di Irene Scordamaglia*
La lunga via contro la corruzione
La normativa di contrasto e i dubbi dell’Europa
1. Le ragioni e gli obiettivi della legge 190/2012
Con la legge 190/2012 l’Italia si è dotata di uno strumentario composito finalizzato a contrastare in maniera globale il fenomeno della “corruzione sistemica” – indicata come piaga “endemica” della struttura amministrativa dello Stato – e a dare attuazione alle indicazioni di principio contenute in diverse fonti soprannazionali. L’obiettivo della lotta all’illegalità nell’azione amministrativa è stato, così, perseguito articolando gli interventi sul duplice fronte della prevenzione e della repressione della corruzione mediante il potenziamento della trasparenza nell’esercizio delle pubbliche funzioni e attraverso la predisposizione di meccanismi di organizzazione e di controllo sulle stesse, nonché con l’inasprimento delle sanzioni previste per le condotte illecite. Tuttavia, benché queste esigenze siano state indicate come di stringente necessità, perché ”L’illegalità, dalla corruzione nell’esercizio di pubblici servizi alle violenze della criminalità organizzata, condiziona pesantemente la crescita economica e si ripercuote sulla possibilità di operare delle imprese” e…” crea distorsioni nel mercato, degrado nella società civile e nei suoi principi etici, distrugge forza lavoro, arriva a compromettere l’ecosistema del nostro territorio” il risultato auspicato dalla “novella” del 2012 non sembra essere stato raggiunto, se, a soli due anni di distanza dal varo di essa, il Consiglio dei ministri, nella seduta del 12 dicembre 2014, su proposta del ministro della Giustizia, ha approvato un pacchetto di norme destinate a essere inserite in un disegno di legge che mira a inasprire la normativa di repressione in materia di corruzione “per un più efficace contrasto giudiziario del grave fenomeno criminale”.
In particolare, con l’inasprimento delle sanzioni comminate per il delitto di “corruzione propria” (che vengono innalzate, nel minimo da 4 a 6 anni di reclusione e, nel massimo, da 8 a 10 anni di reclusione) si mira a ottenere un allungamento dei termini di prescrizione del reato e a evitare che, per effetto della scelta di un rito premiale, all’imputato possa essere irrogata una pena inadeguata rispetto alla gravità del fatto contestato; con l’estensione al mercimonio della pubblica funzione della c.d. “confisca allargata” ed il potenziamento della stessa – che dovrebbe conservare efficacia anche nell’ipotesi in cui sopravvenga una causa estintiva del reato, come ad esempio la morte del reo – si vuole utilizzare, sia in funzione deterrente che recuperatoria, una misura di sicurezza già utilizzata per intaccare le ricchezze accumulate dalla criminalità organizzata; così come, con il condizionare l’ammissione dell’imputato al “patteggiamento” all’integrale restituzione dell’utilità indebitamente locupletata per effetto della corruzione, si tende ad assicurare che in ogni caso il prezzo del reato sia assoggettato a confisca.
2. Le strategie di prevenzione della corruzione: incandidabilità e decadenza dalle cariche elettive
In attuazione di queste linee programmatiche la legge c.d. “anticorruzione” ha previsto una serie di misure dirette a prevenire il fenomeno dell’asservimento delle funzioni pubbliche a interessi di privati mediante:
l’istituzione dell’Autorità nazionale anticorruzione – individuata nella Commissione per la valutazione della trasparenza e dell’integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit) –, incaricata di svolgere attività di controllo, di prevenzione e di coordinamento delle iniziative di contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione e di redigere un Piano nazionale anticorruzione;
la predisposizione da parte di ogni singola amministrazione di uno specifico piano anticorruzione che fornisce una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione e indica gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio;
la predisposizione di una serie di strumenti diretti a potenziare la trasparenza dell’attività amministrativa – soprattutto in alcuni settori “sensibili”, come quelli degli appalti pubblici, del ricorso agli arbitri, dell’attribuzione di incarichi dirigenziali – mediante l’assolvimento degli obblighi d’informazione nei confronti dei cittadini;
l’adozione, da parte del Governo, del Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, al fine di assicurare il rispetto da parte dei pubblici dipendenti dei doveri costituzionali di diligenza, di lealtà e di imparzialità e la definizione, da parte di ciascuna pubblica amministrazione, di un proprio codice di comportamento che integri e specifichi il Codice di comportamento predisposto dal Governo;
la predisposizione di una disciplina rigorosa delle incompatibilità, del cumulo di impieghi e di incarichi ai dipendenti pubblici;
la determinazione della tutela del pubblico dipendente che denunci o riferisca condotte illecite apprese in ragione del suo rapporto di lavoro;
l’istituzione presso ogni prefettura di un elenco dei fornitori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa e l’incremento del catalogo dei reati cui consegue, in ipotesi di condanna dell’appaltatore, la risoluzione del contratto con una pubblica amministrazione;
la fissazione di un obbligo di adeguamento ai principi fondamentali contenuti nella legge da parte delle Regioni e degli enti locali, a carico dei quali incombe il dovere di redigere il c.d. “Piano triennale di prevenzione della corruzione”, sulla cui osservanza vigila il Responsabile della prevenzione della corruzione, individuato normalmente nel Segretario, il quale, entro il 15 dicembre di ogni anno deve redigere una relazione annuale, a consuntivo delle attività svolte nello stesso anno, sull’efficacia delle misure di prevenzione definite dai Ptpc; questi, in caso di ripetute violazioni delle misure di prevenzione previste dal piano, risponde ai sensi dell’art. 21 del dlgs 165/2001, nonché, per omesso controllo, sul piano disciplinare. La violazione, da parte dei dipendenti dell’amministrazione, delle misure di prevenzione previste dal piano costituisce illecito disciplinare.
L’inasprimento della disciplina del giudizio di responsabilità amministrativa nei confronti del dipendente pubblico che abbia causato un danno all’immagine della P.A.;
l’ampliamento del novero delle cause ostative alle candidature e dei casi di decadenza di diritto dalla carica elettiva o di governo a seguito di condanne definitive per delitti non colposi.
Assai significativo, per i riflessi di carattere ordinamentale, si è rivelato proprio il problema degli effetti dell’applicazione delle norme della L. 190/2012 che hanno stabilito, sia pure per il tramite di un successivo decreto legislativo, l’incandidabilità e la decadenza di diritto in caso di condanne per delitti non colposi.
Le dette misure, in effetti, sono cadute sul capo del senatore Berlusconi, che ne ha denunciato il contrasto con le norme costituzionali e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo al cospetto del giudice di legittimità. Il quale, tuttavia, con la Sentenza n. 16206 del 14 aprile 2014, nel rigettare il ricorso presentato dall’imputato contro la sentenza emessa della Corte d’Appello di Milano che, nel rideterminare la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, gli aveva applicato al contempo le sanzioni previste all’art. 15 c. 2 dlgs 235/2012 (emanato in attuazione della delega contenuta nell’art. 1, comma 63, L. 190/2012 e che si propone come il testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di decadenza), ha respinto la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Strasburgo della questione relativa alla cumulabilità della sanzione penale accessoria dell’ineleggibilità prevista dagli artt. 12 dlgs n. 74/2000 e 28 2° comma cp, conseguente alla condanna, con la incandidabilità e/o decadenza dal mandato parlamentare prevista dall’art. 15 dlgs n. 235/2012.
La S.C., infatti, dopo avere implicitamente richiamato il fine perseguito dalle norme sulle cause di incandidabilità e di decadenza contenute nel dlgs n. 235/2012 – che s’identifica nell’estromettere dallo svolgimento del munus publicum quei soggetti la cui “indegnità morale” a ricoprire determinate cariche si ricolleghi a un accertamento compiuto in sede giurisdizionale e divenuto irrevocabile – ha stabilito che, poiché l’incandidabilità e/o la decadenza non vengono in rilievo come un effetto penale o una sanzione accessoria alla condanna, bensì come un effetto di natura amministrativa della condanna medesima, il principio del ne bis in idem affermato dalla sentenza Cedu Grande Stevens c/Italia (che ha stabilito che un soggetto non può subire per lo stesso fatto una duplicità di sanzioni, una di natura formalmente amministrativa ma sostanzialmente di carattere penale per la severità e afflittività degli effetti sullo status della persona, e un’altra di natura propriamente penale) non era invocabile nel caso concreto, poiché con riguardo ad esso non veniva in rilievo un cumulo di sanzioni ma il concorso di due misure – quella della perdita dell’elettorato attivo e passivo, prevista dall’art. 28 cp, e quella dell’incandidabilità di cui all’art. 15 dlgs n. 235/2012 – che ben possono essere applicate contestualmente, avendo come riferimento fonti normative diverse.
Con l’ordinanza n. 1801 del 30 ottobre 2014, il Tar Campania Napoli, sez. I ha, tuttavia, sospeso, in via cautelare, il provvedimento prefettizio che ha applicato al sindaco De Magistris la misura della sospensione e ha rimesso alla Consulta la questione di legittimità costituzionale della menzionata disposizione di cui all’art. 11, comma 1, lett. a) dlgs n. 235 del 2012 – in relazione all’art. 10, comma 1, lett. c) del medesimo decreto legislativo – per contrasto con gli artt. 2, 4, comma 2, 51, comma 1, 97, comma 2, 117 Cost., oltreché degli artt. 6 e 13 della Cedu – con specifico riguardo alla possibilità di applicazione retroattiva della citata misura in relazione a fatti commessi dal soggetto cui era stata irrogata prima dell’entrata in vigore della norma che la prevede.
Il giudice amministrativo ha, infatti, ritenuto che la sospensione di diritto dalla carica elettiva costituisce una misura accessoria che consegue a una sentenza di condanna non passata in giudicato relativa all’accertamento di un fatto anteriore all’elezione: sicché, in ragione della sua afflittività sostanziale, a prescindere dal nomen iuris di sanzione amministrativa – tanto più che non vi è alcuna norma della legge Severino che dispone la retroattività delle sanzioni (amministrative) da essa previste, né una norma di carattere transitorio –, non ne è consentita – ai sensi dell’art. 25 2°comma Cost. – un’applicazione retroattiva, tenuto anche conto che essa cade su un amministratore eletto con il suffragio popolare.
3. Il sistema di repressione della corruzione
Con la l. 6 novembre 2012 n. 190 è stata varata, altresì, la riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, il cui snodo fondamentale va colto “nel cambio d’abito del privato”, il quale, se indotto dal pubblico agente – che abbia abusato della sua qualità o dei suoi poteri – alla promessa o alla dazione indebite di utilità, non è più vittima – perciò impunita – del delitto di concussione, bensì concorrente necessario nel nuovo reato di induzione indebita.
In effetti, le ragioni di politica criminale che hanno ispirato la “novella” del 2012 devono essere individuate, per un verso, nell’esigenza di assegnare il dovuto rilevo alle raccomandazioni internazionali, che avevano segnalato la necessità di evitare che la fattispecie di concussione, così come configurata nell’ordinamento nazionale, si prestasse a divenire uno strumento di possibile esonero da responsabilità per il privato corruttore – interessato ad assumere le sembianze della vittima della condotta prevaricatrice del pubblico funzionario – e, per altro verso, nella predisposizione di un’ulteriore arma di contrasto al fenomeno della c.d. “corruzione sistemica”, che aveva portato alla ribalta il fenomeno dell’iscrizione dei pubblici funzionari “al libro paga di privati”.
La riforma ha, allora, perseguito questi obiettivi secondo il percorso tracciato da tre direttrici: a) l’introduzione di una nuova fattispecie di concussione realizzabile dal solo pubblico ufficiale (non anche dall’incaricato di pubblico servizio) attraverso la sola condotta di costrizione; b) l’introduzione del delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità (di cui all’art. 319 quater cp), realizzabile dal pubblico agente (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) attraverso la condotta di induzione del privato, cui è estesa la punibilità quale concorrente necessario per avere omesso di attivare l’onere di resistenza alla richiesta indebita; c) l’introduzione del delitto di “corruzione funzionale” – quale risulta dalla riscrittura dell’art. 318 cp – realizzabile dal pubblico ufficiale attraverso l’asservimento dell’intera funzione pubblica esercitata (e dei poteri ad essa ascritti) a interessi di privati.
La descritta risistemazione della disciplina penalistica della pubblica amministrazione sembra, inoltre, essere stata animata dall’intento di selezionare in maniera più precisa – in ossequio al principio di legalità/tassatività dell’illecito – i beni giuridici tutelati dalle nuove fattispecie di reato, così da offrire all’interprete una chiave di lettura più oggettiva nella disamina dei casi concreti. In particolare emerge la natura plurioffensiva del delitto di concussione, posto a presidio del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione e, al contempo, della libertà di autodeterminazione del privato; la quale, invece, non riceve alcun vulnus per effetto della condotta di induzione tipizzata nella fattispecie di cui all’art. 319 quater cp che, pertanto, si propone di tutelare esclusivamente il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione. Interessi, questi, cui si aggiungono i doveri di fedeltà e di probità del pubblico funzionario, quali ulteriori componenti dell’oggetto giuridico del reato di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art. 318 cp
Questo il quadro sintetico della riforma inaugurata dalla legge cd. “anticorruzione”: la quale, tuttavia, lungi dall’apportare chiarezza, è risultata foriera di consistenti problemi applicativi – anche di diritto intertemporale – determinati, in particolare, dalla difficoltà di individuare una chiara linea di confine tra le fattispecie di concussione, d’induzione indebita e di corruzione per l’esercizio della funzione. Difficoltà cui ha cercato di porre rimedio la Cassazione a sezioni unite, con la sentenza n. 12228/14 Maldera, mediante l’identificazione dei criteri discretivi tra la riformata figura della concussione (art. 317 cp) e la nuova fattispecie di induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater cp) e con la soluzione delle “connesse problematiche di successioni di leggi penali nel tempo”.
Le sezioni unite “Maldera”, dunque, risolvendo il contrasto - insorto in seno alla VI Sezione all’indomani dell’entrata in vigore della legge 190/2012 – sulla questione della linea di demarcazione tra la condotta di costrizione e quella d’induzione, hanno chiarito che il delitto di concussione di cui all’art. 317 cp (nel testo modificato dalla detta legge) è caratterizzato da un abuso costrittivo del pubblico ufficiale, che si attua mediante violenza o, più spesso, mediante minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius, da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario, il quale viene posto di fronte all’alternativa di subire il danno ingiusto prospettato o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita.
La dottrina e la giurisprudenza hanno, inoltre, precisato che la costrizione, integrante la condotta del delitto di cui all’art. 317 cp, è la c.d. “costrizione psichica relativa” – non, quindi, quella assoluta, perché, altrimenti, sarebbe configurabile il delitto di rapina –, che è tale da determinare una grave alterazione e non l’annullamento del procedimento volitivo nel soggetto passivo, il quale, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciato.
Ma poiché occorre che si tratti di una costrizione qualificata, vale a dire realizzata dal pubblico ufficiale mediante il compimento di un atto o di un comportamento del proprio ufficio – il che evoca un rapporto di causalità tra la qualifica funzionale e la condotta intimidatoria del funzionario pubblico – non ogni comportamento minatorio del pubblico ufficiale diretto al conseguimento di un vantaggio ingiusto è tale da integrare il delitto di concussione. È stato, infatti, evidenziato dalla giurisprudenza di vertice che se il pubblico ufficiale assume atteggiamenti minatori nei confronti del privato non facendo leva su atti o comportamenti del proprio ufficio, ma utilizzando modalità diverse – sicché la qualifica di pubblico ufficiale si pone in un rapporto di pura occasionalità, avente la funzione di rafforzare la condotta intimidatoria nei confronti del soggetto passivo – ricorre piuttosto il delitto di estorsione (art. 629 cp), aggravata dalla circostanza di cui all’art. 61 n. 9 cp (abuso dei poteri e violazione dei doveri).
È stata riconosciuta, pertanto, come integrante la condotta di concussione quella posta in essere da agenti della polizia stradale, i quali minacciando a un imprenditore operante nel settore dei trasporti su strada continui controlli finalizzati a causargli ritardi e difficoltà nella conduzione dell’attività aziendale, lo costringevano a sottostare alle loro richieste afferenti la periodica dazione di piccole somme di denaro.
Il delitto di induzione indebita di cui all’art. 319 quater cp è caratterizzato, invece, da una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, che prospettando al privato un danno giusto – giacché conforme alla legge o alla particolare disciplina del settore, quale conseguenza della sua mancata adesione alla richiesta di erogazione di un’indebita utilità, lascia al destinatario della stessa un margine significativo di libertà di autodeterminazione e si coniuga con il perseguimento di un suo indebito vantaggio.
In questa nuova figura di reato, pertanto, la condotta tipica dell’agente pubblico – che pure è connotata da una strumentalizzazione della posizione rivestita a scopo di privata locupletazione (perché abusa della sua qualità o dei suoi poteri) – assume le forme della persuasione, della suggestione e dell’inganno – sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore sulla stessa doverosità della dazione – e si manifesta con una più tenue efficacia condizionante della libertà di autodeterminazione del privato, il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce con il prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale: con la conseguenza che lo specifico finalismo che orienta l’agire del destinatario della richiesta (il conseguimento di un vantaggio ingiusto) giustifica la previsione di una sia pure meno grave sanzione a suo carico.
In applicazione di questi principi è stata, così, qualificata come di induzione indebita la condotta di un ispettore del lavoro dell’Asl che, nel corso di una verifica presso un autolavaggio, aveva prospettato al titolare dell’esercizio controllato la possibilità di risolvere i problemi derivanti dalle irregolarità riscontrate (lavoro nero; inidoneità della autocertificazione presentata) in cambio della dazione di denaro, perché, in tal caso, il destinatario delle pressioni, decidendo di versare l’indebito, aveva avuto di mira il conseguimento di un ingiusto vantaggio costituito dall’evitare le sanzioni che legittimamente gli si sarebbero dovute irrogare. Ed è stata ricondotta alla fattispecie di cui all’art. 319 quater cp anche la condotta di un ispettore della Polizia di Stato che, ostentando in maniera sistematica la funzione ricoperta con l’esibire il proprio tesserino di riconoscimento all’ingresso di un night club, all’interno del quale egli aveva il potere di effettuare controlli in ragione della specifica e concreta funzione esercitata, aveva posto in essere un comportamento induttivo indebitamente volto a ottenere dal privato la gratuità di una serie di prestazioni, abusando, pertanto, delle prerogative connesse alla sua qualifica di pubblico ufficiale. Qualificazione giuridica del fatto che, nel caso concreto, trovava il suo fondamento razionale nella valorizzazione della circostanza che la volontà del privato non era stata “piegata” dall’altrui sopraffazione, ma “condizionata” da una pressione dispiegata dal pubblico ufficiale allo scopo di ottenere, per sé e per altri, una non dovuta gratuità delle prestazioni “ma che non aveva posto il destinatario di fronte alla scelta ineluttabile e obbligata tra due mali parimenti ingiusti” .
Applicando questi stessi principi, la giurisprudenza di legittimità ha inquadrato la successione normativa fra il previgente testo dell’art. 317 cp (che descriveva la condotta tipica del reato attraverso l’endiadi costringe o induce), quello introdotto dalla L. 190/2012 e quello del nuovo e autonomo di cui all’art. 319 quater cp, all’interno del fenomeno della successione di leggi penali nel tempo, regolato dall’art. 2 4° comma cp. In particolare le Sezioni unite “Maldera” hanno sancito che sussiste continuità normativa fra la concussione per induzione di cui al previgente art. 317 cp ed il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319 quater cp, poiché la prevista punibilità, in quest’ultimo, del soggetto indotto non ha mutato la struttura dell’abuso induttivo, fermo restando, per i fatti pregressi, l’applicazione del più favorevole trattamento sanzionatorio stabilito dalla nuova norma. Mentre l’abuso costrittivo dell’incaricato di pubblico servizio, che prima dell’entrata in vigore della l. n. 190/2012 era sanzionato dall’art. 317 cp, attualmente è punibile in base alle disposizioni incriminatrici dell’estorsione, della violenza privata o della violenza sessuale. Fattispecie, queste, che si pongono tutte in rapporto di continuità normativa con la precedente norma di cui all’art. 317 cp, spettando in ogni caso al giudice, in relazione ai fatti pregressi, verificare in concreto quale sia la norma da applicare in relazione alla disposizione più favorevole in essa contenuta.
Il risultato della riforma compiuta con la L.190/ 2012 si coglie, dunque, nel fatto che la fattispecie di induzione indebita, prevedendo la punibilità del privato indotto, è diventata un’ipotesi più prossima alla corruzione che alla concussione. Infatti, sebbene le Sezioni unite “Maldera” abbiano stabilito, altresì, che il reato di concussione e quello di induzione indebita a dare o promettere utilità si differenzino dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea a costringere o a indurre l’extraneus, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la par condicio contractualis ed evidenzia l’incontro libero e consapevole della volontà delle parti, sembra che proprio attraverso la richiamata interpretazione del delitto di cui all’art. 319-quater cp e della sua distinzione dall’odierna concussione (per costrizione), l’induzione indebita sia stata attratta nell’orbita del “minisistema corruttivo”, potendo essere ricondotti nell’alveo dell’art. 319 quater cp fatti concreti che ricadevano tradizionalmente nel campo della corruzione. Tanto risulta in particolare dal tenore di alcuni passaggi motivazionali della pronuncia delle sezioni unite nella quale si afferma che la fattispecie di cui all’art. 319 quater cp si colloca “pur nell’ambito di un rapporto intersoggettivo asimmetrico, in una logica negoziale che è assimilabile a quella corruttiva” e che essa postula “la necessaria convergenza dei processi volitivi di più soggetti attivi e la punibilità dei medesimi”.
Con la L. 190/2012, però, il legislatore ha inciso profondamente anche sul quadro normativo della disciplina in materia di corruzione, allo scopo di predisporre un sistema precettivo e sanzionatorio adeguato alla “corruzione sistemica”, la quale aveva indotto la giurisprudenza a dilatare i confini dell’art. 319 cp, al fine di assicurare un’adeguata ”copertura” punitiva ai fatti ad essa riconducibili.
La riforma ha così ridisegnato anche i rapporti tra la fattispecie di corruzione di cui all’art. 318 cp e quella di cui all’art. 319 cp, individuando nell’art. 318 cp la figura generale di corruzione, volta ad incriminare qualsivoglia monetizzazione del munus pubblico e che, invece, nel diritto vivente anteriore ad essa aveva subito un destino di marginalizzazione, rimanendo confinata ai casi di patti corruttivi riguardanti atti discrezionali.
Con la riscrittura dell’art. 318 cp, il rapporto corruttivo non si esaurisce più nella compravendita di un singolo atto dell’ufficio, ma si traduce nell’asservimento dell’intera funzione pubblica esercitata dal pubblico agente (e dei poteri a essa connessi) a interessi di privati. In tal modo è stata coniata una vera e propria figura di “corruzione funzionale”, slegata dal riferimento ad un singolo atto, così da permettere di conseguire il duplice risultato di assicurare le predette esigenze di difesa sociale di fronte a fenomeni corruttivi sistemici e di elidere le difficoltà probatorie connesse alla necessità di accertare il sinallagma tra dazione del corrispettivo illecito e singolo atto dell’ufficio.
Per comprendere appieno la portata della riforma Severino, si deve rammentare che, nello stesso diritto vivente, si era assistito ad una “smaterializzazione”o “volatilizzazione” dell’atto dell’ufficio, poiché la giurisprudenza di legittimità era incline ad affermare che l’interpretazione della norma di cui all’art. 319 cp doveva essere ispirata all’obiettivo di ottimizzare la reazione del sistema rispetto a fatti di elevato disvalore sociale, con la conseguente necessità di collegare l’accordo corruttivo non ad uno specifico atto individuato ab origine, ma ad un genus di atti o all’asservimento sistematico della funzione pubblica agli interessi del privato corruttore: e ciò perché tale asservimento rappresentava la modalità corruttiva più allarmante e più subdola, determinando un permanente condizionamento dell’attività istituzionale del pubblico ufficiale, che, in tal modo, veniva meno ai propri doveri di fedeltà, imparzialità e onestà. Ne seguiva che l’assoggettamento della funzione costituiva la controprestazione promessa all’erogatore di denaro e poteva articolarsi in plurimi atti, non specificamente previsti e programmati, ma agevolmente prevedibili in funzione della competenza e della concreta sfera di intervento del pubblico ufficiale.
Poiché, tuttavia, il legislatore della novella del 2012, nella norma di cui all’art. 319 cp, ha mantenuto il riferimento all’atto contrario ai doveri dell’ufficio, si è posta la questione se la c.d. corruzione in incertis actis debba essere ricondotta alla norma di cui all’art. 318 cp, che prevede in termini descrittivi generali l’esercizio prezzolato della funzione e dei poteri sottoponendolo ad un più mite trattamento sanzionatorio – da 1 a 5 anni di reclusione, ovvero a quella di cui all’art. 319 cp, che, invece, ha previsto per le condotte in essa tipizzate pene di gran lunga più severe – da 4 a 8 anni di reclusione.
A tale quesito la dottrina ha risposto in termini più aderenti al principio di legalità, interpretando la descritta divaricazione tra le due richiamate disposizioni come l’espressione di una consapevole scelta legislativa volta ad assegnare un differente quoziente di gravità alla vendita della funzione e alla vendita del singolo atto dell’ufficio, poiché costituenti espressione, l’una rispetto all’altra, di un differente disvalore della condotta: l’una contrassegnata dalla generica inosservanza dei doveri di fedeltà e imparzialità del pubblico agente, l’altra della trasgressione di specifici obblighi funzionali tali da arrecare un vulnus assai più concreto e immediato agli interessi di buon andamento della pubblica amministrazione.
La Cassazione penale è pervenuta, tuttavia, a una soluzione diametralmente opposta e riproduttiva dell’orientamento della propria giurisprudenza affermatosi in passato come maggioritario – che riconduceva in ogni caso “l’iscrizione del pubblico ufficiale al libro paga del privato” alla fattispecie di corruzione propria – affermando che lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio non predefiniti, né specificamente individuabili, continui ad integrare il reato di cui all’art. 319 cp, e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art. 318 cp (nel testo introdotto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190). Ha, infatti, precisato che, anche nell’ambito delle scelte discrezionali del pubblico ufficiale, sussiste la contrarietà ai doveri d’ufficio quando egli ponga in essere atti formalmente regolari, ma prescindendo volutamente, per effetto dell’accordo corruttivo, dall’osservanza dei suoi doveri di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione.
La Corte di nomofilachia ha, tuttavia, di recente, stabilito che “la messa a disposizione del proprio ufficio” (a interessi di privati, ndr) corrisponde oggi alla fattispecie di cui al nuovo testo dell’art. 318 cp, sebbene tale condotta ricadesse precedentemente sotto la previsione dell’art. 319 cp essendo tale modalità di esercizio della pubblica funzione contraria ai doveri d’ufficio; ma ha, nel contempo, sottolineato che la questione della sussunzione del fatto commesso anteriormente all’entrata in vigore della L. 190/2012 all’una o all’altra norma è irrilevante, poiché le disposizioni richiamate prevedono la medesima pena (massima) e si trovano in un rapporto di continuità normativa.
I criteri discretivi individuati dalla giurisprudenza di legittimità a sezioni unite (concussione: minaccia di un danno contra ius da parte del pubblico ufficiale; induzione indebita: persuasione da parte del pubblico agente e conseguimento di un vantaggio indebito da parte del privato; concussione – induzione indebita: squilibrio delle posizioni dei soggetti; corruzione: perfetta equivalenza delle posizioni e pari piena libertà di determinazione) per operare, in maniera affidabile, l’actio finium regundorum tra le fattispecie di concussione, d’induzione indebita e di corruzione, potrebbero rivelarsi, tuttavia, non risolutivi nei casi di confine, che presentano, cioè, “aspetti di ambiguità e opacità”, a causa di indizi incerti o contraddittori circa la qualificazione giuridica del fatto.
Nei casi suddetti, allora, il suggerimento offerto dal giudice della nomofilachia al giudice di merito è quello di “procedere alla ricostruzione in fatto della vicenda portata alla sua attenzione, cogliendone gli aspetti più qualificanti”, apprezzando i parametri generali individuati “nella loro operatività dinamica, enucleando sulla base di una valutazione approfondita ed equilibrata del fatto, il dato di maggiore significatività” e calibrandoli “sulla specificità della vicenda concreta, tenendo conto di tutti i dati circostanziali, del complesso dei beni giuridici in gioco, dei principi e dei valori che governano lo specifico settore di disciplina”.
Non solo: lo stesso giudice di legittimità, selezionati gli hard cases più ricorrenti nella prassi applicativa, ha forgiato, in relazione alla loro specificità, a beneficio dell’interprete alcune chiavi di lettura.
Nel caso dell’abuso di qualità senza alcun riferimento al compimento di uno specifico atto, il giudice dovrà discernere se, data per acquisita la posizione di supremazia di una parte sull’altra, ci sia stata sopraffazione da parte del pubblico ufficiale (art. 317 cp) oppure i rapporti intersoggettivi si siano dispiegati in una “una dialettica utilitaristica” (art. 319-quater del cp): ipotesi del sottufficiale delle forze dell’ordine che ostentando la propria qualità effettui acquisti di beni di consumo presso un piccolo commerciante pretendendo di non pagarli.
Nel caso della prospettazione di un danno generico, nel quale può celarsi il pericolo che l’autosuggestione del destinatario (c.d. metus ab intrinseco) possa assegnare al fatto una cifra d’ingiustizia di cui in realtà è privo, il giudice potrà ravvisare il delitto di concussione soltanto allorché all’indeterminatezza del pregiudizio faccia da contraltare il carattere lampante dell’intimidazione posta in essere dal pubblico ufficiale e degli effetti sulla psiche del privato, configurandosi altrimenti il delitto d’induzione indebita: fattispecie, questa, che ha costituito l’oggetto del processo celebratosi dinanzi la Corte d’Appello di Milano e di recente conclusosi a carico dell’ex presidente del Consiglio dei ministri Berlusconi.
Nel caso della minaccia-offerta o minaccia-promessa, in cui il danno ingiusto e il vantaggio indebito si fondono “in una realtà inscindibile”, il giudice dovrà valutare, in base al quadro probatorio e alle dinamiche relazionali tra le parti, se nel processo motivazionale del privato a versare l’indebito sia stato preponderante il conseguimento del vantaggio ingiusto prospettato dal pubblico ufficiale ovvero l’intimidazione da questi subita: l’ipotesi è quella del funzionario responsabile di un ufficio amministrativo che prospetti congiuntamente a un imprenditore l’esclusione da una gara d’appalto o la sicura aggiudicazione della stessa, a seconda del pagamento o meno della “tangente” richiesta.
Nel caso dell’esercizio di un potere discrezionale, il giudice dovrà valutare se il detto esercizio sia stato funzionale o meno al perseguimento dell’interesse pubblico per cui il potere è attribuito: se, infatti, vi è stato sviamento dalla causa tipica, allora la condotta del pubblico ufficiale integra il delitto di concussione; se, invece, esso è stato esercitato nell’ambito di un’attività amministrativa pienamente legittima – con la conseguenza che il privato avrebbe ricavato un vantaggio dal mancato esercizio del potere o dall’esercizio non conforme ai parametri fissati dalla legge – allora il comportamento del pubblico agente configura il delitto d’induzione indebita.
Nel caso del bilanciamento tra beni giuridici coinvolti nel conflitto decisionale del privato, il giudice sarà chiamato a ponderare gli interessi in gioco, perché, ove questi, pur avendo ricevuto dalla condotta del pubblico ufficiale un vantaggio ingiusto, sia stato in realtà coartato a compiere la dazione indebita dalla necessità di salvaguardare un proprio diritto di rango primario (quali la salute o la libertà sessuale), il fatto non può che rientrare sotto la sfera di percettività del delitto di concussione: il caso è quello del primario ospedaliero che prospetti al privato, necessitante di un urgente intervento chirurgico salvavita, l’esigenza di corrispondergli una somma di denaro per scavalcare la lista d’attesa; e quello posto in essere da sottufficiali delle forze dell’ordine, che approfittino sessualmente di una prostituta sottoposta a un controllo durante la notte prospettandole l’immediato rilascio: poiché, in un caso del genere, l’esercizio dei poteri di polizia si presenta sviato rispetto allo schema funzionale legale e assume connotati di prevaricazione costrittiva per il coinvolgimento nella pretesa indebita di un bene fondamentale della persona.
La giurisprudenza di legittimità formatasi alla “scuola” delle Sezioni unite “Maldera” ha poi individuato altre ipotesi suscettibili di creare difficoltà nella sussunzione del fatto alla norma. È il caso della sollecitazione della promessa o della dazione di denaro o altra utilità rivolta al privato dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio per compiere un atto contrario ai doveri del proprio ufficio – punita dall’art. 322 4° comma cp – che si distingue sia dalla costrizione (cui fa riferimento l’art. 317 cp) che dall’induzione (cui fa riferimento l’art. 319 quater cp), poiché si caratterizza come richiesta formulata dal pubblico agente senza esercitare pressioni o suggestioni che tendano a piegare ovvero a persuadere il soggetto privato, alla cui libertà di scelta viene prospettato, su basi paritarie, un semplice scambio di favori, connotato dall’assenza di ogni tipo di abuso della qualità o dei poteri.
Ovvero quello del pubblico agente che si faccia indebitamente promettere o dare denaro o altro vantaggio patrimoniale come prezzo della propria intermediazione verso altro pubblico ufficiale ovvero per remunerare quest’ultimo in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri del proprio ufficio o per avere omesso o ritardato un atto dell’ufficio, sfruttando le relazioni esistenti con il detto altro pubblico agente. In tale ipotesi, infatti, la richiesta di dazione dell’indebito è un segmento della fattispecie del delitto di traffico di influenze di cui all’art. 346 bis cp, così come introdotto dall’art. 1, comma 75, della l. n. 190 del 2012, ed è propedeutico alla commissione di una eventuale corruzione, giacché, tra l’altro, il denaro richiesto è finalizzato a retribuire soltanto l’opera di mediazione, non potendo, neppure in parte, essere destinato all’agente pubblico.
Traendo le fila, occorre chiedersi se i criteri discretivi delle fattispecie di concussione, induzione indebita e corruzione individuati dalla Cassazione e i canoni d’interpretazione coniati per i casi dubbi siano davvero funzionali ed efficaci rispetto allo scopo di precisa sussunzione del fatto alla norma, divenuta ora impreteribile in ragione non solo del differente dosaggio sanzionatorio previsto dalle fattispecie di cui agli artt. 317 e 319 quater cp, ma anche del diverso trattamento del privato, rispettivamente vittima o coautore del reato, scongiurando “mere presunzioni e inaffidabili automatismi”.
Ovvero se la diffusa sensazione di labilità dei criteri e di flessibilità delle linee di confine, che si percepisce nella “zona grigia”, in cui è offerta al giudice un’ampia discrezionalità, suscettibile di articolarsi in una “griglia di soluzioni, suscettibili di moltiplicarsi” non faccia affiorare il sospetto che il giudice medesimo, pur senza avvedersene, imbocchi la strada all’arbitrio, adottando, di volta in volta, la soluzione più aderente all’equilibrio delle poste in gioco nel caso concreto e alle scelte di politica criminale prevalenti, in spregio al principio di legalità e di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge.
A ciò si aggiunga che la prospettiva di potenziare il sistema delle incriminazioni con l’erigere un imponente baluardo contro ogni possibile forma di corruzione sembra oggi concretamente indebolita proprio a causa della frammentazione delle fattispecie, raffigurabili come monadi in movimento, senza una logica, nell’universo del diritto, all’interno del quale, talvolta, esse stesse entrano in collisione: con la conseguenza che, dopo la riforma del 2012 il “confine conteso” tra concussione e corruzione è diventato ancora più incerto.
Il risultato paradossale, inoltre, è che con le recenti misure sulla giustizia civile introdotte con il dl 12 settembre 2014, n. 132 (“Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”), conv. in L. 10 novembre 2014, n. 162, è stato previsto che “nelle cause civili dinanzi al tribunale o in grado d’appello pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, che non hanno a oggetto diritti indisponibili e che non vertono in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale, nelle quali la causa non è stata assunta in decisione, le parti, con istanza congiunta, possono richiedere di promuovere un procedimento arbitrale a norma delle disposizioni contenute nel titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile”. Tuttavia, tra le disposizioni richiamate, figura l’art. 813 2°comma cpc che stabilisce espressamente che “agli arbitri non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio”; con la conseguenza che, in difetto della qualifica pubblicistica, deve escludersi la configurabilità del delitto di corruzione in caso di compravendita della detta funzione arbitrale.
4. Il giudizio dell’Europa
A dispetto dell’impegno profuso, la Commissione europea, nella prima relazione sulla corruzione nei Paesi dell’Unione pubblicato il 3 febbraio 2014, ha sottolineato l’insufficienza del sistema normativo italiano rispetto all’obiettivo del contrasto globale all’illegalità nella pubblica amministrazione, che, peraltro, è indirettamente favorita dalla disomogeneità delle misure adottate nelle diverse realtà nazionali.
Non solo, richiamando alcune delle criticità già evidenziate dal Greco nel suo report sull’Italia, ha individuato le smagliature presenti nell’ordito normativo nazionale contro la corruzione, indicandole nella mancanza di un razionale intervento regolatore della prescrizione, del falso in bilancio e dell’autoriciclaggio; nella frammentazione delle disposizioni sulla concussione e la corruzione, che rischiano di dare adito ad ambiguità e incertezze nella concreata applicazione; nell’inadeguatezza delle disposizioni sulla corruzione nel settore privato e sulla tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti.
Secondo la Commissione europea queste criticità potrebbero essere superate attraverso una generalizzazione della disciplina di contrasto alla corruzione, imponendone il rispetto anche a organismi ormai essenziali del settore pubblico come le società partecipate e le fondazioni; prevedendo un regime uniforme delle incompatibilità nella pubblica amministrazione; semplificando il sistema degli adempimenti in funzione di prevenzione della corruzione, così da renderne agevole sia l’attuazione che il controllo; mettendo mano a un’organica disciplina delle incriminazioni, così da evitare il fenomeno della pratica inefficacia di quelle esistenti. Ma soprattutto responsabilizzando la classe politica, i pubblici agenti e i cittadini, così da riequilibrare l’onere della lotta anticorruzione, che attualmente grava quasi esclusivamente sulle forze dell’ordine e sulla magistratura.
*sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Teramo