di Vincenzo di Lembo*

Il giudice di pace e la composizione della microconflittualità

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La conciliazione tra le parti, prezioso strumento di risoluzione dei conflitti

Il giudice di pace e la composizione della microconflittualità

Il giudice di pace è giudice istituzionalmente deputato alla composizione della microconflittualità intersoggettiva.
Questo assunto, oltre che frutto di esegesi, è dimostrato in particolare dall’analisi delle norme in materia, dalle quali si evince in modo chiaro l’eccezionalità dello sbocco punitivo nell’iter processuale.
La nuova norma (dlgs n. 274 del 28 agosto 2000) offre una certa abbondanza di istituti alternativi di definizione del procedimento: l’oblazione per le contravvenzioni, numerose, che la consentono; la remissione della querela o la rinuncia al ricorso, per le quali il giudice onorario deve “adoperarsi fattivamente”; l’improcedibilità per particolare tenuità del fatto (art. 34); nonché, infine, l’estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie (art. 35).
Quando poi non può fare a meno di punire, il giudice di pace applica pene assai miti, sebbene non sospendibili: la pena pecuniaria, che nei casi più gravi, può essere sostituita dalla permanenza domiciliare o dal lavoro di pubblica utilità.
Il nuovo sistema che ha trovato attuazione nel dlgs n. 274, come sottolineato nella relazione al decreto, è “… una sorta di microsistema di tutela integrata in cui le funzioni conciliative del giudice di pace condizionano la creazione di un sistema di diritto penale più mite da un punto di vista delle sanzioni applicabili; alla mancata incidenza su un valore di rango costituzionale (quale la libertà personale) ben corrisponde, a sua volta, una deformalizzazione degli strumenti processuali che conduce ad una semplificazione ulteriore rispetto a quella già operata con il rito monocratico nei procedimenti ordinari…”.
Nelle aspettative del legislatore si è inteso realizzare una giustizia più semplice e lineare, più vicina alla comprensione e alle aspettative dei cittadini, all’insegna di un diritto penale “più leggero”, dal “volto mite”, che punta dichiaratamente a valorizzare la conciliazione tra le parti come strumento privilegiato di risoluzione dei conflitti.
Sarà la pratica delle aule di giustizia a dare, se del caso, conforto a queste speranze o a richiedere nuovi e più significativi interventi correttivi.
In questo intervento verranno approfondite le definizioni alternative del procedimento penale disciplinate al capo V del dlgs 274 del 2000: l’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto (art. 34), e l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie (art. 35).
Si tratta di istituti inediti, il primo di carattere processuale esclude la procedibilità (art. 34), il secondo di carattere sostanziale estingue il reato (art. 35), che il legislatore ha ritenuto opportuno sperimentare in un procedimento semplificato e circoscritto, in vista di un ampliamento futuro, se e in quanto tale sperimentazione produca gli esiti sperati.
In tal senso la stessa Relazione governativa, la quale ritiene che: “… gli istituti di cui agli artt. 34 e 35… siano destinati a delineare un modello di giustizia… che svolge una funzione ancillare rispetto a quello tradizionale, ma destinato ad assumere in futuro ampia diffusione, previa la sua positiva sperimentazione nel campo della prassi”.
Ad una prima lettura delle norme contenute nel capo V si potrebbe ritenere che esse perseguono unicamente l’obiettivo di garantire una migliore tenuta del sistema giudiziario, riducendo il numero dei procedimenti pendenti così da ottimizzare la resa del “servizio giustizia”.
Tuttavia, con una analisi più attenta, si cercherà di dimostrare come l’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto (art. 34) e l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie (art. 35) mirano in realtà ad una duplice esigenza: da un lato quella di deflazione del carico giudiziario, così come dichiarato dallo stesso legislatore; dall’altro quella di dare concreta attuazione al principio di sussidiarietà del diritto penale, in forza del quale, essendo la pena la sanzione più severa e afflittiva tra quelle utilizzabili dall’ordinamento giuridico, essa deve essere prevista e applicata solo nei casi in cui il fatto-reato esprime un particolare disvalore sociale.
Da una parte, la particolare tenuità del fatto mira ad una riduzione del contenzioso penale attraverso una rinuncia integrale alla pretesa punitiva, attuando i principi di sussidiarietà e meritevolezza della pena, dall’altro, le condotte riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riparazione e prevenzione, non solo sono in grado di perseguire un’esigenza di deflazione, ma conservano per l’autore del reato una sostanziale natura sanzionatoria.
Risulterà pertanto evidente come quell’esigenza di deflazione, che ha avuto un ruolo decisivo nel dare impulso alla riforma del giudice di pace (così come nell’ispirare l’intervento normativo della L n. 689 del 1981) costituendo anzi lo scopo primario dichiarato da perseguire, sia passata in secondo piano, finendo per rappresentare solo una conseguenza della ritrovata attenzione del legislatore verso le più pregnanti problematiche attinenti la potestà punitiva.

1. La particolare tenuità del fatto
L’istituto della “particolare tenuità del fatto” come causa di improcedibilità muove dal presupposto che, negli ordinamenti contemporanei, caratterizzati dall’ipertrofia del sistema penale, l’obbligo astratto del perseguimento di tutti i reati non possa trovare pratica attuazione.
Esportando sul terreno della legislazione ordinaria un meccanismo deflattivo già operante, pur con qualche distinguo, nel processo minorile, il dlgs 274/2000 segna l’esordio dell’istituto sul terreno della legislazione penale comune.
Sul piano strutturale e sistematico, il perno della causa di improcedibilità è rappresentato dalla categoria della “tenuità” dell’illecito, quale elemento di una strategia deflattiva che non si risolve nella mera abolizione.
In questi casi, il fatto, seppure offensivo, risulta “graduabile verso il basso” in termini di complessivo disvalore, così da non giustificare l’esercizio dell’azione penale.
L’istituto disciplinato all’art. 34 presuppone l’esistenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, tuttavia segnato da una generale esiguità della condotta lesiva, e affiancato, come si vedrà meglio più avanti, dall’inesistenza di un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento. Il concetto di “graduabilità” investe tutti gli elementi costitutivi del reato e rende possibile individuare “fattispecie bagatellari” che non giustificano l’esercizio dell’azione penale.
Il fatto che l’istituto venga configurato come condizione di improcedibilità non comporta la violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Occorre allontanarsi da quelle posizioni secondo le quali tutte le notizie di reato che risultano fondate devono dare luogo ad esercizio dell’azione penale, e, invece, considerare l’art. 112 cost. quale principio di legalità processuale che impone al legislatore di formulare le condizioni di improcedibilità secondo criteri sufficientemente determinati, di modo da escludere un giudizio di mera opportunità, quindi eccessivamente discrezionale, sull’esercizio dell’azione penale.
Nella norma dell’art. 34, viene in primo luogo in considerazione, nell’ambito dell’elemento oggettivo del reato, l’esiguità del danno o del pericolo, come elementi costitutivi e forme di manifestazione della condotta offensiva.
Si pensi, in proposito, alle ipotesi in cui l’illecito penale si risolve nella causazione di un danno particolarmente tenue, come può accadere in taluni reati contro il patrimonio, ovvero in alcune forme di attacco al bene dell’integrità fisica produttive di minime lesioni.
Proprio il riferimento all’esiguità del danno o del pericolo fa sì che questa valutazione possa riguardare anche il disvalore della condotta nei reati sprovvisti di evento naturalistico (c.d. reati di pura condotta).
Viene poi in considerazione il grado della colpevolezza.
Non vi è dubbio che il giudizio di esiguità possiede, in questo caso, una portata più facilmente riconoscibile: si rifletta sulle ipotesi di dolo di impeto, di dolo eventuale, di colpa lieve.
Una volta accertata la particolare tenuità del fatto il giudice deve verificare la sussistenza dell’occasionalità della condotta.
Si tratta di una valutazione di carattere specialpreventivo: come emerge nella Relazione governativa: “…una serie di fatti scarsamente lesivi può spesso sancire l’inizio di una carriera criminale.
Di conseguenza, il fatto bagatellare consumato da un autore “non bagatellare”… deve sfuggire al filtro della improcedibilità, quando, ad esempio, costituisce la spia della capacità a delinquere nel contesto delle tipologie criminose interessate dall’istituto”.
In proposito sono state offerte due accezioni del concetto di occasionalità: una in chiave cronologica, un’altra in chiave psicologica.
Nel primo caso la condotta è occasionale quando rappresenta un evento isolato nella vita del soggetto, nel secondo caso quando non è frutto di una scelta premeditata.
Con riguardo alla norma in esame questa interpretazione è da preferire.
Pertanto, pur tenendo conto del dato cronologico, è da considerarsi occasionale la condotta determinata da particolari circostanze che non si verificano generalmente o normalmente, quella condotta che è frutto di una “sbandata”, collocandosi in un contesto psicologico-emotivo del tutto particolare, eccezionale ed episodico, una condotta pur reiterata, ma non sistematica, cioè tale da non manifestare una tendenza a delinquere.
La declaratoria di improcedibi

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01/02/2015