Cristina Di Lucente

Cambiare si può

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Una palazzina utilizzata come centro di aggregazione, una cooperativa per coltivare terreni abbandonati: due esempi di come riscattare i beni confiscati alla ’Ndrangheta

Cambiare si può

Nel cuore della piana di Gioia Tauro, una cornice di colline e uliveti a ridosso dell’Aspromonte, a cavallo tra lo Jonio e il Tirreno, è qui che sorge Polistena, paese nel reggino per molti anni conosciuto come terra dove la ’Ndrangheta ha lasciato pesantemente la sua impronta, con una storia di anni marcati dalla faida. Ma anche luogo di riscatto, dove non mancano le testimonianze di chi ha deciso di dire no allo strapotere delle infiltrazioni mafiose che per troppo tempo hanno intaccato le attività del territorio, recuperando abitazioni e terreni sottoposti a confisca, segni tangibili dell’erosione anche dei poteri più consolidati.

Da “segno di potere” a “potere del segno”
Il palazzo appartenuto storicamente ai Longo-Versace, la famiglia dominante a Polistena, è da sempre il simbolo della presenza mafiosa, nel quartiere che è ancora oggi la residenza di molti membri della cosca. Tremilacinquecento m2 che don Pino Demasi conosce bene. Vicario della diocesi di Oppido-Palmi e referente dell’associazione Libera, si presenta a Poliziamoderna nel ruolo che sente maggiormente, semplicemente quello di parroco di Santa Marina, il duomo del paese. Ci mostra il progetto in corso nella palazzina assegnata alla parrocchia, in seguito al sequestro e alla successiva confisca del bene, dopo aver risposto al bando della Fondazione con il sud. «Dall’alto dell’edificio che sovrasta l’intero circondario, i proprietari una volta potevano dominare il paese con lo sguardo. La ‘Ndrangheta si nutre di simboli per consolidare il proprio potere e questo palazzo ne è la dimostrazione concreta», inizia così il racconto di don Pino. Il pianterreno, prima della confisca, era occupato dal Bar 2001, un locale dal nome altisonante che sembrava affermare “siamo noi il futuro”, un vero punto di ritrovo per i ragazzi e gli spacciatori del paese. Il primo piano era destinato a una sala per matrimoni; qui tutti erano obbligati a organizzare i propri banchetti di nozze per rimpinguare le casse dei proprietari, il piano superiore invece veniva dato in affitto a un istituto magistrale, dove uno degli insegnanti era proprio don Demasi. A chi non pagava il pizzo poi, era dedicata un’apposita stanza per “regolare i conti”. La piazza antistante era in stato di abbandono, il comune rifiutava infatti di ristrutturarla essendo la naturale prosecuzione del palazzo del potere. Il primo segnale di una volontà di riscatto arrivò nell’’86: «Durante l’Estate ragazzi decidemmo di svolgere un giorno di attività nella famigerata piazza. Il proprietario dell’edificio cominciò a filmarci dall’alto, poi mandò i camerieri del bar ad offrire un gelato a tutti i presenti, furbescamente stava tentando di girare a proprio favore l’iniziativa. Aveva fatto però i conti senza l’oste – racconta don Pino, senza nascondere un senso di fierezza nel tono – non solo rifiutammo ma preannunciai ai ragazzi che stava per iniziare una guerra al termine della quale saremmo tornati nello stabile da proprietari». La promess

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01/04/2014