Mauro Valeri

Capire, cooperare, intervenire

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Terrorismo, criminalità e collaborazione internazionale: di questo, e non solo, abbiamo parlato con James Comey, direttore dell'Fbi

Capire, cooperare, intervenire

Cinque figli e più di due metri di altezza, numeri da record per il cinquantaquattrenne James Comey, direttore dell’Fbi dal settembre 2013.
Nato a Yonkers, nello stato di New York, si laurea in legge presso l’Università di Chicago. Molti gli incarichi ricoperti, sia nel settore pubblico che in quello privato, prima di approdare al Federal Bureau of Investigation: da avvocato a vice procuratore generale presso il dipartimento di Giustizia, a consigliere generale della Bridgewater Associates, fondo di investimento con sede in Connecticut.
Questa l’intervista rilasciata in esclusiva a Poliziamoderna.

Crede che la strategia del terrore dall’11 settembre 2001 a oggi sia cambiata? Come è cambiato il modo dell’Fbi di combattere il terrorismo?
A mio parere la minaccia è cambiata sotto due importanti aspetti. Innanzitutto, se è vero che Al Qaeda, il tumore che ha colpito Afghanistan e Pakistan, è stato ridimensionato, è anche vero che questo cancro ha prodotto delle metastasi e abbiamo visto come le sue emanazioni – AQAP (ndt: Al Qaeda nella Penisola Arabica), Al Qaeda nel Maghreb Islamico e Isis – abbiano attecchito in Siria, Iraq e Libia.
Il secondo, grosso cambiamento è l’esplosione della propaganda e della formazione terroristica su Internet. Non è più necessario far arrivare un terrorista esperto negli Stati Uniti per fare proseliti: il reclutamento e la radicalizzazione avvengono on line. Internet consente loro di assorbire tutto il veleno di cui necessitano per commettere atti di violenza indicibile. Questo ha consentito ai terroristi, da spazi sottratti a ogni controllo, di far presa su tante anime tormentate in tutto il mondo, con due obiettivi: il primo, attrarle alla loro causa e convincerle a lasciare il proprio Paese; il secondo, qualora non siano in grado di partire, motivarle a fare qualcosa nel loro Paese.
La sfida per noi negli Stati Uniti è duplice. Innanzitutto, nella nostra nazione sono presenti individui problematici, non collocati in specifiche zone, ma che vengono convinti a recarsi in questi territori sottratti a ogni controllo.
In secondo luogo, nel messaggio dell’Isis è presente una nuova dimensione: se non puoi partire, uccidi qualcuno nel nostro nome per servire il jihad globale. E se riesci a fare anche un video, e la vittima porta la divisa, tanto meglio.
Rispetto a dieci anni fa, i cambiamenti sono significativi.
Anni fa, Al Qaeda considerava gli attentati su scala ridotta, come quelli contro i centri commerciali o contro singoli individui, come un’ammissione di debolezza. Anche questo è cambiato. Siamo di fronte a una nuova minaccia: persone in pigiama che nel seminterrato di casa, navigando su Internet, trovano tutte le informazioni di cui hanno bisogno per radicalizzarsi e ottengono la formazione e le istruzioni per uscire allo scoperto e fare del male a persone innocenti.
I recenti attentati compiuti in Europa tornano a sottolineare l’esigenza di restare vigili perché azioni di questo tipo, di portata limitata, sono possibili anche negli Usa. E la percezione che il terrorismo sia qualcosa che riguarda solo New York o Washington è sbagliata: indagini antiterrorismo sono in corso in tutti i 50 Stati americani.
Noi dell’Fbi stiamo sfruttando tutte le tecniche e metodologie investigative a nostra disposizione per impedire ai terroristi di colpire. Stiamo usando un approccio fondato sull’intelligence per individuare le minacce attuali e quelle emergenti e ci adattiamo di conseguenza per sconfiggerle. Con i nostri partner negli Usa e nel resto del mondo lavoriamo in stretta collaborazione per seguire le tracce dei foreign fighter diretti in Medio Oriente e impedire loro di agire. Raccogliamo e analizziamo informazioni sulle minacce correnti poste da questi gruppi terroristici. E per combattere la radicalizzazione ci concentriamo sui rapporti con le comunità e su specifici programmi.
La realtà è che i terroristi cresciuti in casa nostra non sono del tutto sconosciuti prima che agiscano. Nella maggioranza dei casi, un familiare o un amico sa che quella persona si è radicalizzata e assiste alla sua trasformazione. Dobbiamo incoraggiare queste persone a contattare le forze dell’ordine ogniqualvolta notino qualcosa di insolito, così da consentirci di intervenire prima che questi individui escano allo scoperto per uccidere degli innocenti.
Stiamo inoltre rafforzando le nostre partnership con le forze dell’ordine statali e locali. È molto improbabile che un agente speciale dell’Fbi sia il primo a venire a conoscenza della radicalizzazione di un individuo. È molto probabile, invece, che se ne accorga uno dei nostri partner a livello statale o locale, qualcuno che conosce il territorio. Attraverso le nostre task force congiunte antiterrorismo (Joint terrorism task forces) e i nostri centri di coordinamento statali, condividiamo informazioni e, quando si rende necessario, interveniamo tempestivamente.
Lavoriamo in stretta collaborazione anche con i nostri partner nel mondo per assicurarci di avere tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno per garantire la sicurezza dei nostri cittadini.

Le immagini dei recenti atti terroristici a Parigi hanno impressionato tutto il mondo. Le forze di polizia statunitensi li avrebbero gestiti con le stesse modalità operative di quelle francesi?
Non sono nella condizione di esprimermi sul modo in cui i nostri partner nel mondo reagiscono agli attentati e alle minacce nei loro Paesi. Ma ci tengo a dire che noi dell’Fbi abbiamo uno stretto rapporto di collaborazione con gli apparati di polizia e antiterrorismo francesi. Credo che le autorità francesi abbiano reagito in modo adeguato.
Voglio aggiungere ancora una cosa: queste minacce – dal terrorismo alla cybercriminalità, alla criminalità organizzata transnazionale – non colpiscono un singolo Paese, un continente, una forza di polizia o un servizio di intelligence. Colpiscono noi tutti. È per questo che è tanto importante continuare a lavorare fianco a fianco con i nostri partner nel mondo, condividendo informazioni e lavorando insieme ai vari casi. Un Paese o un’istituzione, da soli, non possono fermare la criminalità o il terrorismo. Dobbiamo lavorare insieme.

Sicurezza e tutela della riservatezza e della libertà dei cittadini. Qual è secondo lei il punto di bilanciamento?
Credo che le idee di “bilanciamento” e ”compromesso” tra sicurezza nazionale da un lato e riservatezza e libertà civili dall’altro non siano il modo corretto di affrontare la questione perché fanno sembrare la cosa un gioco a somma zero. Noi facciamo del nostro meglio per garantire una sicurezza che rafforzi la libertà. Quando un’amministrazione comunale decide di dispiegare dei poliziotti in un parco pericoloso affinché bambini e famiglie possano goderselo, la sicurezza promuove la libertà.
Gli uomini e le donne dell’Fbi giurano di tutelare sia la sicurezza nazionale sia le libertà civili. Non è un problema di conflitto; noi dobbiamo preoccuparci di entrambe le cose, in ogni indagine e in ogni programma.
Il fatto è che dobbiamo affrontare minacce molto concrete poste da criminali, terroristi, spie e soggetti malintenzionati che si muovono nel mondo cibernetico. Di conseguenza, abbiamo bisogno di dati di intelligence accurati e tempestivi per identificare tali soggetti e capire cosa abbiano in mente. Questo significa che abbiamo bisogno della sorveglianza elettronica e dei dati sulle comunicazioni elettroniche. Per ottenerli, dobbiamo trovare un modo che ci consenta di evitare che vengano commessi reati e al contempo di proteggere la riservatezza e le libertà civili e promuovere l’innovazione nel settore della privacy. Voglio essere certo che il popolo americano capisca come noi dell’Fbi utilizziamo le prerogative che la legge ci attribuisce.
È una questione complessa che però possiamo risolvere con una comunicazione onesta e aperta tra le forze dell’ordine e le agenzie di intelligence, il settore privato e i cittadini di cui siamo servitori.

Come giudica il livello di coordinamento esistente oggi tra l’Fbi e le forze di polizia locali e statali?
Stiamo facendo un buon lavoro grazie allo scambio di informazioni e alla stretta collaborazione con i nostri partner a livello statale e locale. Ma c’è sempre spazio per migliorare le cose.
Il popolo che noi serviamo – dal presidente degli Stati Uniti ai nostri vicini di casa – si aspetta da noi tutti una conoscenza approfondita di quanto avviene su tutti i fronti, a livello internazionale e nazionale, la capacità di padroneggiare quanto sta per succedere. Per riuscire in questo abbiamo bisogno di portare tutti intorno a un tavolo. Io sono insofferente alle lotte intestine e credo che lo siano anche gli americani. A loro non importa chi è che contrasta la criminalità o il terrorismo; quello che vogliono è sentirsi al sicuro.
Mi viene in mente il football, quello americano, anche se poi l’analogia vale anche per il vostro calcio. Se avessi un attaccante che si lamenta perché non riceve mai la palla, gli direi: corri il più possibile e piazzati nei punti del campo dove hai più spazio, e, ogni volta che tocchi la palla, segna. E se l’attaccante comincia a tirare in porta, il centrocampista comincerà a passargli la palla sempre più spesso.
L’idea di chi comanda o di chi ha il controllo non mi è mai interessata. Quello che importa è che noi facciamo tutto il possibile, insieme, per garantire la sicurezza del popolo di cui siamo servitori.
A farci maggiormente paura non è soltanto ciò che non sappiamo, ma i collegamenti che non siamo ancora riusciti a stabilire tra le informazioni che abbiamo. Quel fatto fondamentale, quel dato prezioso: se lo avessimo condiviso con la polizia o i servizi di intelligence, se avessimo individuato i collegamenti, quell’informazione avrebbe potuto prevenire un attentato o un reato?
Abbiamo fatto grandi progressi e la direzione è quella giusta, ma c’è ancora tanto lavoro da fare per rendere più forti e più fluidi lo scambio di informazioni e la collaborazione.

Terrorismo, criminalità organizzata, cybercrime, tratta di esseri umani, reati violenti, corruzione. Tutti fenomeni che l’Ufficio da lei diretto combatte quotidianamente. Quale tra questi è destinato ad assumere un’incidenza maggiore nella vita dei cittadini nel prossimo futuro e di quale invece si ridurrà il potenziale offensivo?
Sfortunatamente, a causa della pervasività di Internet e del suo impatto su tutti gli aspetti della nostra vita, non prevedo, con il passare degli anni, una riduzione del potenziale offensivo dei fenomeni criminali. Internet è un vettore, è il mezzo attraverso il quale molti di questi reati vengono commessi. E sfortunatamente, Internet funge da acceleratore: rende questi reati più pericolosi, più fluidi e molto, molto più veloci, oltre ad aumentarne il raggio d’azione. E siccome chi li commette si nasconde spesso nella zona grigia della Rete, è molto più difficile individuarli e arrestarli. E per lo stesso motivo, questi reati avranno un sempre maggiore impatto sui cittadini di tutti i Paesi.
Il contrasto al terrorismo è la nostra priorità numero 1 ed è difficile che questo cambi. Ogni giorno mi preoccupo per la crescente minaccia posta dall’Isis e dalle emanazioni di Al Qaeda nel mondo. Mi preoccupano anche i terroristi cresciuti in casa nostra, che vivono all’interno delle comunità che vogliono colpire. Credo, però, che molti, in America e nel mondo, non considerino la minaccia terroristica come una minaccia costante, per quanto questo potrà cambiare man mano che il terrorismo homegrown continua a evolversi.
La criminalità cibernetica ci ha toccato tutti in un modo o in un altro, perché le nostre vite sono sempre più connesse a Internet. La Rete è dove giocano i nostri figli, dove accediamo alla nostra banca, dove ci curiamo, e dove la nostra nazione ha le infrastrutture critiche. La cyber-criminalità, quindi, è qualcosa che sempre di più colpisce i cittadini di tutto il mondo.

Come potrebbero essere ulteriormente migliorati i già buoni rapporti tra la polizia italiana e l’Fbi?
Qualsiasi rapporto può essere migliorato con una maggiore comunicazione e collaborazione. Devo, però, dire che il rapporto tra l’Fbi e la Polizia di Stato è una delle migliori partnership che abbiamo.
Uno dei precedenti direttori dell’Fbi, il mio carissimo amico Louis Freeh, ha lavorato per molti anni in stretta collaborazione con il giudice Giovanni Falcone. Il giudice Freeh è stato il procuratore responsabile del caso Pizza Connection negli Usa, una delle più importanti indagini sulla criminalità organizzata della nostra epoca. Nello stesso periodo, il giudice Falcone era responsabile dell’azione penale contro presunti esponenti della mafia siciliana, i cosiddetti maxi-processi. Il giudice Freeh e il giudice Falcone hanno forgiato l’amicizia tra la Polizia di Stato e l’Fbi.
Oggi, la collaborazione tra le forze dell’ordine e le autorità giudiziarie di tutto il mondo è routine, ma 25 anni fa non era così. Il giudice Falcone, però, capì che un Paese o un dipartimento non potevano combattere la criminalità da soli e fece di tutto per coltivare rapporti profondi – amicizie – con i partner qui e nel mondo. E questi rapporti sono stati da modello per la cooperazione mondiale tra le forze dell’ordine, per i nostri addetti legali nel mondo fino alle task force congiunte e agli agenti speciali che sono inseriti nelle organizzazioni internazionali di polizia.

Crisi economica da un lato ed emergenza terrorismo dall’altro. Il budget a disposizione dell’Ufficio da lei diretto ha subito delle variazioni per l’anno in corso?
Le risorse sono limitate per tutte le forze di polizia e le agenzie di intelligence, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. E le tante minacce che ci troviamo ad affrontare aumentano per diversità e pericolosità. Noi dell’Fbi, però, siamo fortunati ad aver eletto dei rappresentanti – gli uomini e le donne del Senato Usa – che, riconoscendo il ruolo che ricopriamo nel contrasto alla criminalità e al terrorismo, ci hanno assegnato il budget di cui abbiamo bisogno per adempiere ai nostri doveri. Con risorse aggiuntive potremmo fare sicuramente di più, ma siamo fortunati, e faremo ogni cosa in nostro potere per essere buoni amministratori del denaro dei contribuenti americani.
(Traduzione di Emanuela Francia).

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Fidelity, bravery, integrity
Fedeltà, coraggio e integrità, questo il motto che anima i componenti del Federal bureau of intelligence, conosciuto in tutto il mondo come Fbi. Ed è in tutto il mondo che i 14mila agenti speciali vengono impiegati poiché il Bureau (come è chiamato dagli americani), che ha il suo quartier generale a Washington D.C., ha 56 uffici negli USA e 63 nel resto del pianeta all’interno delle ambasciate statunitensi, i Legal attachés. Gli agenti che lavorano all’interno di questi ultimi sono dei veri e propri punti di contatto nelle indagini di interesse dei due diversi Paesi, quello che ospita l’ambasciata e gli Stati Uniti. Le attività svolte insieme alle forze di polizia locali e lo scambio di informazioni investigative si svolgono secondo accordi e protocolli negoziati tra i due Paesi. In caso di attacchi ed attentati terroristici avvenuti fuori dagli USA alcuni agenti ed esperti della scena del crimine vengono impiegati, ove richiesti, per supportare le indagini delle forze di polizie estere. Combattere il terrorismo e proteggere la nazione dagli attacchi posti in essere con questa finalità è infatti la prima priorità dell’Fbi. E per perseguire questo obiettivo, oltre ai frequenti contatti internazionali il Bureau coordina anche numerose task force composte dalle forze di polizia locali e statali. Dal 2002 è infatti operativo il National joint terrorism task force (Njttf) che sovraintende alle attività delle 104 task force regionali. Gli uffici dell’Njttf erano inizialmente posti nel quartier generale dell’Fbi ma sono stati poi spostati all’interno del Centro nazionale di contrasto al terrorismo (National counterterrorism center), che opera sotto il controllo diretto del presidente degli Stati Uniti e del Consiglio nazionale di sicurezza. Qui gli agenti e gli analisti possono scambiare informazioni, analizzare dati e sviluppare piani antiterrorismo anche con gli specialisti di molte altre organizzazioni governative come la Cia, il Dipartimento della difesa e quello del tesoro. Lotta al terrorismo ma non solo tra le priorità dell’ufficio che è deputato anche a svolgere attività di contrasto allo spionaggio. Magari parlare di controspionaggio sembra riportarci ai tempi della guerra fredda, e può sembrare anacronistico, ma è proprio il Bureau ad evidenziare l’importanza di tale attività affermando che “la minaccia è seria e reale” e mettendo in cima alla lista il pericolo che armi di distruzione di massa, o le tecnologie per la loro costruzione, cadano nelle mani sbagliate. Ed è di solo qualche mese fa la notizia della condanna di Pedro Leonardo Mascheroni, uno scienziato precedentemente impiegato presso il Los Alamos national laboratory nel New Mexico, uno dei laboratori di armi nucleari nel Paese, per aver offerto a un funzionario venezuelano la sua consulenza e assistenza per costruire armi nucleari per quella nazione. La trattativa è però continuata con un agente sotto copertura dell’Fbi... Altro fronte sul quale è impegnato il Bureau è quello dei cyber crime, fronte particolarmente caldo poiché le minacce provengono non solo dagli hacker e dalla criminalità comune e organizzata ma anche dai cyber terroristi che cercano di sfruttare le vulnerabilità dei sistemi di controllo delle infrastrutture critiche che rappresentano la spina dorsale del Paese. L’acqua potabile, i sistemi di comunicazione, i mezzi di trasporto ma anche i reattori nucleari e l’industria della difesa sono infatti tutti controllati informaticamente e rappresentano il primo obiettivo per i cyber terroristi. Per rispondere a questa minaccia è stata creata una Divisione informatica presso il quartier generale dell’Fbi che coordina 56 squadre, composte da agenti speciali e analisti, presenti in ognuno degli uffici territoriali degli USA. Massima importanza per contrastare il fenomeno è stata attribuita anche alle partnership sviluppate tra il settore pubblico e le aziende private del settore. Così è nata InfraGard, un’associazione nella quale gli uomini e le donne del Bureau lavorano a stretto contatto non solo con le forze di polizia locali ma anche con i principali attori delle istituzioni economiche, accademiche e del mondo industriale per raccogliere e condividere informazioni e coordinare gli sforzi tesi al contrasto di attacchi informatici. Lotta alla corruzione, alla criminalità organizzata e a quella violenta (dalle gangs ai serial killer) completano il quadro delle attività più significative svolte dal Bureau che oggi può contare su un organico composto da 35mila persone tra analisti, esperti in varie discipline, impiegati e agenti speciali. Organico ben diverso rispetto a quello che, nel 1908, era costituito solo da uno sparuto gruppo di agenti speciali. La principale qualità loro richiesta, secondo il futuro presidente Theodore Roosevelt, doveva essere quella di essere particolarmente abili nel tiro con le armi da fuoco. Ma il creatore del gruppo, il segretario generale Charles Bonaparte, non era d’accordo che questa dovesse essere la principale caratteristica dei “suoi” uomini tanto che, ironizzando con Roosevelt, diceva: «Forse dovrebbe far sfidare a duello gli aspiranti e dare il posto a colui che sopravvive». Dalle molteplici abilità oggi possedute dagli agenti possiamo immaginare a chi la storia abbia dato ragione…

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L’eredità di un italiano
Siamo a Quantico, in Virginia, USA. Qui c’è l’Accademia dell’Fbi dove in 20 settimane di duro addestramento e di studio vengono formati i futuri agenti. Ma c’è un insegnamento in più che si vuole dare agli allievi. È quello che ha lasciato con la sua vita il giudice Giovanni Falcone. Per questo un busto di bronzo che lo raffigura campeggia nel cortile dell’Accademia. Con l’Fbi Falcone aveva un rapporto davvero speciale, fatto di lavoro ma anche di stima e amicizia, che si era formato in occasione dell’indagine Pizza Connection nella quale il Bureau, il Dipartimento di Polizia di New York e il procuratore federale di New York, Louis Freeh (che sarebbe poi diventato direttore dell’Fbi), lavorando a stretto contatto con la magistratura e la polizia italiana, realizzarono la più grande operazione antimafia di sempre. E nessuno di loro ha mai dimenticato l’amico italiano tanto che ne hanno voluto onorare la memoria celebrando anche a Washington, nel quartier generale del Bureau, il ventennale del vile omicidio del giudice, della moglie e di tre agenti della scorta. Queste alcune delle parole pronunciate nel corso della celebrazione dall’allora direttore dell’Fbi Robert S. Mueller III:
«Migliaia di agenti speciali, poliziotti locali e provenienti da altre nazioni hanno camminato su quel giardino ove è posto il monumento al giudice Falcone... Alcuni di loro non sanno chi era, eppure loro stessi rappresentano l’eredità lasciata dalla sua vita: una rete globale di colleghi e di amici impegnati a fermare coloro che minacciano la nostra sicurezza».
Eredità che, oggi come allora, continua a dare i suoi frutti. Tante infatti le operazioni sviluppate in collaborazione tra la Polizia di Stato e l’Fbi. Solo per citare le ultime possiamo ricordare quella del febbraio scorso, New bridge, che ha fatto emergere i legami tra la famiglia mafiosa dei Gambino di New York e la ‘Ndrangeta calabrese e ha portato all’arresto di 26 persone, bloccando i fiumi di droga che correvano tra noi e gli States. O quella di dicembre, denominata Under Dog, dove a finire in manette è stato il numero due della famiglia dei Gambino, Francesco Palmieri. Arrestate con lui altre 7 persone, tutte con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata all’estorsione.

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65 anni di ricerche
Siamo nel 1949 a Washington D.C. Nella sede dell’Fbi entra un giornalista. È uno dei tanti che vengono a chiedere informazioni “di prima mano” per i propri articoli. Lui però è venuto con un’idea molto precisa: realizzare un servizio su quelli che chiama i “ragazzi difficili” ovvero i criminali più pericolosi ricercati dal Bureau. Al giornalista vengono forniti i nominativi, le fotografie e le descrizioni dei 10 latitanti più pericolosi, tutte informazioni che sono poi riportate nell’articolo pubblicato sul Washington Daily News. L’interesse pubblico suscitato é enorme, e numerose giungono le segnalazioni di avvistamento. Nasce così la lista dei “Top ten”, introdotta ufficialmente il 14 marzo 1950, per volere dell’allora direttore dell’Fbi J.Edgar Hoover. L’idea é talmente buona che pochi giorni fa la lista dei 10 latitanti più pericolosi ha compiuto i suoi primi 65 anni. E i numeri testimoniano la sua utilità e il livello di collaborazione da parte della popolazione: dei 504 fuggitivi apparsi nella lista, infatti, 473 sono stati arrestati o comunque localizzati e ben 156 di questi arresti sono stati realizzati grazie alla cooperazione diretta e alle informazioni fornite dai cittadini. La teoria alla base del programma dei “Dieci latitanti più ricercati” è semplice: più persone conoscono il tuo volto, più difficilmente potrai nasconderti. Le migliaia di occhi che aiutano gli investigatori sono una risorsa preziosa. Così come la natura dei crimini e le priorità del Bureau si sono evoluti nel corso degli anni, così è cambiata la composizione della lista dei più ricercati. All’inizio vi comparivano solo rapinatori e assassini, oggi in essa sono finiti pericolosi esponenti della criminalità organizzata, pedofili, criminali informatici e terroristi. Per i criminali informatici e i terroristi sono state create, in tempi recenti, due apposite liste di ricerca. I cittadini sono spinti a collaborare soprattutto dal loro elevato senso civico. C’è però anche un’altra molla che li spinge ad essere così attivi. In molti casi, infatti, per informazioni che portino alla cattura dei latitanti, è offerta una ricompensa che può variare da 100mila a 25 milioni di dollari. Niente male davvero… ma attenzione però, tutte le persone segnalate devono essere considerate armate ed estremamente pericolose.

01/04/2015