubblicate in questo articolo
che sono state esposte nella mostra ”Segni di non amore”
(Caltanissetta)

01/11/2015