Marcella Di Rocco*
Figli separati
Il ruolo dell’operatore di polizia nell’iter esecutivo dei provvedimenti dichiarativi di decadenza della potestà genitoriale
La patria potestà, istituto giuridico risalente all’epoca del diritto romano, trovava ragione della propria esistenza giuridica nel suo esercizio assoluto ed esclusivo del pater familias sui componenti della struttura sociale basilare denominata familia.
Nel nostro attuale sistema ordinamentale, successivamente alla riforma del diritto di famiglia varata nell’anno 1975 in risposta al sopraggiungere dei mutamenti sociali rivolti con maggiore attenzione al ruolo della donna all’interno del sistema, tale istituto viene configurato nell’art. 316 cc il cui dettato normativo sancisce l’innovativo principio secondo il quale “la potestà viene esercitata di comune accordo da entrambi i genitori......”, facendola rivivere al terzo comma in capo alla figura paterna solo in caso di sussistenza di grave pericolo per il figlio.
Nel medesimo contesto normativo precisamente all’art. 330 cc vengono sancite le ipotesi di decadenza dalla potestà genitoriale prevendendole nel caso in cui il genitore ponga in essere una condotta tale che integri la violazione o la trascuratezza dei doveri con grave pregiudizio per il figlio ovvero l’abuso dei relativi poteri. Trattasi quindi di un comportamento riprovevole non delimitato in modo puntuale dalla norma, per cui conseguentemente il giudice adito ha un notevole potere discrezionale nello stabilire nel caso concreto i doveri che incombevano su quel genitore avuto riguardo alla situazione socio economica ed ambientale di quel nucleo familiare ed alla personalità del minore.
Operando seppur brevemente un excursus giurisprudenziale sui provvedimenti in esame rientranti in quella categoria più ampia che coinvolge l’affidamento del minore a favore dell’altro genitore o temporaneamente a strutture sociali (quali le case famiglie), emerge che un non recente orientamento li configurava come provvedimenti temporanei ed urgenti ex art. 708 cpc, escludendo quindi l’ammissibilità di una esecuzione amministrativa con i mezzi di polizia e ribadendo in tal modo la necessità che l’esecuzione si svolgesse sul piano giurisdizionale.
Successivamente nel 1979 la Corte di Cassazione affermò che il problema doveva essere necessariamente risolto secondo le norme che regolano il processo esecutivo escludendo comunque il ricorso alla procedura ex art. 605 cpc (consegna o rilascio), data la non equiparabilità della consegna di un minore a quella di una res e l’inopportunità di demandare tale consegna del minore all’ufficiale giudiziario sulla base della sola condizione del reperimento, ritenendo l’applicabilità della procedura per obblighi di fare o di non fare (art. 612-613 cpc) considerata preferibile in virtù della previsione di un previo vaglio, da parte di un giudice, dei comportamenti esecutivi e dei relativi tempi e modalità.
Infine la Suprema Corte nel 1980 affrontò il problema dell’esecuzione dell’obbligo di consegna di minori, relativamente a provvedimenti di volontaria giurisdizione, stabilendo che l’esecuzione dell’obbligo di consegna, qualunque ne sia il titolo, deve avvenire in sede giurisdizionale e non in sede amministrativa, asserendo l’osservanza della procedura di cui agli artt. 612 e 613 cpc. Tale orientamento non ha però trovato concorde la giurisprudenza di merito ed in più occasioni è stata affermata la competenza del giudice tutelare con riferimento alle norme contenute negli artt. 337, 318 e 344 cc secondo le quali il ruolo del giudice tutelare si esplica sia nella mediazione tra i coniugi separati o divorziati sia nel dettare determinate prescrizioni che possono essere disattese nel momento in cui il minore opponga resistenza o il genitore si rifiuti di ottemperarvi.
Al fine di configurare il ruolo dell’operatore di polizia nella fase esecutiva dei provvedimenti in esame, in specie quelli dichiarativi della perdita di patria potestà, è doveroso dapprima rivolgere un accenno al principio generale sancito dal codice di procedura penale secondo il quale ai sensi dell’art. 131 del codice di rito il giudice “nell’esercizio delle sue funzioni può chiedere l’intervento della polizia giudiziaria e, se necessario, della forza pubblica, prescrivendo tutto ciò che occorre per il sicuro e ordinato compimento degli atti ai quali procede” ribadito nel regio decreto n. 12/1941 in tema di ordinamento giudiziario, che all’art. 14 (Potestà di polizia dei giudici) prevede che “Ogni giudice, nell’esercizio delle sue funzioni, può richiedere, quando occorre, l’intervento della forza pubblica e può prescrivere tutto ciò che è necessario per il sicuro ed ordinato compimento degli atti ai quali procede”.
Dalla disamina normativa si evidenzia il ruolo fortemente incisivo delle forze di polizia volto a potenziare la forza esecutiva del provvedimento giudiziario, non lasciando conseguentemente alcun margine di discrezionalità all’operatore che interviene nella fase interessata, incorrendo, in ipotesi contraria, in responsabilità di natura penale.
Giova evidenziare che lo stesso operatore, nel corso dell’esecuzione, incontra molto spesso, così come testimoniano le innumerevoli vicende alcune delle quali connotate da forte ridondanza mediatica, rilevanti difficoltà atteso che la relativa attuazione presenta una serie di questioni delicate e di non facile soluzione in quanto sottende l’obbligo di consegna che, come sopra evidenziato, non ha come oggetto un bene ma una persona incapace di intendere e di volere e nel cui precipuo interesse si agisce.
La complessità dell’evento si manifesta sia in presenza di resistenze da parte del minore strumentalizzato il più delle volte dai loro genitori come riflesso del loro persistente conflitto, sia del genitore dichiarato decaduto dalla patria potestà ad ottemperare alle condizioni statuite dal giudice del merito.
La figura dell’operatore di polizia che si inserisce nelle situazioni appena prospettate sottolinea una particolare criticità attesa l’assenza di una mancato riferimento normativo circa la condotta cui deve attenersi nonché l’assenza di protocolli ufficiali di intesa che possano rappresentare dei criteri guida circa i comportamenti da mettere in atto.
Infatti il clima in cui spesso l’operatore è tenuto ad intervenire è sovente imperniato da una forte emotività (vedasi il caso avvenuto in quel di Cittadella) oltre al fatto che egli stesso, dovendo eseguire il provvedimento de quo, senza ricorrere a forme coercitive, deve tutelare il più possibile il minore nella sua integrità psico-fisica, atteso che quest’ultimo nella maggior parte dei casi oppone delle proprie resistenza a nulla valendo il preventivo operato degli assistenti sociali con il quale il minore spesso intrattiene dei colloqui preliminari volti a far comprendere la reale finalità dell’adozione nei suoi confronti del provvedimento emanato dal giudice.
Inoltre l’ulteriore difficoltà rappresentata dal comportamento resistente posto del genitore nei confronti del quale viene dichiarata la decadenza della patria potestà (la causa maggiormente frequente è la Sindrome di alienazione parentale la cui diagnosi implica che il bambino deve essere prelevato dal genitore verso il quale è stata riconosciuta e condotto temporaneamente in un luogo neutro, al fine ulteriore di poter riallacciare i rapporti con l’altro genitore) e dall’intervento di altri parenti, comporta che innanzi a tali comportamenti oppositivi che frequentemente integrano, ad esempio come spesso accade, gli estremi delle fattispecie di violenza, resistenza e minaccia a pubblico ufficiale, l’operatore possa procedere all’arresto in flagranza.
Premesso tutto ciò, in assenza di regole codificate, soccorrono alcuni suggerimenti cui l’operatore potrà attenersi per conseguire una maggiore tutela; atteso che il luogo “prescelto” è generalmente l’istituto scolastico frequentato dal minore (proprio perché si è lontani dall’ambiente familiare dal quale il minore deve essere allontanato), l’operatore dovrà quindi accertarsi dell’eventuale presenza dei parenti o dell’altro genitore cercando di allontanarli prima che si verifichino condotte discordanti che potrebbero causare il degenerarsi della situazione; inoltre in concomitanza con gli assistenti sociali, chiamati ad intervenire, dovrà adempiersi affinché si verifichino colloqui ulteriori, prima dell’esecuzione, volti a far comprendere al minore il significato della situazione cui sta andando incontro, proprio perché è un suo primario diritto essere ascoltato; è inoltre auspicabile l’ulteriore presenza di un parente con cui il minore ha instaurato un profondo legame affettivo che nell’interesse esclusivo del bambino gli faccia comprendere nel modo meno traumatico possibile la reale situazione attraverso spiegazioni che non cagionino delle alterazioni al suo stato emotivo prestando quindi in toto la propria assistenza; in ultimo, ma non in ordine di importanza, occorre evitare categoricamente qualsivoglia comportamento coercitivo sul minore dato che potrebbe provocare degli ulteriori traumi già nella maggior parte presenti visto il retaggio di provenienza familiare decisamente problematico; non dimenticando infine la possibilità, in casi di sopraggiunta difficoltà per i motivi già esposti, di relazionarsi direttamente con l’autorità giudiziaria che ha adottato il provvedimento in esame, al fine di renderla informata sulla situazione in atto affinché non trascenda in episodi simili a quelli fino ad ora verificatisi.
In attesa che nella materia della “esecuzione” dei provvedimenti sia varata una riforma legislativa che tenga conto delle varie problematiche sin qui prospettate, è auspicabile un intervento legislativo (o comunque l’emanazione di protocolli ufficiali) in tale ambito al fine di tutelare sia l’operatore di polizia chiamato ad agire nell’interesse del minore sia i diritti del minore consacrati nel nostro ordinamento giuridico.
*commissario Scuola superiore di polizia