Anacleto Flori
La mafia a tre teste
Cresciuta all'ombra dell'omertà, la "Società foggiana" stringe legami con la delinquenza comune cerignolana e quella garganica. Il pericolo di una super criminalità organizzata e la risposta delle forze di polizia
Bar, pizzerie e lavanderie che saltano in aria in pieno centro. Saracinesche divelte, pezzi di calcinacci e schegge di vetro sui marciapiedi e sulle strade. Resti di auto carbonizzate. Le bombe esplodono nel cuore di Foggia e non ci vuole molto a capire che l’ondata di intimidazioni che lo scorso novembre ha investito la città dauna rappresenta l’ennesimo salto in avanti della criminalità foggiana. Tutti si chiedono a chi toccherà la prossima volta, molti sanno, ma nessuno parla e tantomeno denuncia. E sì perché qui l’omertà la fa da padrone, rendendo tutto più difficile, soprattutto le indagini degli investigatori delle forze di polizia. Basti pensare che in una città di quasi 160mila abitanti, dove si ritiene che l’80% dei negozianti, degli imprenditori e dei liberi professionisti sia costretto a pagare il pizzo, le denunce di estorsione si sono sempre contate sulle dita di una mano.
Attacco alla città
Eppure dietro l’apparente monotonia della vita cittadina la paura si tocca con mano e inizia a farsi strada la consapevolezza che a essere sotto tiro non sono solo esercenti e liberi professionisti. I segni della violenza criminale sono ormai ovunque. Una violenza sfrontata che ha forse raggiunto il punto più alto la notte del 25 aprile 2014 quando un commando di criminali ha tentato l’assalto al caveau della NP Service aprendosi la strada a colpi di ruspa e kalashnikov e dando vita a una vera e propria guerriglia urbana che ha tenuto la città sotto scacco per quasi 4 ore. L’assalto si è risolto con la fuga dei malviventi dopo un lungo conflitto a fuoco con le forze di polizia. Lo scenario che si è presentato la mattina dopo agli occhi degli investigatori è stato impressionante: palazzi sventrati, bossoli ovunque, auto e tir incendiati e abbandonati di traverso lungo le strade per coprirsi la fuga. Un piano da veri professionisti del crimine. Ma che mafia è quella foggiana, come è organizzata, quando è nata e soprattutto chi sono i boss che ne tirano le fila?
È una mafia feroce e violenta, dura come il dialetto che si parla da queste parti. A differenza di tanta letteratura che ha ammantato di colorita simbologia le storie di Camorra, ’Ndrangheta e Cosa nostra, quella foggiana non ha riti iniziatici né, tantomeno, battesimi di sangue o codici d’onore da seguire. L’unico riferimento rituale riconducibile alla Società foggiana rimane la storica intercettazione del colloquio in carcere tra Rocco e Pasquale Moretti, nel corso del quale Rocco, il “vecchio boss”, con una formula solenne trasmetteva al figlio “il bastone del comando”. Altre regole non scritte, ma finora puntualmente rispettate, sono quelle di non uccidere donne e bambini e di provvedere al mantenimento delle famiglie degli affiliati in carcere; per il resto è una criminalità che non ha fronzoli e che bada al sodo. «Nella mancanza di rituali – ci spiega il dirigente della Squadra mobile foggiana Giuseppe Annicchiarico – non c’è solo l’aspetto “culturale” ma anche la scelta strategica di non offrire agli investigatori punti di riferimento ed elementi per poter stabilire se si è alle prese con un delinquente comune o con un mafioso».
Il punto di forza della Società è quello di essere organizzata in “batterie”, gruppi di persone legate tra loro da stretti vincoli di parentela: un sistema che crea una fortissima coesione interna ed elimina il rischio di avere al proprio interno collaboratori di giustizia pronti a vuotare il sacco (attualmente, infatti , solo due sono i “pentiti” ritenuti affidabili, tra cui Sabrina Campaniello, ex moglie del boss Emiliano Francavilla, che con le sue dichiarazioni sta facendo tremare la mafia pugliese). «L’impenetrabilità – continua Annicchiarico – è accentuata dal fatto che spesso molti degli stessi affiliati ignorano i piani e le decisioni presi all’interno delle batterie e da un sistema di comunicazione tanto semplice quanto efficace: ogni boss ha un suo “angelo custode” ed è tramite quest’ultimo che viaggiano i foglietti con le disposizioni da e verso gli affiliati». Intercettare gli affiliati prima che entrino in contatto con “l’angelo custode” è spesso l’unico modo per arrivare al boss. La Società, però, ha occhi e orecchie dappertutto e passare inosservati per i rappresentanti delle forze dell’ordine non è mai un compito facile anche perché, sebbene gli affari sporchi si svolgano essenzialmente in città, i boss ricercati non si nascondono in bunker o in covi sparsi nel cuore del tessuto urbano, ma preferiscono trovare rifugio nei tanti casali semidiroccati delle campagne circostanti. È una mafia che, in qualche modo, potremmo definire “liquida”: non esiste una cupola né ci sono “santuari” riconosciuti in cui si incontrano i boss, la città non è divisa in “quartieri generali” e non c’è una rigida spartizione della “torta” del malaffare. La prima batteria che fiuta “l’affare” conquista il diritto a gestirlo. Ma è anche dannatamente onnipresente: non c’è ramo economico cittadino su cui la Società non abbia allungato le mani: dall’estorsione su ogni tipo di attività commerciale e imprenditoriale al traffico di droga, dal furto di auto (ne vengono rubate più che a Napoli) alla raccolta dei rifiuti solidi urbani fino al controllo delle onoranze funebri, il cosiddetto mercato del “caro estinto”. Ma per comprendere come e quando è nata la mafia foggiana è necessario fare un salto all’indietro, all’epoca in cui Foggia iniziò ad assomigliare alla Chicago degli Anni ’30. Intorno al tavolino di un locale del centro, cinque piccoli spacciatori legati al clan dei Laviano stanno chiacchierando davanti a una bottiglia di vino, quando un commando di tre killer armati fino ai denti fa irruzione nel locale sparando all’impazzata. Solo uno dei cinque pregiudicati riesce a scampare a quella che passerà alla cronaca come la strage del Bacardi, dal nome del locale. Sono le tre di mattina del 1 maggio 1986 e quello che, apparentemente, sembra essere solo uno dei tanti regolamenti di conti all’interno della criminalità cittadina, in realtà segna il salto di qualità, il debutto in grande stile della nuova mafia: la cosiddetta Società foggiana. La spedizione punitiva del 1 maggio introduce, infatti, un elemento del tutto inedito per la piccola criminalità dell’epoca: la lotta senza esclusione di colpi per il controllo del mercato della droga e la conseguente guerra tra boss. Responsabile della strage contro il clan di Giuseppe Laviano, fortunosamente sfuggito alla strage perché rinuncia all’ultimo momento ad andare all’appuntamento, sarebbe Giosuè Rizzi, il “Papa di Foggia”, esponente della Sacra Corona Unita, prima, ed esponente di spicco della Società poi. Il volto nuovo, feroce e spietato della emergente mafia foggiana sta tutto nel racconto fatto da un collaboratore di giustizia circa la sorte di Giuseppe Laviano. A distanza di 3 anni dalla sparatoria del Bacardi e dopo essere sfuggito a diversi attentati, l’esponente del clan ormai perdente viene ucciso e fatto sparire nel nulla (il suo corpo non è stato mai più ritrovato): la prova dell’esecuzione si troverebbe comunque in una fotografia, uno scatto di polaroid fatto girare nel corso delle riunioni dei capi mafiosi, che ritrae la testa mozzata di Laviano. La sua morte apre una nuova fase nelle vicende della Società e soprattutto determina l’ascesa del potente boss Rocco Moretti, detto il “porco”, destinato da lì a poco a diventare uno dei capi storici della mafia pugliese.
Dopo decenni di guerre tra i clan locali, la Società foggiana, vive attualmente una sorta di tregua “armata”. Una situazione di stallo dovuta, come si legge nell’ultimo rapporto della Direzione nazionale antimafia, sia ai colpi inferti dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari, che hanno decapitato i vertici dell’organizzazione e indebolito il patrimonio mafioso, sia alla scelta strategica di rimanere nell’ombra e fare così abbassare il livello di guardia da parte delle forze di polizia. Oggi la Società si articola essenzialmente in tre batterie: quella di Roberto Sinesi e dei fratelli Francavilla (Antonello e Emiliano); quella di Rocco e Pasquale Moretti, Antonio Vincenzo Pellegrino e Vito Lanza e infine quella di Federico Trisciuoglio, Salvatore Prencipe e Raffaele Tolonese.
Non solo Foggia
Ma non è solo il capoluogo a essere assediato dalla malavita, bensì tutta la provincia. E sì perché oltre alla Società foggiana, nel territorio dauno operano altri due organizzazioni criminali, quella cerignolana e la mafia garganica.
«Quella di Cerignola è una criminalità che potremmo definire comune, senza caratteri di mafiosità. È specializzata nell’estorsione, nel traffico di sostanze stupefacenti, ma soprattutto nell’assalto ai furgoni portavalori e nelle rapine ai tir – spiega ancora Giuseppe Annicchiarico – si tratta di vere e proprie squadre che agiscono con tecniche paramilitari, prevalentemente lungo le vie di comunicazione tra Foggia e Bari, ma che non disdegnano le azioni “in trasferta”».
Come quando, all’alba del 27 novembre 2014, un commando di rapinatori mise a ferro e fuoco un tratto dell’A1 all’altezza di Lodi nel tentativo di rapinare alcuni furgoni portavalori della società Battistolli. « Si tratta di azioni studiate in ogni minimo dettagliato – sottolinea il dirigente del commissariato di Cerignola Loreta Colasuonno, da circa tre anni alla guida dei 50 operatori della Polizia di Stato chiamati a contrastare la criminalità locale – che richiedono grande “professionalità” e una incredibile disponibilità di armi e mezzi che giustificano il tristemente famoso appellativo di “università del crimine” che la cittadina pugliese si è “guadagnata” nel corso degli anni». Il fatto è che quello di Cerignola, con 60mila ettari di territorio per altrettanti abitanti, è sempre stato un territorio ricco che ha attirato le mire di una criminalità cresciuta nell’ombra e che, potendo contare anche qui su una omertà assai diffusa, ha finito per mettere le mani sull’intera città.
Molto più pericolosa appare, però, la minaccia rappresentata dalla criminalità organizzata garganica che nel corso degli anni, come spiega il dirigente della Mobile foggiana, è passata da un tipo di malavita legata al mondo pastorale sub-appenninico, il cosiddetto “clan dei montanari”, a una realtà mafiosa ben strutturata che oggi non ha nulla da invidiare per pericolosità e capacità di infiltrazione nel tessuto socio-politico a quella siciliana, calabrese e campana. Una criminalità che si è fatta strada nel campo dell’usura, dell’estorsioni ai danni di commercianti, imprenditori edili e di costruttori di pale eoliche, ma soprattutto dei proprietari dei locali notturni e degli stabilimenti balneari ai quali, oltre al pagamento del pizzo, viene di fatto imposta l’assunzione di lavoratori stagionali molto spesso affiliati ai clan. Costituita da clan familiari molto ristretti e radicati nei territori di origine (su tutti i Li Bergolis, i Romito e i Ciavarella), in cui assumono sempre più importanza le figure femminili, impiegate nel delicato compito di “staffette portaordini ” tra i boss in carcere e gli affiliati, la mafia garganica presenta una distribuzione di tipo orizzontale, priva di “cupole”, in cui i rapporti sono scanditi di volta in volta da guerre tra clan, passaggi di “affari” sporchi e collaborazioni, tipici di quel carattere di liquidità già incontrata nella Società foggiana.
La risposta delle istituzioni
Sarà stato lo shock dell’assalto al caveau o l’eco fragorosa delle bombe che ha tenuto svegli interi quartieri, abbinati all’impegno straordinario che la questura foggiana ha messo in campo negli ultimi tempi, ma in città qualcosa oggi sta cambiando. Lo conferma il questore Piernicola Silvis, uno dei primi a denunciare la pericolosità della la Società foggiana e rompere, nel corso di un colloquio con il presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, il muro di silenzio e di colpevole indifferenza dietro il quale si è sviluppata e affermata. «Pur tra mille difficoltà il numero delle denunce per estorsione presentate in questura è sensibilmente aumentato nel corso dell’ultimo anno e grazie alla collaborazione con il Dipartimento della pubblica sicurezza in un solo mese, da metà marzo a metà aprile 2014 abbiamo inferto colpi durissimi a tutta l’organizzazione criminale in particolare attraverso operazioni ad alto impatto come quella denominata “Demetra”, condotta dalla Mobile di Foggia e dal commissariato di Cerignola, con il supporto di 8 equipaggi del Reparto prevenzione crimine Puglia settentrionale e coordinata dal Servizio centrale operativo. Nel corso dell’operazione abbiamo fatto centinaia di perquisizioni, controllato veicoli e attività commerciali, arrestato una trentina di persone, sequestrato 40 chili di droga e sgominato una banda di rapinatori specializzati nell’assalto ai furgoni blindati. Inoltre, proprio il 1° aprile abbiamo scovato un enorme deposito pieno di armi di ogni tipo: decine di pistole, mitragliatori, fucili a canne mozze e a pompa, kalashnikov, bombe a mano e giubbetti antiproiettile. C’era addirittura una mitragliatrice con il treppiedi, un bazooka e una quantità impressionante di proiettili, quasi 18mila, di ogni calibro (vedi foto a pagina 29)». Un ulteriore passo avanti nella lotta alla Società è stato compiuto proprio nelle scorse settimane con la creazione, all’interno della Squadra mobile foggiana, del Nucleo investigativo antiracket (nella foto a lato la conferenza stampa di presentazione) , composto da operatori della polizia altamente specializzati, che ha messo a disposizione delle vittime del pizzo un numero di telefono diretto e un indirizzo di posta elettronica cui potersi rivolgere. Nelle intenzioni del questore Silvis, dovrà essere un ulteriore strumento di lotta alla Società con una doppia funzione: indirizzare le indagini e al tempo stesso incoraggiare le vittime a denunciare tentativi di estorsione, garantendo loro una maggiore tutela. Lo sforzo di contrasto al potere mafioso da parte della questura foggiana non può però prescindere da una presa di coscienza della cosiddetta società civile. «La città è ancora rassegnata di fronte al potere mafioso – racconta Daniela Marcone, referente provinciale Libera Foggia e figlia di Francesco, il direttore dell’ufficio del registro di Foggia assassinato il 31 marzo 1995 perché si oppose al sistema di corruzione imposto dalla mafia – poche le persone che hanno il coraggio di denunciare, si preferisce pagare il pizzo e tacere. Certo la situazione rispetto a 20 anni fa è cambiata: dopo la morte di mio padre le stesse istituzioni locali dicevano che non si doveva parlare di omicidio mafioso perché in quel modo si sporcava l’immagine della città. La mafia c’era ma non bisognava parlarne». Però dopo tante occasioni perse, la costituzione dell’associazione antiracket cittadina, avvenuta lo scorso 6 ottobre e dedicata a Giovanni Panunzio, imprenditore ucciso dalla mafia nel novembre 1992, rappresenta uno spiraglio di speranza e soprattutto la possibilità di costituirsi parte civile nei processi di mafia. «C’è ancora molto da fare – continua Daniela Marcone – ed è proprio per questo che nonostante tutto ho deciso di restare qui a Foggia. È la mia città e mi piacerebbe vederle finalmente rialzare la testa».
Il pericolo dietro l’angolo
La cosiddetta “liquidità”, caratteristica originale dei tre gruppi criminali attivi a Foggia e provincia, potrebbe però ben presto lasciare il posto a un nuovo disegno criminale: il fatto che Pasquale Moretti, a cui è stato consegnato il bastone del comando, sia stato catturato in un casolare di San Marco in Lamis, in pieno territorio garganico, getta più di sospetto sui legami e sui nuovi rapporti di “collaborazione” che intercorrono oggi tra batterie e clan. Il timore degli investigatori è che possa nascere a breve un’unica struttura, che si potrebbe definire Criminalità organizzata dauna (Cod) strettamente radicata sull’intero territorio e verticisticamente organizzata, in cui confluirebbero Società foggiana, criminalità cerignolana e mafia garganica.
Insomma, una sorta di super mafia di cui non si sentiva proprio la mancanza.
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Pietra di scarto e le belle di Cerignola
In contrada Toro, tra i campi sterminati dell’agro cerignolese e i grigi capannoni industriali che scorrono via ai lati della superstrada Foggia-Cerignola, il murales che raffigura Francesco Marcone direttore dell’Ufficio del registro di Foggia, ucciso il 31 marzo 1995 dalla mafia, campeggia sulla facciata del laboratorio della cooperativa sociale Pietra di scarto come una sorta di stella polare per il variegato universo delle associazioni cittadine che hanno deciso di non abbassare la testa di fronte al potere mafioso. A realizzare quel murales, sovrastato dalla scritta “qui la mafia ha perso”, sono stati i ragazzi che ogni anno partecipano ai campi estivi organizzati da Libera. Quella delle settimane di soggiorno-lavoro per gli studenti di tutt’Italia è solo una della tante iniziative messe in campo per ribadire che queste terre, un tempo proprietà dei boss mafiosi, devono tornare a essere patrimonio di tutti. «Dal 2010, da quando la cooperativa ha preso in gestione questi 3 ha di terreno confiscati – racconta il presidente Pietro Fragasso – di passi avanti ne abbiamo fatti: siamo partiti con la produzione delle olive verdi, le famose “belle di Cerignola” messe in vendita con il nostro marchio attraverso la rete di distribuzione “Botteghe del mondo”, poi abbiamo aggiunto anche le olive nere e infine abbiamo destinato parte del terreno all’orto e alla coltivazione dei pomodori». Tra intimidazioni e imprevisti le difficoltà non mancano: una rottura dell’acquedotto ha fatto seccare un terzo dei pomodori, mentre una grandinata ha danneggiato gran parte delle olive. Pietro e gli altri soci non si sono persi d’animo: con i pomodori rimasti hanno creato barattoli di salsa mentre le olive danneggiate sono state messe in vendita con l’etichetta “brutte di Cerignola”: forse non belle da vedere, ma buonissime e soprattutto biologiche. Ma la cooperativa non è solo produzione agricola è anche impegno sociale e civile: ecco allora che in collaborazione con l’Ufficio esecuzione pene esterne di Foggia, Pietra di scarto di volta in volta accoglie in affido persone per le quali si è scelto un percorso alternativo al carcere. «Alcuni hanno effettivamente cambiato vita – racconta Pietro Fragasso – altri terminata l’esperienza in cooperativa hanno ripreso la solita strada. Però c’è stato anche chi alla fine della pena ha chiesto di poter restare qui, a lavorare con noi».
Anche questa è un piccola pietra sulla quale costruire un Paese di legalità.
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Grappoli di diritti a Terra aut
Come ogni mattina Dora e Vincenzo, due dei cinque soci della cooperativa AlterEco che gestisce il progetto Terra Aut nato sul terreno confiscato a Giuseppe Mastrangelo, uno dei vecchi boss cerignolani, sono qui tra i filari d’uva. Il vigneto, dopo il letargo invernale, sta mettendo le prime foglioline verdi: i nuovi rami sono stati appena “legati” per assicurare spazio e luce ai futuri grappoli. L’aria bucolica che si respira oggi non deve però trarre in inganno. Fino a qualche anno fa, su queste terre di contrada Scarafone, a due passi da Cerignola, tirava tutta un’ altra aria... «Non è solo un modo di dire – spiegano Dora e Vincenzo – prima che AlterEco ne ottenesse l’assegnazione questi campi venivano usati come discarica. Ci sono voluti mesi di lavoro per ripulire l’area e ora, al posto di calcinacci e fusti di metallo, c’è una bella area per il pic-nic. Certo c’è ancora da ristrutturare la casa che, prima di essere abbandonata, è stata completamente distrutta. Chissà quanto tempo ci vorrà». Ma dalle parti di Terra Aut spirito di sacrificio e coraggio non sono mai mancati. Grazie alla presenza delle forze dell’ordine, i soci della cooperativa hanno partecipato all’iniziativa Un grappolo di diritti, promossa da Libera e dal comune di Cerignola, vendemmiando, nelle vigne che continuavano a essere gestite dagli affiliati al clan, mille cassette di uva da tavola in parte distribuite alla popolazione cerignolana e in parte fatte viaggiare in tutta Italia. Un progetto che è servito per ribadire che i terreni confiscati alla mafia devono tornare a essere un bene comune al servizio della collettività. Da allora qui aTerra Aut, nonostante le difficoltà e qualche velata intimidazione, non ci si è più fermati: alla raccolta di uva, ciliege, albicocche e olive si sono affiancati una serie di progetti destinati a rendere più stretto il rapporto con la città e a rafforzare l’idea che la legalità non deve essere solo una bella parola, ma una pratica di vita. E come per Pietra di scarto, anche qui si è creata una bella collaborazione con l’Ufficio esecuzione penale esterna per tenere corsi formativi destinati a ragazzi da impiegare, come pena alternativa al carcere, nel lavoro nei campi. « Oggi per noi Terra Aut è un simbolo del riscatto – spiega Vincenzo – un cerchio che si chiude, una terra nata dal malaffare che oggi diventa terra di cambiamento: è importante che quelle persone, che hanno sbagliato nel loro percorso di vita, vengano a riscattarsi proprio qui. Non mancano poi i campi scuola estivi organizzati in collaborazione con Libera: un modo per far toccare con mano agli studenti di tutta Italia cosa vuol dire vivere, e lottare, in terra di mafia. Noi ce la mettiamo tutta – continua Vincenzo – per realizzare il progetto di una “masseria didattica e sociale” dove poter mettere in campo tutte le professionalità della nostra cooperativa, ma c’è bisogno del sostegno delle istituzioni. Per questo abbiamo chiesto alla Regione di poter sostituire la vecchia vigna con vitigni da uva: sarebbe bello poter produrre del buon rosso con il nostro marchio. Certo si tratterebbe di partire da zero rispetto ad altre aziende, ma sia chiaro noi non molliamo mai».