Annalisa Bucchieri e Claudio Ianniello
Piedi per Terra, testa fra le stelle
Quello che avreste voluto sapere sul Cosmo lo abbiamo chiesto all’astronauta Walter Villadei, rappresentante dell’eccellenza italiana dell’Aeronautica militare e dell’Asi nell’esplorazione spaziale
Mentre il 15 dicembre 2014 ricorrono i 50 anni del primo satellite, il San Marco 1, progettato, realizzato e lanciato dall’Italia, terza nazione al mondo dopo Usa e Urss ad affrontare l’avventura spaziale, l’accometaggio della sonda Rosetta e la partenza in orbita del capitano dell’Aereonautica militare Cristoforetti ci dicono che c’è un luogo dove il nostro Paese continua a eccellere: il Cosmo. Sarà perché la forza di gravità non lo spinge in basso? Ne parliamo con l’astronauta Walter Villadei, tenente colonnello dell’Am e testimone di una nuova fase d’investimento nell’esplorazione e nella ricerca spaziale.
Quello di volare nello Spazio è un sogno comune a milioni di persone. Lei è uno dei pochi candidati a poterlo realizzare. Come ha maturato questo desiderio?
Credo che ogni passione nasca quando si è bambini. Da piccolo i miei genitori mi iscrissero a un club di astrofili, questo mi spinse a trascorrere spesso le serate a osservare le stelle con i telescopi. Successivamente l’interesse è andato aumentando, consolidandosi con la passione per il volo che si è affiancata a quella già esistente per lo Spazio. Dopo il liceo ho quindi scelto di frequentare l’Accademia aeronautica per entrare a far parte dell’Aeronautica militare. Lì ho studiato ingegneria aerospaziale, ho intrapreso poi un percorso che mi ha visto impiegato nel reparto operativo, fino al momento in cui sono stato inserito all’interno del Programma spaziale, con relativo trasferimento allo Stato maggiore e occupazione a tempo pieno in attività aerospaziali.
È più corretto dire astronauta o cosmonauta?
In realtà la differenza è sostanzialmente culturale: i russi hanno sempre chiamato i loro esploratori dello spazio cosmonauti e gli americani hanno utilizzato il termine astronauta. Oggi sono molte più le similitudini che le differenze, anche se alcune rimangono e sono riconducibili alla diversa storia dei due programmi spaziali. Infatti, dopo una prima fase pionieristica da entrambe le parti, il programma spaziale americano si è evoluto verso lo Shuttle, con missioni di breve durata, mentre i russi si sono orientati verso quelle di lunga durata, per farne occasione di studio degli effetti dello Spazio sull’organismo umano. è ovvio che prepararsi per una missione di breve o di lunga durata è differente. Da qui due scuole di addestramento con rispettive peculiarità. Ma oggi tutti gli astronauti, pur provenendo da nazioni diverse e operando all’interno di una stessa infrastruttura, cioè la Stazione spaziale internazionale (Iss, pag. 34), devono poter rispondere ad una omogeneità di requisiti. Quindi ci sono poche differenze nell’addestramento anche se avviene in diversi centri del mondo.
Lei è stato il primo italiano a formarsi in Russia?
Sì, allo Yuri Gagarin Cosmonauts Training Center a Star City, vicino Mosca in Russia. L’altro grande centro di addestramento è il Johnson Space Center a Huston in Texas. In Europa esiste inoltre l’EAC - European Astronauts Center, a Colonia in Germania, dove nel 2009 per la prima volta è stato svolto un corso di basic training. Infine il Giappone ha un suo centro focalizzato a consentire agli astronauti la conoscenza di Kibo, il proprio modulo sperimentale installato sulla Iss. Potremmo definire l’addestramento come un iter tra diversi centri di formazione nel mondo che hanno come riferimenti quelli di Usa e Russia.
Quali aspetti del training ha trovato più divertenti e quali più duri?
Nel mio caso, essendo l’unico straniero in una classe di russi allo Yuri Gagarin Cosmonauts Center, il rapporto con i colleghi è stato molto stimolante. Gli altri astronauti italiani infatti si sono qualificati attraverso il basic training a Huston o a Colonia e in questo l’Italia è l’unico Paese che può vantare una pluralità di percorsi formativi. In particolare una delle esperienze più interessanti è stata il corso di sopravvivenza, necessario in quanto la capsula spaziale Soyuz può atterrare ovunque al rientro sulla Terra, in mezzo al mare, come su un ghiacciaio o in un deserto e bisogna essere preparati a resistere in attesa dell’arrivo delle squadre di recupero. In queste fasi emerge il contatto umano con i colleghi, si scoprono i propri limiti ma anche le attitudini e le predisposizioni. E si creano affinità utili per poi formare gli equipaggi. Psicologi e istruttori osservano le reazioni dei singoli e ne studiano la compatibilità. Volare nella Soyuz di 3 metri cubi in 3 astronauti e stare 6 mesi a bordo della Iss in 6, in un volume comunque contenuto, determina condizioni di stress, quindi si tenta di scegliere quei profili caratteriali che hanno la maggiore probabilità di lavorare bene insieme. Personalmente i momenti più duri sono stati i weekend lontano dalla famiglia (ho moglie e tre figlie), fortunatamente hanno inventato skype!
Per le attività extraveicolari i russi utilizzano la tuta Orlan e gli americani la Emu. Una mera questione di stile?
Diciamo che la tuta per Eva (Extra-vehicular activity) è una piccola navetta spaziale perché consente di lavorare all’esterno della Iss per periodi piuttosto lunghi fino a 9-10 ore, proteggendo l’astronauta dalle forti radiazioni, dall’escursione notevole di temperatura tra la fase illuminata dell’orbita e quella in ombra, dalla differenza di pressione tra l’interno e l’esterno, dove c’è il vuoto. E chiaramente garantisce le comunicazioni con Iss e il mission control center. Io mi sono addestrato e qualificato finora con la tuta russa (Orlan), che differisce sostanzialmente dalla Emu. La Emu si indossa come un normale vestito, pantaloni, giubbotto e casco, la tuta russa è invece come uno scafandro, si entra da dietro e si chiude un portello di ingresso. Essendo più rigida della tuta americana, perchè pressurizzata a valori più alti, lo sforzo fisico del