Vincenzo R. Spagnolo
Non più invisibili
Il narcotraffico mondiale è il core business delle ’ndrine. Un impero da quasi 50 miliardi di euro l’anno che va smantellato
«Di ananas sono 28mila dollari. Arriva al porto come quando fosse pulito, perché fanno tutto legale…». È il novembre del 2012 e sui sedili di un’automobile conversano due uomini provenienti da sponde opposte dell’Atlantico. Sono il boss italo americano, Frank Lupoi, legato alla potente famiglia di Cosa nostra newyorchese dei Gambino, e l’esponente delle cosche ioniche della ’ndrangheta calabrese, Vincenzo Parrelli. Stanno definendo l’acquisto di una partita di cocaina che dovrà arrivare da un porto sudamericano della Guyana, nascosta dentro scatole di «chunks di ananas» (espressione inglese che significa “a spicchi”), fino in Calabria, a Gioia Tauro: «Sotto vuoto… Fanno confezioni da un chilo, devono pressarle per fare i pacchetti», spiega l’italo americano al calabrese, che domanda: «E l’acqua con l’ananas?». «Poi bisogna toglierla, perdita di tempo ce n’è, prima di venderla ci vogliono un paio di giorni…», è la risposta. Ciò che i due non sanno è che la polizia italiana e il Federal Bureau of investigation sono da un pezzo sulle loro tracce e stanno registrando ogni parola. Tassello dopo tassello, anche grazie al coraggio di un agente dell’Fbi sotto copertura, Johnny l’americano (che entra in confidenza coi picciotti calabresi e simula l’acquisto di una partita di eroina da 30mila euro), gli uomini del Bureau e gli investigatori della Squadra mobile reggina, guidata da Gennaro Semeraro, e del Servizio centrale operativo, diretto da Raffaele Grassi, ricompongono la ragnatela di traffici e raccolgono le prove necessarie a far scattare, nel febbraio di quest’anno, una maxi operazione coordinata dalla procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria e da quella distrettuale di New York e chiusa con 24 fermi, 17 in Italia e 7 negli Usa.
Il ponte fra polizie abbatte quello fra mafie
L’inchiesta è stata chiamata New bridge, in ideale continuità con la Old bridge, con cui lo Sco nel 2008 aveva smantellato i collegamenti fra the Mob, il ramo americano di Cosa nostra, e le cosche palermitane. Il procuratore federale di Brooklyn, Marshall Miller, osserva soddisfatto: «Volevano costruire un ponte tra la Calabria e gli Stati Uniti, ma non si sono accorti che esisteva un ponte molto più forte e autorevole, quello tra le autorità italiane e americane, costruito in decenni di collaborazione». Dal canto suo, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, volato a New York per la chiusura dell’operazione, avverte: «Siamo riusciti a dimostrare, ancora una volta, la potenza della ’Ndrangheta, che sta conquistando posizioni nei traffici di eroina, oltre a primeggiare in quelli di cocaina. In joint venture coi calabresi, Cosa nostra stava organizzando importazioni di coca verso l’Italia per 500 chili al mese, col concorso dei temibili narco cartelli messicani». Un legame già evidenziato nel 2008 da un’altra indagine internazionale della polizia, l’operazione Solare.
L’ex “faccia oscura della luna”
È l’ennesima conferma di come si possa ormai mandare in soffitta l’efficace metafora coniata anni fa dal sostituto procuratore dello Stato americano della Florida, Julie Tingwall, che della ’Ndrangheta ebbe a dire: «È invisibile, come l’altra faccia della luna…». Nell’ultimo decennio, alcuni fatti cruenti ed eclatanti, come l’omicidio di Francesco Fortugno (medico e uomo politico assassinato il 16 ottobre 2005 a Locri, all’uscita dal seggio delle primarie dell’Unione di centrosinistra) e la strage di Duisburg, in Germania (sei calabresi uccisi davanti a una pizzeria, nell’ambito di una lunga faida fra cosche del comune calabrese di San Luca) hanno sollevato in parte il velo di indifferenza e sottovalutazione verso un’organizzazione ormai presente nei cinque continenti e capace di trasformarsi da mafia dedita a estorsioni, abigeato, contrabbando e sequestri di persona in uno degli organised crime groups più agguerriti del pianeta. Nella sola Calabria conterebbe almeno 5mila affiliati (suddivisi in “locali” e legati da stretti vincoli parentali e codici centenari d’affiliazione e omertà, “consacrati” col giuramento sul santino di San Michele Arcangelo), ma annovera presenze ovunque: Spagna, Germania, Belgio, Olanda, Polonia, Bulgaria, Romania e Grecia, ma anche Russia, nel Vecchio Continente; Usa e Canada, Colombia, Bolivia, Ecuador, Perù, Messico, Venezuela, Argentina, Brasile, Caraibi e Santo Domingo in Sud America; Kenya, Togo e Marocco, fra gli altri, in Africa; Turchia, Siria, Libano e Thailandia fra Medio Oriente e Asia.
Cosa ha determinato una tale espansione mondiale? Il business dorato del narcotraffico.
La multinazionale della bamba
Dal 2008, la ’Ndrangheta è stata inserita dal Dipartimento di Stato Usa nel Foreign Narcotics Kingpin Designation Act, la lista nera delle principali organizzazioni straniere dedite al narcotraffico. Una “posizione” dominante costruita a poco a poco dal low profile dei padrini calabresi (che, fin quando è possibile, evitano di ostentare ricchezze e di fare scruscio, cioè troppo rumore, per non farsi notare) a partire dalla metà degli anni Ottanta, quando le ’ndrine decisero di investire una parte dei proventi dei sequestri di persona nell’acquisto di stupefacentI: eroina, hashish, marijuana ma soprattutto cocaina. Il salto di qualità è avvenuto nei due decenni successivi, in concomitanza con lo sviluppo del porto calabrese di Gioia Tauro (uno dei primi 20 al mondo, con milioni di container movimentati ogni anno, in mezzo ai quali le ’ndrine riescono a far passare carichi di armi e droga: l’ultimo, 215 chili di cocaina, è stato sequestrato nei giorni scorsi) e all’intermediazione di alcuni broker di caratura internazionale, come il romano Roberto Pannunzi, detto Bebè, capace di spostare (secondo quanto scrisse il Los Angeles times) 2 tonnellate di coca al mese grazie a contatti personali in Sud America. Condannato per narcotraffico internazionale, catturato più volte dalla polizia ed evaso due volte da altrettante cliniche romane dove era ricoverato per problemi di cuore, Pannunzi è stato nuovamente arrestato nel luglio del 2013 in un centro commerciale di Bogotà, in Colombia, e portato in Italia. La politica aziendale della ’Ndrangheta calabrese è quella di commissionare l’acquisto di grandi carichi, frazionarli e rivenderli ad organizzazioni minori, anche straniere, guadagnando sui passaggi intermedi e lasciando preferibilmente che dello spaccio si occupino altri. A favorire gli accordi sono i broker come Pannunzi: raccolgono le ordinazioni per centinaia di chili o tonnellate, racimolano le quote di finanziamento, contattano i produttori e ordinano il quantitativo, procurando talvolta anche i mezzi per farlo giungere a destinazione, abbinandolo a carichi reali di frutta o di legname. Le tonnellate e i quintali viaggiano dentro container trasportati a bordo di navi o dentro la stiva di aeroplani o di rudimentali sottomarini costruiti dai narcos; i chili dentro valige, doppifondi di automobili o camion. Un business con profitti miliardari visto che, come spiega ancora Gratteri, «le ’ndrine si consorziano per l’acquisto di migliaia di chili di coca pura, a mille o duemila euro l’uno. Da ciascun chilo, il taglio consente di ricavarne altri quattro, confezionati in dosi da un grammo vendute a 50 euro l’una». Una filiera industriale grazie alla quale le ’ndrine calabresi hanno potuto creare un impero che secondo alcune stime (utili solo a fornire un ordine di grandezza) frutta loro fra 40 e 50 miliardi di euro l’anno.
Una nuova primavera
E ritorniamo dunque all’operazione New Bridge dell’11 febbraio 2014. Quel giorno, a complimentarsi con gli investigatori sono stati in tanti, a iniziare dal ministro dell’Interno Angelino Alfano e dal capo della Polizia, il prefetto Alessandro Pansa, che ha ribadito: «La ’Ndrangheta è al top delle organizzazioni criminali, ma le forze dell’ordine italiane e americane sono attente e in grado di colpire dovunque gli ’ndranghetisti vadano ad operare». Nei giorni scorsi, la riprova dell’asse con gli Usa è giunta, per così dire, in moneta sonante, sotto forma di un assegno da un milione e mezzo di dollari, consegnato a Roma dall’ambasciatore americano John R. Philips nelle mani del capo della Polizia Alessandro Pansa. È il frutto di un’operazione condotta nel 2008, quando un agente undercover della Dea fu contattato da un colombiano che voleva aiuto per riciclare proventi del narcotraffico che stavano in Italia. L’indagine, coordinata dalla Dda di Roma, si chiuse con l’arresto di 66 persone, il sequestro di una tonnellata di cocaina e di beni per 15 milioni di dollari. Oggi, riconoscendo “l’importante contributo” degli investigatori italiani, il Dipartimento di giustizia a stelle e strisce ha “girato” al Fondo unico giustizia una parte di quell’importo, che sarà destinato, ha detto il ministro Alfano, per sostenere la lotta contro il crimine. «L’Italia è all’avanguardia in fatto di norme antimafia – considera il prefetto Pansa, esperto di investigazioni economiche – Ora serve inventiva per intervenire nella fase immediata dell’arricchimento e scovare il contante prima che venga trasformato in beni, più difficili da sequestrare». Tradotta e aggiornata, è la regola aurea del giudice Giovanni Falcone, quel “troviamo i piccioli” che è la versione sicula del follow the money di matrice americana. «Non si può fare a meno di ricordare Falcone e Borsellino – conclude il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone – perché le basi dell’attuale collaborazione fra Italia e Usa le posero loro». E chissà, in barba al vecchio adagio pecunia non olet, forse a Giovanni e Paolo sarebbe scappato un sorriso nel pensare che quei dollari sporchi, tolti alle mafie e dati ai poliziotti, per una volta non puzzano. Anzi, sono quasi come i profumi di zagara e di bergamotto, che annunciano l’arrivo di una nuova primavera.
*giornalista dell’Avvenire
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La ’Ndrangheta nei media stranieri
Difficile da scrivere, ancora di più da pronunciare, la parola ’Ndrangheta ha scarseggiato nei titoli di stampa e negli strilli dei telegiornali esteri, complice il fatto che – come ha affermato il procuratore di Reggio Calabria Gratteri – Olanda, Belgio, Olanda e soprattutto Germania evitano di dire ai propri elettori e al resto del mondo che invece le ’ndrine sono infestanti per non scoraggiare gli investitori. Negli anni i media stranieri si sono interessati alla ’Ndrangheta in concomitanza con accadimenti specifici in Italia, come ad esempio l’affondamento nel Tirreno della nave con i rifiuti tossici nel 2009 o la strage di Rosarno nel 2010 o in occasione di arresti di boss e manovalanza mafiosa, anche se già era noto che il suo campo di azione non era limitato all’Italia. È però nel 2007, a seguito della strage di Duisburg, ossia l’uccisione di 6 membri del clan Pelle-Vottari ad opera delle ’ndrine Nirta e Strangio nell’ambito della faida di San Luca, che la stampa straniera prende coscienza della tentacolarità internazionale di questa organizzazione, tanto che il britannico The Guardian arriva a scrivere pochi mesi dopo “(…) la ’Ndrangheta, che ha acquisito notorietà dopo i sei omicidi in Germania (…)”. Nonostante l’avvertimento lanciato sulla Berliner Zeitung dai servizi segreti tedeschi (BND) a fine 2006, che avevano definito la ’Ndrangheta l’organizzazione criminale più pericolosa d’Europa, nonostante la consapevolezza della sua presenza in Germania fin dagli anni Ottanta e gli avvertimenti ricevuti dalle autorità italiane, è la prima volta che la ’Ndrangheta compie un’azione così eclatante al di fuori dei confini nostrani: un errore, a detta delle autorità italiane, che genera sorpresa e perplessità in Germania. Die Welt scrive che per la prima volta anche la polizia di Duisburg osa parlare di una struttura della ’Ndrangheta mentre il britannico The Independent si chiede se “[abbia] esteso i suoi tentacoli in tutta Europa?”, descrivendola come discreta, invisibile, almeno fino ad allora. Cinque anni dopo, però, la giornalista tedesca Petra Reski (che nel 2008 ha scritto un libro sulla mafia come problema europeo e non solo italiano), sul quotidiano Faz denuncia la “traccia tedesca dimenticata” sostenendo che sono pochi quelli che in Germania ricordano la strage di Duisburg e che per i tedeschi la mafia esiste solo come videogame, fiction o musica, è tornata a nascondersi dietro le sue manifestazioni folkloristiche e vuole soltanto continuare a fare la pizza in Germania. Ed è sempre Petra Reski che polemizza con la Germania che non ha visto di buon occhio la risoluzione della Commissione CRIM (presieduta da Sonia Alfano) contro la mafia in Europa, approvata a larghissima maggioranza da tutti i Paesi membri lo scorso dicembre. «Le leggi tedesche – spiega – sono per la mafia un invito a nozze: l’associazione mafiosa in Germania non è un crimine perseguibile, c’è solo l’associazione criminale di tipo mafioso, che però è un reato che non viene quasi mai applicato e che non corrisponde al 416 bis del codice italiano. Il riciclaggio di denaro sporco è in Germania un gioco per bambini. Mentre in Italia chi investe deve dimostrare che i soldi investiti provengono da fonti pulite, in Germania è l’inquirente che deve dimostrare che i soldi sono di provenienza mafiosa».
Negli ultimi mesi la ’Ndrangheta è assurta di nuovo agli onori della cronaca internazionale, prima per le dichiarazioni del procuratore Gratteri sul rischio corso da Papa Francesco a seguito delle riforme avviate all’interno dello Ior, e poi a seguito dell’operazione New Bridge, la cui notizia ha fatto veramente il giro del mondo. Non solo il New York Times, il Washington Post e tutti i media europei, ma persino The Global Times cinese e al-jazeera, quest’ultimo con la foto di magistrati e agenti della Polizia di Stato allineati durante la conferenza stampa, hanno parlato dell’indagine congiunta di magistrati e forze di polizia italiani e statunitensi che sono riusciti a sventare il tentativo della ’Ndrangheta, il primo in assoluto, di prendere piede a New York e di sostituirsi alla mafia siciliana, indebolita dal fenomeno del pentitismo, nei rapporti con Cosa nostra americana, in particolare con la famiglia Gambino, per i collegamenti che questa ha con i cartelli messicani gli Zetas in primo luogo.
C’è poi chi dorme sonni tranquilli: secondo il settimanale francese Le Point, le mafie non hanno preso piede in Francia, tanto che nel 2011 chiede a una docente universitaria di storia contemporanea, Anne-Marie Matard-Bonucci, di spiegare perché. La risposta: perché lo Stato centrale è forte, mentre le mafie approfittano della degenerazione della democrazia.
Emanuela Francia
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Dalla enne alla zeta
È stato il giovane talento del periodismo latinoamericano Diego Osorno il primo ad accorgersi dell’esistenza di un nuovo ferocissimo gruppo di narcotrafficanti in Messico, gli Zetas, che avrebbe di lì a poco dominato il mercato della coca. In un lungo viaggio durato quasi un anno ha esplorato le terre di confine con gli Usa, feudo della banda armata, per tracciarne il profilo. Ne è nato un libro inchiesta (Z, la guerra dei narcos) tradotto e pubblicato anche in Italia grazie ad un editore coraggioso, la Nuova frontiera. Seguendo le gesta criminali degli Zetas, Osorno ha scoperto il micidiale accordo che la ’Ndrangheta ha stabilito con loro, sostituendosi a Cosa nostra come “organismo gestore” dello smercio di “bianca” in Europa e nel resto del mondo. Gli emergenti sudamericani con gli emergenti mafiosi italiani: molto diversi nella struttura e nelle modalità operative, accomunati dal cibo piccante e dall’ossessione del denaro.
Diego quando è cominciata questa inchiesta lunga e dispendiosa e chi ti ha sostenuto?
La prima volta che scrissi degli Zetas fu nel marzo 2001, allora lavoravo per un giornale di Monterey e fui testimone di un conflitto a fuoco. Chiamai il mio direttore dicendogli che avevo conosciuto una banda che si chiamava Los Zetas e lui mi disse che era assurdo che ci fosse un gruppo di narcotrafficanti che si effigiasse dell’ultima lettera dell’alfabeto. Dieci anni dopo gli Zetas si attestano come i re del narcotraffico sudamericano… Nel 2010 quando gli scontri tra bande erano al culmine un mio amico giornalista, padrino di mio figlio, è stato rapito e picchiato a Reynosa. Rilasciato mi disse scoraggiato: «Il giornalismo è finito, non ha senso quello che facciamo». A quel punto dovevo fare una scelta: abbandonare l’inchiesta o pubblicarla il prima possibile.
Hai paura visto che hai scelto di continuare a vivere con tua moglie e tuo figlio nel luogo dove domina la banda che hai denunciato?
Ricevo ogni giorno minacce ma ci sono viceversa molte persone interessate a quello che faccio. La solidarietà e il sostegno sono più forti delle minacce. Non ho mai voluto spettacolarizzare la mia posizione, farmi considerare un morto che cammina. Porre la mia storia personale davanti alla Storia.
Conosci Zero zero zero di Roberto Saviano che riguarda proprio la realtà del narcotraffico?
Non ho letto Zero zero zero, perché non è stato ancora tradotto in spagnolo. Mi piacerebbe conoscere di persona Saviano, con il quale ci scriviamo già da tempo. Considero il suo primo testo, Gomorra, un libro importante perché conferma quello che pensiamo io e molti colleghi sudamericani e statunitensi. Cioè che la mafia non è più quella del Padrino ma una multinazionale affiliata a molti gruppi criminali nazionali. Come ha dimostrato bene successivamente anche il libro-inchiesta di Vincenzo Spagnolo Cocaina SpA.
Annalisa Bucchieri