Cristiano Morabito

Segni particolari: pilone

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Con più di cento presenze in azzurro, Martin Castrogiovanni è diventato una delle icone del rugby italiano. Lo abbiamo incontrato alla vigilia del 6 Nazioni 2015

Segni particolari: pilone

Quando si parla di rugby azzurro il suo volto salta subito in mente: fisico imponente e look aggressivo che fa pensare a una persona che non vorresti mai incontrare in un vicolo buio di notte. Ma stavolta, e questo è il caso-simbolo, bisogna davvero dire che l’apparenza inganna. Dietro quelle fattezze si cela un vero e proprio gigante buono, ma solo fuori dai campi da rugby. Martin Castrogiovanni, per tutti “Castro”, professione pilone, classe 1981, nato in argentina ma con origini siciliane (i nonni erano di Enna), è il sesto rugbista italiano a entrare nel prestigioso club dei “Centurions”, ossia quei giocatori che hanno superato le 100 presenze con la maglia della Nazionale. Lo abbiamo incontrato prima sul campo delle Fiamme oro rugby durante le riprese dell’ultimo spot della Peroni e poi nel ritiro dell’Acqua acetosa che precede il Sei Nazioni 2015. Tra una foto con i tifosi, ai quali non si sottrae mai, e un caffè al bar del Centro di preparazione olimpica, ci ha raccontato la sua storia.

Quando e perché hai deciso di giocare a rugby?
Ho iniziato molto tardi, a 18 anni. Mia madre non voleva che giocassi a rugby perché aveva paura che mi facessi male, anche se la maggior parte dei miei amici erano rugbisti e, vedendomi con questo fisico imponente, mi spingevano a provare. All’epoca giocavo a basket, ma mi ero un po’ stufato e allora dovevo escogitare uno stratagemma che mi permettesse di smettere e che non dipendesse totalmente dalla mia volontà: così durante una partita ho dato una “spintarella” all’arbitro, con la conseguenza di una sospensione a vita dai campi da basket. Fu una vera e propria liberazione che mi permise di iniziare a dedicarmi alla palla ovale.

Nel rugby si dice che c’è chi suona il pianoforte e chi, invece, lo trasporta…
Sono sempre stato un pilone. I primi tempi ho fatto un po’ di fatica a calarmi nel ruolo, perché mi piaceva stare anche in seconda linea, però il mio allenatore mi voleva lì davanti perché diceva che avevo il fisico del pilone del futuro. In prima linea non mi divertivo tanto, perché lì davanti è dura davvero. Io sono uno di quelli che il pianoforte lo trasporta e che quando si rialza si accorge che l’azione oramai è dalla parte opposta in cui si trova. Ma non mi lamento: è quello che mi piace fare nella vita.

Sogni ancora ogni tanto di giocare in un altro ruolo?
No. Noi piloni, che siamo quelli sempre più cicciottelli e lenti, avremmo sempre voluto essere il numero 10, l’apertura. Ma il fisico non ce lo permette. Come quando si gioca a calcio che c’è sempre quello sovrappeso che pensa di essere Maradona o Messi, ecco noi piloni siamo un po’ così! Ok dai, diciamo che sono robusto… ma comunque lento!

Hai superato le 100 presenze in azzurro. Cosa ricordi del tuo esordio con la Nazionale?
Avevo tanti anni in meno… Era la partita con gli All Blacks del 2002, ancora giocava quel fenomeno di Jonah Lomu, e fu molto emozionante, anche perché iniziai con alcuni compagni con cui gioco ancora oggi e con i quali ho stretto una profonda amicizia, come Sergio (Parisse, il capitano, ndr) e Andrea Masi. Con loro siamo un po’ “i vecchi” del gruppo. Eravamo tanto giovani e, soprattutto, avevo qualche capello in più rispetto a oggi.

Il rugby è uno sport fatto di tante regole (oltre 200), ma anche di solide tradizioni. Tra queste c’è quella della “matricola”, riservata a tutti gli esordienti…
Diciamo che la mia matricola non fu una delle più fortunate, anche perché i “vecchi” di allora non erano proprio teneri con noi. La matricola a quel tempo consisteva nel pagare agli “anziani” qualsiasi cosa volessero, per cui i guadagni della prima partita andavano quasi tutti a coprire i desideri degli anziani. Se poi si aveva la “sfortuna” di andare in meta all’esordio allora era sicuro che il primo stipendio sarebbe stato interamente devoluto alla causa. Diciamo che una volta questa sorta di nonnismo era molto più pesante di oggi che, al massimo, si concretizza in una rasatura a zero dei capelli e qualche bicchierino di troppo.

La mischia è anche un po’ una metafora della vita. Qual è il segreto per far sì che 8 persone si muovano all’unisono?
Quello della mischia è un altro sport all’interno del rugby. Spesso anche gli arbitri hanno difficoltà a capire cosa stia accadendo. Penso che definirla come una metafora della vita sia più che giusto, perché in mischia per andare avanti non hai bisogno solo dei piloni più forti o delle seconde linee più alte e pesanti, perché se non si lavora insieme facendo un movimento coordinato per avanzare, allora non c’è nulla da fare, si viene inesorabilmente “arati” dal pacchetto avversario. È necessario lavorare tutti all’unisono, allora si va avanti e si guadagnano anche pochi centimetri, ma insieme. Come nella vita o nel mondo del lavoro: un gruppo unito arriva più facilmente all’obiettivo prefissato. La mischia è soprattutto affiatamento che non arriva in un attimo, ma solo dopo tanto allenamento in gruppo e sacrificio sul campo.

Insieme ai tuoi compagni e amici nella vita Sergio Parisse e Gonzalo Canale hai anche scritto un libro sul rugby e nel quale dici che in campo non hai paura di nessuno. Quali sono invece le tue paure fuori dal rettangolo verde?
Abbiamo cercato di scrivere un libro non composto solo di aneddoti su questo sport, ma per raccontare il rugby nelle diverse fasi del gioco con un esempio per ognuno di noi tre. Una delle mie paure principali? Beh, forse delle donne (dice ridendo)! Noi uomini diciamo sempre che a comandare in casa siamo noi, ma siamo consapevoli che questa è una bugia perché dentro di noi sappiamo che il vero potere ce l’hanno le donne! A parte gli scherzi, forse la mia più grande paura è quella di sbagliare o di non essere all’altezza di qualcosa. Odio sbagliare e allora, fuori dal campo, in quel che faccio cerco di essere il più preparato possibile, come ad esempio quando giro gli spot per gli sponsor.

A proposito di spot, il grande pubblico ti ha conosciuto e apprezzato per la tua autoironia e il tuo saperti mettere in gioco
È vero, mi diverto e spesso mi prendo un po’ in giro. Queste cose le faccio perché penso che il rugby è sì importante per me, ma non è tutto nella vita. Se si mettono tutte le energie al servizio di una sola cosa e poi questa, disgraziatamente, non va più bene, allora si sta male anche con se stessi. Io devo pensare anche a quel che verrà dopo lo sport, anche perché il rugby non può esistere per sempre così come, invece, è il mondo del pallone per un calciatore. Nella vita ho sempre voluto fare ciò che mi divertiva e a rugby giocherò finché proverò piacere nel farlo; inutile continuare rischiando di fare figuracce o, peggio, di farsi male seriamente. Piuttosto è meglio fare un passo indietro e guardare al futuro, come quando giocavo in Inghilterra che per un infortunio sono dovuto restare fermo per otto mesi e allora ho impiegato le mie energie per aprire un ristorante.

Questo è un anno particolare per il tuo sport: ti accingi a giocare il tuo tredicesimo 6 Nazioni e a giugno ci sarà il Mondiale in Inghilterra (il quarto per te). Da “anziano” di questo gruppo puoi dirci come vedi il futuro del rugby italiano e quali sono gli eredi di una generazione straordinaria di rugbisti come quella cui appartieni?
Lo sport, come la vita, è fatto di cicli. Ci sono tanti ragazzi nuovi già ora e c’è un movimento dietro che è vivo e vegeto. Questi ragazzi vanno formati e bisogna far fare loro esperienza in modo tale che possano raccogliere l’eredità di noi “anziani” e ce ne sono molti anche in questo raduno che stiamo facendo qui a Roma. Alcuni hanno già giocato, altri sono alla loro prima esperienza ad alto livello ed è bello vederli qui con noi, ma allo stesso tempo è anche brutto perché ci si rende conto che la fine della carriera è più vicina.

Gli ultimi risultati della nostra Nazionale non sono stati dei migliori, eppure le partite degli Azzurri registrano quasi sempre il tutto esaurito negli stadi. Perché?
Beh, innanzitutto ci tengo a dire che anche se non vinciamo tante partite, molto poche in verità, abbiamo dei tifosi splendidi che comunque ci sostengono sempre e comunque. Penso che alla gente piaccia l’atmosfera che si respira negli stadi del rugby. È l’unica occasione in cui, ad esempio, un italiano e un inglese possono guardarsi una partita fianco a fianco, bevendosi una birra e tifando per la propria squadra senza che accada nulla. Questa è la forza del mio sport!

Guardandoti mentre giochi, non si può fare a meno di notare dei nomi scritti sulle fasciature delle braccia, uno di quelli che non manca mai è quello di Olivia.
Tutto cominciò qualche anno fa quando un mio caro amico era in attesa di diventare papà, ma dagli esami clinici i medici pensavano che la bambina che aspettava avesse qualche problema. Così decisi di scrivere il nome della piccola Olivia già prima che nascesse sulle fasciature del braccio. Quando venne alla luce si scoprì che era sordomuta. Da quel giorno porto sempre con me il suo nome sulle braccia, insieme anche a quello di persone importanti della mia vita. Questa è stata anche la spinta per far nascere un’associazione della quale sono il testimonial, che per l’appunto porta il nome di Olivia, dedicata all’assistenza alle famiglie con figli sordomuti e il cui fine è quello di fornire interpreti da affiancare ai bambini che hanno questo problema per rendere la loro vita migliore. Una delle più grandi soddisfazioni è stata quella di portare in campo con me i bambini di Olivia che, in occasione del match tra Italia e Galles del Sei Nazioni 2013, hanno cantato l’Inno di Mameli con la Lingua dei segni insieme alla squadra e a più di 60.000 spettatori che gremivano lo stadio Olimpico di Roma. Indimenticabile!

Dunque il tuo rapporto con i bambini è ottimo. Nel futuro ti ci vedi come allenatore delle giovanili?
Ogni estate organizzo un campus a Jesolo (la “Castro Rugby Academy”, ndr), proprio dedicato ai più piccoli, con i quali ho un rapporto fantastico, anche perché mi considero un bambino grande! Quindi mi ci vedrei bene, a differenza di un club o di una nazionale, perché per farlo bisogna essere anche dei politici e proprio non fa per me. Preferisco allenare i bambini: ti ascoltano e ritengo di potergli trasmettere tanto della mia esperienza sul campo. E poi soprattutto perché mi diverto davvero!

Nel 2010 hai scoperto di essere celiaco, come è cambiata la tua vita?
I primi sei mesi sono stati davvero duri, perché un conto è scoprirlo alla nascita, altro è farlo a 27 anni, quando per forza devi rivoluzionare radicalmente la tua alimentazione. Prima di scoprire di essere celiaco tendevo a prendere molti chili, ora diciamo che questa intolleranza mi aiuta anche a mantenere un buon peso forma. Però alla fine ci si abitua a tutto, ma ci sono cose che mi mancano davvero, una di queste è sicuramente la pizza, ma anche la birra che per noi rugbisti è una bevanda irrinunciabile. Ora però la fanno anche senza glutine: sono rovinato!

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Il Sei Nazioni 2015 ai nastri di partenza
di Andrea Cimbrico*

Se volete, vado contro regole – e farlo sul mensile della polizia, capirete, ha tutto un altro sapore – e faccio un pronostico: non ci sono pronostici attendibili. Perché l’RBS 6 Nazioni che parte il prossimo 7 febbraio, per tutti noi molto più semplicemente “Il Torneo”, è fatto così, da 124 edizioni. Intellegibile. Impossibile indovinare prima chi sarà la rivelazione, chi la delusione, se ci sarà il Grande Slam o se qualcuno fallirà la grande impresa con pochi minuti sull’orologio dell’ultima partita dell’ultima giornata. È l’incertezza che rende magico questo campionato che ritorna puntuale ogni inverno e che quest’anno si prolungherà sino a primavera, sino al 21 marzo che laureerà campione una tra Inghilterra, Francia, Irlanda, Galles, Scozia e Italia.
Noi siamo gli ultimi arrivati, la nostra prima partita giocata (e vinta) è datata il 5 febbraio del 2000, quando al di là della Manica già se le suonavano da oltre un secolo su campi leggendari come Twickenham e Murrayfield o all’Arms Park e a Lansdowne Road, due impianti che nel recente passato sono risorti sulle ceneri dei precedenti: oggi si chiamamo Millennium Stadium a Cardiff e Aviva Stadium a Dublino, ma le comodità moderne non hanno tolto loro l’antica, fascinosa patina che li avvolge.
Per l’Italia, guidata dal CT Jacques Brunel, il Torneo 2015 arriva dopo un 2014 difficile, chiuso con l’ultimo posto in classifica a marzo, proseguito con un tour nell’Emisfero Sud non rallegrato da alcuna gioia, terminato con un novembre internazionale in cui capitan Sergio Parisse e compagni hanno ritrovato spirito e sintonia battendo Samoa, sprecando ma generalmente convincendo contro l’Argentina, tenendo testa agli Springboks sudafricani due volte campioni del mondo.
Dal 7 febbraio, dicevamo, si ricomincia: prima uscita in casa contro l’Irlanda, terza nel ranking mondiale con un 2014 quasi perfetto, 9 vittorie e una sola sconfitta, gli scalpi prestigiosi di Australia e Sudafrica da esibire nell’anno del ritiro di uno dei figli prediletti dell’isola smeraldo, Brian O’Driscoll. Poi due trasferte: nel giorno di San Valentino in casa dell’Inghilterra, nella fortezza di Twickenham, il 28 febbraio a Edinburgo, contro gli highlanders, con il sogno non troppo nascosto di restituire il favore del 2014, vittoria scozzese allo scadere all’Olimpico. Infine, un doppio impegno in casa con la Francia il 15 marzo e contro il Galles sei giorni più tardi: l’Italia ci prova in campo, con una banda-Brunel che conferma tanti volti noti e lancia alcuni giovani chiamati a giocarsi le carte nell’anno della Rugby World Cup di settembre, in Inghilterra.
Fuori dal campo, con la grande festa del Foro Italico, con il terzo tempo infinito che da sempre fa da cornice alle partite della Nazionale, c’è solo da vivere tre grandi pomeriggi di sport.
*media manager – Federazione italiana rugby

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Studiare con le Fiamme
di Roberto Parretta*

I più felici sono i genitori. Perché i ragazzi studiano e non devono rinunciare allo sport. Certo, è impegnativo. Dopo scuola hanno appuntamento alla stazione di Magliana, dove vengono raccolti dal bus delle Fiamme oro che li porta alla “Gelsomini”: dove per due ore studiano e poi si allenano. «Alla sera i genitori li vengono a riprendere che tutto è risolto, non hanno compiti da fare», dice Umberto De Nisi, responsabile del Campus. «Oggi in famiglia i genitori lavorano entrambi, è difficile seguire i ragazzi nello studio a casa». È da questo presupposto che tre anni fa le Fiamme oro rugby hanno partorito il loro Campus, allargato quest’anno agli Under 14. In tutto sono 40. Per fargli capire che portare avanti con successo gli studi non preclude una carriera rugbistica ad alto livello, gli hanno presentato tre esempi di lusso: l’enorme pilone Jannie du Plessis, uno dei primi a giocare, e non in una squadra qualunque, ma negli Springboks sudafricani, e a esercitare contemporaneamente la professione di medico; l’argentino Felipe Contepomi, che è riuscito a laurearsi in chirurgia e poi successivamente a esercitare mentre giocava per il Leinster e per i Pumas; e il nazionale gallese Jamie Roberts, medico anche lui. «Partecipano al Campus il 70% dei giocatori delle Under 14, 16 e 18», spiega Sven Valsecchi, l’ex allenatore della prima squadra e ora spostato nel settore giovanile. Dove si creano i giocatori di domani. Nel Gruppo sportivo delle Fiamme oro non esiste un altro sport che abbia lanciato questo genere di iniziative. «Il Campus ha un costo di 10mila euro, coperto in parte dal contributo federale». Altre squadre dell’Eccellenza con quel contributo ci pagano giocatori stranieri... «Ai genitori costa 20 euro al mese. Una cifra simbolica, perché così evitiamo che si vada a sottovalutare l’impegno che le parti si prendono, la qualità che offriamo». I ragazzi arrivano e ad accoglierli trovano le due tutor Maria Rosaria Castaldi e Giuditta Schiano Moriello. L’impressione è quella di un laboratorio: chi ha i suoi compiti da fare, l’interrogazione da preparare. E per ogni problematica o carenza si chiede l’aiuto della prof. Ovviamente i ragazzi delle superiori hanno esigenze diverse. I tutor in tutto sono quattro. «L’anno scorso – prosegue De Nisi – su 22 ragazzi c’è stato un solo rimandato in una materia». Risultati che parlano da soli. «La cosa più interessante è che imparano a organizzarsi. Dalla mattina devono avere già chiaro su cosa portare al pomeriggio per preparare le materie del giorno dopo. E far coincidere l’impegno sportivo. È evidente la gioia dei genitori che non hanno più l’assillo di seguirli nei compiti, con una positiva ricaduta sulla frequenza al campo, che è più assidua: è noto che se a scuola le cose vanno male, la prima cosa che un genitore elimina è l’attività sportiva». E a chi dice che i ragazzi vengono chiusi in una caserma, si può serenamente replicare che un camp questo è: un convitto nel quale atleti studiano e praticano la loro attività nei paesi civili dove lo sport è parte integrante del percorso di crescita delle persone. Maria Luisa Ferrari, primo dirigente della Polizia di Stato, in servizio alla Sovraintendenza centrale dei servizi di sicurezza della presidenza della Repubblica, è la responsabile del rapporto fra l’Istituzione e i genitori, il figlio Andrea sta preparando una tesina per l’esame di terza media sul rugby. «Sta esagerando, ha costruito anche un campo con le tribune. All’inizio – spiega – si può partire anche con grosse lacune e anche insufficienze, alla fine poi il risultato è ottimo. I ragazzi in questo ambiente sono in competizione con loro stessi, sono continuamente stimolati, anche dal confronto culturale fra le diverse tipologie di scuole che frequentano».
Fra i quattro tutor c’è anche un arbitro federale, Emanuele Tomò, che insegna materie scientifiche. «Una volta saputo del Campus – racconta – ho dato la mia disponibilità. Visto che, oltre a insegnare, potevo anche allenarmi e continuare a seguire l’accademia Under 18. È stato per me come iniziare una partita, davanti a 30 perfetti sconosciuti che sono lì per un obiettivo, che sia vincere in campo o imparare, ai quali sei chiamato a prestare assistenza. E, come per un arbitro, saper prendere le giuste decisioni equivale a dare le giuste risposte, cercando di entrare in sintonia con chi si ha davanti, capirne le caratteristiche per trovare il metodo più appropriato per comunicare, analizzare per scovare le lacune e colmarle. E constatare la gratitudine dei genitori all’ultima festa di Natale è stata una grande soddisfazione». A Tomò capita quindi di ritrovarsi a proseguire una spiegazione sull’atomo in calzoncini e scarpini, ma anche che un ragazzo poi gli imponga di fare un’altra serie di sprint. «E se qualcuno prende solo 6 a un compito, prometto qualche cartellino giallo...». 
L’atmosfera durante le due ore di studio può apparire rigida, in realtà i ragazzi sono semplicemente composti, responsabili. «Gli viene offerta continua opportunità di arricchimento – fa notare la prof. Castaldi, 30 anni, che copre le materie umanistiche, diritto, economia, francese e inglese ed è la responsabile didattica del Campus –Gestire tante materie ed esigenze è il nostro punto di forza, tutti devono sentirsi tutelati. Se hanno meno compiti o non hanno interrogazioni da preparare, vengono comunque qui a studiare due ore».
Le Fiamme oro rugby sono espressione della Polizia di Stato e quindi la loro è pur sempre un’attività istituzionale: «Se un ragazzo decide di far sport con la Polizia e gli viene permesso di studiare e migliorarsi, ecco che la funzione, il compito dello Stato viene compiuto. Perché il compito non è solo quello di intervenire dove le cose non vanno, ma investire anche nella formazione. Il Campus è una iniziativa che tende a indirizzare i ragazzi, a dargli direttive maggiori oltre a quelle che arrivano già dalla famiglia e dalla scuola. La mia idea è quella di partire quanto più piccoli sono, annaffiare la pianticella quando è piccolina». Uno dei migliori risultati raggiunti dal Campus è relativo alla sicurezza: «Davanti all’interrogazione sono meno timidi». Alla prof. Giuditta Schiano, che di rugby era a digiuno, piace soprattutto una cosa: «Il terzo tempo... So che in campo rincorrono ‘sta palla, ma per una lezione sul gioco ci siamo dati appuntamento a fine anno scolastico». Al Campus ci si propone di dare ai ragazzi un metodo, visto che comunque a un certo punto dovranno viaggiare da soli. Anche se per cinque è stata fatta un’eccezione, sono dell’Under 18 e furono i primi a entrare nel Campus: il capitano Daniele Di Pietro, Diego Mirabella, Yaroslav Koval, Valerio Mastroianni e Flavio Romualdi. Per loro, si è parlato di esempi stranieri, ma non va dimenticato che anche nella nostra Nazionale ci sono vari laureati: Leonardo Ghiraldini (economia), Antonio Pavanello (architettura), Giulio Toniolatti (economia). Le Fiamme oro con il loro Rugby Campus stanno innaffiando le pianticelle, quando arriverà il primo laureato sarà più di uno scudetto. E non è detto che non ci si arrivi in contemporanea.
*giornalista de La gazzetta dello sport

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Una storia speciale
Ci sono storie particolari, delle quali abbiamo sentito solo parlare in televisione o che abbiamo letto sui giornali, con protagonisti uomini e donne che hanno fatto parte di momenti che hanno segnato i nostri tempi. Una di queste riguarda un periodo storico in particolare: erano gli Anni ’90 e la caduta del Muro di Berlino creò scossoni in tutto il Mondo, soprattutto in Europa dove insieme ai mattoni del Muro crollarono anche le dittature comuniste del Vecchio Continente. Fu proprio in quel periodo che iniziarono le migrazioni verso i Paesi più ricchi, visti quasi come una terra promessa da chi, fino ad allora, era stato oppresso dal giogo dittatoriale. Le immagini di quelle che vennero definite boat people, navi delle quali non si riusciva a capire la forma a causa delle migliaia di persone assiepate sui ponti fino ai fumaioli, sono l’emblema della disperazione di interi popoli alla ricerca di una nuova vita lontano da casa.
A prima vista non sembrerebbe una storia che si possa legare allo sport, e in special modo al rugby, e invece si intreccia a doppio filo con la palla ovale, quando a raccontarla è uno sportivo la cui particolarità è quella di essere un poliziotto, un giocatore delle Fiamme oro rugby, che di quella storia ha fatto parte.
«Se oggi sono qui a raccontare la mia storia, lo devo solamente a mio padre che più di vent’anni fa ha iniziato un’avventura che non sapeva dove lo avrebbe portato». Chi parla è Laert Naka, pilone alla sua seconda stagione in maglia cremisi, che, nato in Albania nel 1989, ha seguito il papà nella sua avventura fino a diventare a tutti gli effetti cittadino italiano, ma che comunque non dimentica da dove è venuto e che fieramente racconta la sua incredibile storia: «Della mia infanzia in Albania, sebbene fossi molto piccolo, ricordo la grande povertà che si poteva quasi toccare con mano e mi sono rimaste impresse le ferite che avevo sui piedi perché, andando in giro scalzo, mi tagliavo spesso e volentieri. Come anche le mie merende che non erano particolarmente sofisticate: dovevo accontentarmi di pane, olio e sale. A Valona, dove abitavamo, la corrente c’era per due ore al giorno e l’acqua era razionata. La vita era veramente dura, così un giorno, mentre nel vicino Kosovo scoppiava la guerra, mio padre decise di andare a cercare fortuna altrove. All’inizio optò per la Grecia, ma non andò bene, e allora prese il coraggio a due mani e si imbarcò su una di quelle navi che facevano avanti e indietro con le coste italiane. Era un peschereccio con il doppiofondo nel quale erano stipate decine di persone come sardine, in condizioni veramente difficili e con una piccola fessura per respirare. A qualche miglio al largo della costa italiana, gli scafisti fermarono la barca e gli dissero di scendere, così arrivarono a nuoto sulle spiagge pugliesi».
«Da lì si trasferì in Sicilia, a Macchia di Giarre – continua Laert – dove lui, che a Valona era veterinario, trovò lavoro in un allevamento di tori. Fu allora che io, mio fratello Gjergij e mia madre Lefterie (nome di origine greca che significa “libertà”, ndr) lo raggiungemmo. Avevo sei anni e non parlavo una parola di italiano, che poi ho imparato a scuola e guardando alla tv i cartoni animati. Purtroppo mio padre perse il lavoro e dopo una piccola parentesi come contadino, decise di nuovo di andar via e si trasferì a Treviso dove iniziò a fare il muratore, lasciando noi in Sicilia per circa sei mesi. All’epoca facevo la quinta elementare e mi ricordo questo periodo difficile come se fosse ieri, quando accompagnavamo mamma a fare la spesa con la bicicletta... e Macchia non è proprio in pianura! Alla fine abbiamo raggiunto papà in Veneto».
Ed è proprio qui nel Nordest, terra di rugbisti, che la storia di Laert Naka si intreccia con la palla ovale: «A Treviso i primi tempi ambientarsi non fu semplice per un albanese che parlava con accento siciliano, ma che nel frattempo era diventato a tutti gli effetti, insieme alla propria famiglia, cittadino italiano. Qui mi si presentò, quasi per caso, quella che mi piace definire “la mia occasione” e che, per poco, non mi sono lasciato sfuggire. Facevo le medie e un giorno venne alla mia scuola Giovanni Grespan (pilone con 19 presenze in Nazionale e attuale dirigente della Benetton Treviso, con, ndr) a parlarci del rugby. Mi vide già abbastanza grosso per quell’età e mi chiese se volevo provare a giocare a nella squadra. Lì per lì non detti peso alle sue parole ma, finito l’anno scolastico, decisi di andare alla “Ghirada” (il centro sportivo della Benetton a Treviso, ndr) a provare. E da allora non ho più smesso».
Da qui, tutto il percorso nelle giovanili fino ad arrivare al Petrarca, allenato da quel Pasquale Presutti che avrebbe ritrovato qualche anno dopo alle Fiamme oro, un grave infortunio ad un ginocchio e poi il passaggio al Mogliano, con la vittoria dello scudetto nella stagione 2012-2013. «Poi, la scelta di vestire la maglia cremisi e soprattutto quella di diventare un poliziotto – prosegue Naka – . Una scelta per me stesso, ma anche per i miei genitori, inannzitutto per mio padre che ha visto chiudersi il cerchio di tanti sacrifici fatti in passato. Devo dire con sincerità che se fossi stato al suo posto non so se sarei stato capace di fare tutto quel che ha fatto lui per noi e con la mia scelta penso di averlo in parte ripagato, senza contare la sua grande soddisfazione di vedere il proprio figlio realizzato».
E alle Fiamme arrivano le prime soddisfazioni: la maglia da titolare e la conquista del Trofeo Eccellenza nella storica finale del febbraio 2014 che dopo più di quarant’anni ha riportato una coppa pesante nella bacheca del XV della Polizia di Stato. «Penso che con questa maglia – conclude il pilone cremisi – potrò togliermi tante altre soddisfazioni in futuro. Quando finirà questa esperienza ad alto livello sicuramente indosserò la divisa, magari su una volante, così come hanno fatto molti miei compagni in passato. Ma non vorrei chiudere completamente con il rugby perché mi piacerebbe comunque mantenermi in forma giocando in qualche serie minore. Non si smette mai di essere rugbisti, lo si resta a vita. A me questo sport ha dato tanto e continua a darmi molto. È stata la mia fortuna, il mio cammino che mi ha messo sulla strada che sto percorrendo».

01/02/2015