di Cristiano Morabito

Prove di dialogo

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Un imam, un rabbino e un sacerdote a confronto sulle possibilità di convivenza tra le diverse comunità religiose

Shalom, Salam aleikum, La pace sia con te. Tre espressioni che presentano tutte una parola e un concetto: “pace”. Sono il modo di salutare delle tre principali fedi monoteiste e mostrano come le basi siano comuni, sebbene le differenze possano sembrare enormi. In un momento storico come quello attuale, con la società italiana che sta virando decisamente verso la multietnicità e con i rischi di islamofobia e rigurgiti antisemiti legati alle minacce dell’Isis, al conflitto arabo-palestinese e alle stragi di cristiani in Africa, il dialogo tra religioni, nel nostro Paese come in tutta Europa, risulta quantomeno fondamentale a evitare incomprensioni che possono portare a risultati estremi.
Abbiamo preso ad esempio una città come Roma, considerata la capitale della cristianità, ma che al suo interno accoglie la più numerosa comunità ebraica d’Italia e la moschea più grande d’Europa, e incontrato tre rappresentanti delle principali religioni monoteiste: Riccardo Di Segni (rabbino capo della Sinagoga di Roma), dell’imam Yahya Pallavicini (vice presidente della Comunità religiosa islamica italiana – Coreis) e di don Cristiano Bettega (direttore dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei).
 

La cultura della discussione
rabbino Riccardo Di Segni
Quali sono i rapporti con le comunità cattolica e musulmana?

Con quella cattolica sono molto buoni a tutti i livelli, soprattutto per il fatto che a Roma c’è il Papa negli ultimi anni sono molto migliorati. Il dialogo è fatto di franchezza, quindi ogni volta che c’era qualcosa da dire non abbiamo mai taciuto, ma abbiamo avuto sempre un interlocutore disposto ad ascoltare e ad affrontare i problemi con spirito di collaborazione e di amicizia. Un grande progresso rispetto al passato. Quello con l’Islam è un rapporto completamente diverso e articolato, perché quella musulmana non è una religione gerarchica, non ha un unico rappresentante ed è frazionata in tante differenti linee nelle quali si va dall’estremismo politico al misticismo del dialogo. Ma è un dialogo che dobbiamo affrontare con determinazione e con la volontà di andare avanti e cercare sempre possibilità di confronto, anche se ci sono questioni politiche che, invece, dovrebbero restare al di fuori.
Quali sono le vostre proposte per evitare che chi professa una fede diversa da quella cattolica nel nostro Paese venga guardato con diffidenza?
Gli ebrei in Italia, e nello specifico a Roma, sono presenti da 22 secoli, quindi sappiamo bene cosa significhi vivere nella diversità. Abbiamo acquisito una certa esperienza, anche perché le vicende dell’ultimo secolo hanno portato all’elaborazione di modelli di natura formalmente giuridica (ad esempio l’Intesa con lo Stato italiano, ndr), ma che sostanzialmente sono modelli sociali di convivenza nei quali ognuno, portatore della propria diversità, collabora allo sviluppo della Nazione in cui vive. L’esperienza che noi ebrei abbiamo acquisito in secoli molto dolorosi, le comunità islamiche devono farla propria nel corso di una sola generazione. Ed è un’esperienza particolarmente traumatica perché, molto spesso, mancano gli strumenti storici, esperienziali e culturali che possono guidare in un processo di integrazione.
All’interno della comunità ebraica esiste una sorta di organismo di contr

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01/10/2014