Tommaso Fornaciari*

Psicodetective

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Il ruolo della psicologia investigativa nella raccolta e nell’analisi delle testimonianze nelle indagini di polizia

 

1. Introduzione
La raccolta di informazioni testimoniali è un momento fondamentale nel corso delle indagini di polizia giudiziaria. Si tratta di un’attività particolarmente delicata, i cui esiti sono potenzialmente in grado di influenzare in modo decisivo l’esito del procedimento penale. Tali esiti, come osservato da Caso and Vrij (2009), dipendono a loro volta da variabili legate a:
intervistatore: a questa dimensione appartengono i fattori legati alle strategie investigative ed alle modalità di escussione del soggetto;
intervistato: vale a dire al suo ruolo all’interno del procedimento penale, che si colloca lungo il continuum che va da quello di vittima a quello di autore del reato, e di conseguenza alle sue caratteristiche personali, come la sua eventuale vulnerabilità ed il livello di cooperazione a cui si renda disponibile;
contesto e scopi dell’intervista che, dal punto di vista del soggetto, possono apparire più o meno come un’opportunità o come una minaccia.
La raccolta delle informazioni, pertanto, richiede inevitabilmente non solo una fase di preparazione che precede l’intervista, ma anche una successiva attività di valutazione, riguardante l’efficacia della conduzione dell’intervista stessa, l’utilità dei dati raccolti e la loro attendibilità, al fine di orientare il proseguimento delle indagini.
A differenza di quanto avviene nel caso del criminal profiling, dove – come discusso nel precedente inserto – si sviluppano inferenze su un soggetto ignoto, qui sono in gioco attività che si realizzano in un’interazione personale diretta, e che in quanto tali possono facilmente godere del supporto delle discipline psicologiche. In questo inserto vengono dunque presentati gli strumenti di cui la psicologia investigativa dispone, al fine di supportare le indagini in tutte le fasi di questo processo di raccolta e analisi delle informazioni testimoniali.
Nella sezione 2 viene fornito un brevissimo inquadramento normativo sulla raccolta delle testimonianze nei procedimenti penali. Nella sezione 3 vengono discussi i fondamenti della psicologia della memoria, con particolare riferimento agli aspetti di interesse per le investigazioni criminali; nella sezione 4 vengono illustrati alcuni metodi di raccolta delle testimonianze, mentre nella sezione 5 vengono discussi alcuni strumenti utilizzati per la loro analisi. Nella sesta e ultima sezione, vengono tracciate alcune considerazioni finali.

2. Cosa dice il diritto
Sebbene la discussione degli aspetti giuridici dell’assunzione di testimonianze nei procedimenti penali non rappresenti l’obiettivo del presente inserto, è comunque necessario comprenderne le linee essenziali, poiché esse qualificano le finalità dell’atto e ne determinano il setting – ossia il contesto ambientale – in quanto stabiliscono non solo i diritti e i doveri dei partecipanti, ma anche identificano le stesse figure professionali che vi intervengono e gli eventuali strumenti tecnici che ne devono assicurare la registrazione. In questa sede, vengono pertanto forniti brevi cenni normativi che non hanno pretesa di completezza, mentre per una dettagliata disamina dell’argomento si segnala il testo di Miconi (2009).
Secondo accreditata dottrina (Cantagalli e Baglione, 2000), in contrapposizione alle indagini oggettive – che riguardano gli accertamenti su elementi di fatto – l’assunzione di informazioni testimoniali si qualifica come atto di indagine soggettiva, in quanto ha lo scopo di “assicurare una prova costituita da dichiarazioni di soggetti” per cui “la circostanza oggetto della prova viene sottoposta all’esame dell’inquirente per mezzo della mediazione delle sensazioni di un soggetto che l’ha percepita e che la riferisce” (Miconi, 2009). Tale assunzione di informazioni può essere effettuata sia direttamente dal pubblico ministero sia dalla polizia giudiziaria, su delega dell’autorità giudiziaria o di iniziativa. I principali atti tipici, vale a dire espressamente disciplinati dal codice di procedura penale, con cui il pubblico ministero raccoglie le informazioni testimoniali sono:

assunzione di informazioni. Tale istituto non si rivolge alle persone sottoposte alle indagini, bensì a coloro che “possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini” (art. 362 co. 1 cpp). Su costoro, salvo alcune eccezioni espressamente disciplinate (artt. 197, e 199-203 cpp), grava l’obbligo di presentarsi e di rispondere secondo verità, sebbene il testimone non possa essere “obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale” (art. 198 cpp). Infatti le false informazioni rese al pm sono punite dall’art. 371 bis cp, che tuttavia non prevede l’arresto in flagranza di reato. Qualora poi dalle dichiarazioni rese dovessero emergere indizi di reità a carico del soggetto, l’atto deve essere interrotto e questi deve essere avvertito che nei suoi confronti potranno essere svolte delle indagini. Le dichiarazioni incriminanti non potranno poi essere utilizzate contro la persona che le ha rilasciate (art. 63 cpp).

Interrogatorio. L’interrogatorio, svolto nella fase delle indagini preliminari, ha la funzione di accertare gli elementi idonei a giustificare l’azione penale e, in fase dibattimentale, le dichiarazioni rese dal soggetto possono essere utilizzate per eventuali contestazioni (art. 503 co. 3 cpp). Esso può essere condotto sia direttamente dal pubblico ministero, sia dalla polizia giudiziaria come attività delegata.
Dal momento che l’atto riguarda la persona sottoposta alle indagini, sono previste precise garanzie difensive. In primo luogo, fatto salvo il caso in cui vi sia “fondato motivo di ritenere che il ritardo possa pregiudicare la ricerca o l’assicurazione delle fonti di prova” (art. 364 co. 5 cpp), all’atto deve presenziare l’avvocato di fiducia (o d’ufficio). Inoltre, a differenza del caso precedente, il soggetto ha facoltà di partecipare liberamente all’interrogatorio (art. 64 co. 1 cpp) e di non rispondere alle domande, eccezion fatta per quelle finalizzate alla sua identificazione personale (artt. 64 co. 3 e 66 co. 1 cpp). Neppure è previsto l’obbligo di dire la verità (art. 24 Cost.), pur nei limiti costituiti dalla necessità di non commettere i reati di calunnia o autocalunnia (artt. 368 e 369 cp).
L’art. 64 co. 2 cpp, poi, sancisce un ulteriore principio di notevole rilevanza per la presente trattazione: “Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti”. Tale disposizione infatti, come verrà discusso più dettagliatamente nella sezione 5, esclude l’impiego ai fini processuali di diversi metodi di raccolta dei dati, quali ad esempio quelli basati sulla rilevazione di variabili fisiologiche, che sono invece consentiti in altri ordinamenti giuridici.
Infine, il codice di procedura penale detta alcune regole a cui la strategia di conduzione dell’interrogatorio deve conformarsi: infatti alla persona sottoposta ad indagini deve essere contestato “in forma chiara e precisa il fatto che le è attribuito”, e gli devono essere resi noti “gli elementi di prova esistenti contro di lei”, le cui fonti vengono comunicate “se non può derivarne pregiudizio per le indagini” (art. 65 co. 1 cpp).
Le attività della polizia giudiziaria, a loro volta, possono essere rivolte sia alle persone sottoposte alle indagini, sia a soggetti potenzialmente in grado di fornire informazioni utili per le investigazioni. Nel primo caso, l’art. 350 cpp prevede tre diverse situazioni:

sommarie informazioni della persona sottoposta alle indagini. Questa forma di assunzione di informazioni rappresenta una tipica attività di iniziativa della polizia giudiziaria e può porsi in essere nel caso in cui la persona indagata non si trovi in stato di arresto o fermo. Come nel caso dell’interrogatorio, in fase dibattimentale le informazioni raccolte possono essere utilizzate per le contestazioni in caso di difformità con le dichiarazioni rese di fronte al giudice.
Si applicano inoltre le medesime garanzie difensive previste per l’interrogatorio. Tuttavia, poiché lo scopo di tale atto è la ricostruzione degli eventi più che la contestazione del reato al soggetto, non trova applicazione l’art. 65 cpp. Questo lascia maggiore spazio alle strategie di assunzione delle informazioni in quanto, invece della contestazione “chiara e precisa” del fatto, è sufficiente l’indicazione del reato per il quale il soggetto è indiziato (Miconi, 2009).

Indicazioni assunte dalla persona sottoposta alle indagini sul luogo o nell’immediatezza del fatto. Nell’immediatezza dei fatti, invece, anche se il soggetto indiziato viene sottoposto a fermo o arresto in flagranza, la polizia giudiziaria può assumere informazioni utili alle indagini, anche in assenza del difensore. Tuttavia, se le informazioni sono assunte senza il difensore, esse non possono essere né documentate né utilizzate nelle fasi successive del procedimento (art. 350 co. 6 cpp). Ed in ogni caso il soggetto deve essere avvertito della sua facoltà di non rispondere alle domande, e del fatto che in ogni caso il procedimento seguirà il suo corso (art. 64 co. 3 cpp).

Dichiarazioni spontanee della persona sottoposta alle indagini. Infine, la persona sottoposta ad indagini ha facoltà di rilasciare dichiarazioni spontanee (art. 350 co. 7 cpp). Anch’esse possono essere utilizzate in dibattimento per le contestazioni.
Nel caso in cui, invece, la persona sentita non sia sottoposta ad indagini ma sia semplicemente potenziale detentrice di informazioni utili o sia addirittura la vittima del reato, il principale istituto è quello delle:

sommarie informazioni delle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini. Disciplinata dall’art. 351 cpp, tale attività recepisce la medesima disciplina, sopra richiamata, dell’assunzione di informazioni da parte del pubblico ministero (art. 362 cpp). In questo caso, tuttavia, rendere false dichiarazioni non configura il reato di false informazioni al pubblico ministero (art. 371 bis cpp), bensì di favoreggiamento personale (art. 378 cpp). (Caso e Vrij, 2009).
Per quanto concerne la psicologia investigativa, l’intervento della figura professionale dello psicologo nella raccolta delle informazioni durante la fase delle indagini preliminari non viene espressamente prevista dal codice di procedura penale: il requisito giuridico/professionale richiesto dal Codice per l’espletamento di tali atti risiede infatti nel possesso, da parte dell’operatore, della qualifica di agente o – più spesso – di ufficiale di pg. Per completezza del quadro, va comunque osservato che, nell’ambito delle investigazioni difensive, “il difensore, il sostituto, gli investigatori privati autorizzati o i consulenti tecnici possono conferire con le persone in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa” (art. 391 bis cpp); inoltre, nell’ambito della disciplina delle perizie e delle consulenze disposte dall’autorità giudiziaria, la possibilità di avvalersi di un “esperto in psicologia infantile” viene esplicitamente menzionata nel caso della deposizione davanti al giudice di un soggetto minorenne (art. 498 co. 4 cpp). Pertanto appare chiaro che nella realtà italiana, come osservato da Rossi e Zappalà (2005), “lo psicologo/criminologo non ha, al momento, nessun ruolo istituzionalizzato nelle prime fasi del nostro sistema penale, vale a dire le fasi delle indagini e, ancor prima, la fase del sopralluogo”. Non a caso, le linee guida deontologiche per lo psicologo forense in sostanza si rivolgono allo psicologo che accede al procedimento penale nella veste di consulente.
Ciò nondimeno, la Polizia di Stato è dotata di propri psicologi che possono intervenire a supporto delle indagini in tutte le sue fasi, tra cui quella della raccolta delle informazioni dai testimoni, specialmente in particolari casi di delicatezza delle indagini e/o vulnerabilità del soggetto da ascoltare. Inoltre, e soprattutto, gli psicologi rivestono un ruolo nella formazione del personale: ossia degli ufficiali e agenti di pg che nella prassi operativa sono appunto i deputati a trattare con i testimoni, i veri protagonisti della raccolta delle testimonianze.

3. Come i testimoni ricordano
La memoria dei soggetti coinvolti a vario titolo nelle indagini di polizia costituisce un patrimonio tanto prezioso quanto delicato, caratterizzato da processi complessi, che devono essere conosciuti e rispettati, pena la possibile commissione di gravi errori investigativi. Per illustrare la problematicità dell’argomento, risultano illuminanti le parole di Primo Levi, che scrisse pagine indimenticabili ispirate alla sua memoria di sopravvissuto al campo di sterminio nazista di Auschwitz: “La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace [...]. I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei. Lo sanno bene i magistrati: non avviene quasi mai che due testimoni oculari dello stesso fatto lo descrivano allo stesso modo e con le stesse parole, anche se il fatto è recente, e se nessuno dei due ha un interesse personale a deformarlo [...]. Un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dall’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese” (Levi, 1986).
La memoria, dunque, non è un semplice serbatoio in cui i dati vengono immagazzinati in modo statico, ma un processo che va incontro a continue modificazioni. In particolare, tale processo si snoda attraverso tre fasi, che meritano di essere singolarmente discusse.

3.1 Codificare le percezioni
La codifica è il processo attraverso il quale dalla percezione di un evento si perviene alla creazione di una sua rappresentazione interna che poi si fissa in una traccia mnestica. La formazione della memoria di un evento, pertanto, rappresenta il risultato finale di un processo che si innesca nel momento percettivo, prosegue attraverso l’elaborazione interna dei dati sensoriali e si conclude con la strutturazione di una traccia mnestica. Quattro tipi di fattori intervengono in questa fase di codifica del ricordo:

fattori situazionali. Si tratta delle variabili più legate al contesto ambientale in cui avviene codifica della traccia. Le principali sono:
durata dell’osservazione. Chiaramente, il tempo di esposizione allo stimolo correla positivamente con l’accuratezza del ricordo.
Movimento. Parallelamente, l’eventuale velocità di spostamento degli oggetti può ridurre la precisione della percezione e di conseguenza della traccia mnestica.
Distanza. È ovvio che all’aumentare della distanza la possibilità di cogliere elementi di dettaglio si riduce.
Condizioni di luce. Variazioni della luce possono produrre effetti di distorsione, e la percezione dei colori viene fortemente influenzata dalle fonti di illuminazione artificiale.

Caratteristiche dello stimolo. Come sopra accennato, la percezione dello stimolo viene seguita da un’elaborazione cognitiva tale per cui, in generale, stimoli strutturati e/o dotati di significato si ricordano meglio di quelli privi di tali requisiti, e dettagli inusuali vengono notati e ricordati più facilmente di quelli comuni.

Caratteristiche dell’osservatore. Naturalmente, la qualità del ricordo dipende dalla capacità del soggetto di percepire gli stimoli e di comprenderli. Inoltre, nelle indagini di polizia, nella quasi totalità dei casi la memoria si forma in seguito ad un apprendimento che non è intenzionale, bensì incidentale. Vale a dire che, quando il soggetto vive l’esperienza che poi sarà chiamato a riferire, non sa che essa diverrà oggetto di intervista e non è pronto a trattenerne volontariamente il ricordo – infatti la qualità del ricordo dipende dall’uso delle risorse attentive durante la fase percettiva (Draschkow et al., 2013).
Peraltro l’esperienza sensoriale, i processi attentivi e le relative elaborazioni cognitive possono essere fortemente condizionati dalle reazioni emotive suscitate dagli eventi a carattere potenzialmente traumatico, il che rappresenta una situazione non infrequente nelle indagini di polizia. In casi estremi, di fronte ad eventi critici i soggetti possono persino andare incontro ad esperienze dissociative, in grado di determinare fenomeni amnesici. Più comunemente, in ogni caso, possono verificarsi distorsioni di carattere:
temporale, come la sensazione che gli eventi si susseguano in modo rallentato o accelerato;
uditivo, come l’attenuazione o l’intensificazione dei suoni;
visive, tra queste sono noti alcuni interessanti fenomeni, come quello del “weapon focus” (Loftus et al., 1987) per cui, in situazioni in cui sono presenti armi, queste tendono a catturare l’attenzione dei soggetti fino al punto che questi poi non sono in grado di riferire altri dettagli dell’evento.

3.2 I magazzini della memoria
L’evento, una volta percepito e cognitivamente strutturato come esperienza cosciente, costituisce una traccia mnestica che può essere rievocata. Tuttavia, non esiste un solo magazzino in cui le tracce mnestiche appena formate possono essere “depositate”. Si distinguono infatti diversi sistemi di memoria:

memoria a breve termine (MBT) o memoria di lavoro (ML). Durante l’esposizione ad uno stimolo, la quantità di informazioni che possono essere assimilate ed il loro tempo di sussistenza sono limitati. Questo dà l’impressione che le tracce mnestiche vengano collocate in un sistema a capacità limitata e breve durata: la memoria a breve termine (Craik e Lockhart, 1972), che ha la funzione di consentire l’elaborazione delle tracce. Da questo punto di vista, essa si configura come memoria di lavoro (Baddeley e Hitch, 1975) e consta di tre sottosistemi:
un sistema fonologico, che conserva le proprietà fonetiche dello stimolo;
un taccuino visuo-spaziale che gestisce appunto le informazioni visuo-spaziali;
un sistema esecutivo centrale, che elabora le informazioni a livello cosciente.

Memoria a lungo termine (MLT). La memoria a breve termine, inoltre, funge da anticamera per il transito della traccia mnesitica verso il magazzino della memoria a lungo termine. La reiterazione della traccia è il meccanismo che consente il suo passaggio da un sistema all’altro, ed una volta nella memoria a lungo termine le tracce possono essere conservate senza limiti teorici di quantità e durata.
Il fatto che la conservazione del ricordo a lungo termine avvenga per reiterazione ed elaborazione cognitiva, lascia intuire che esso, pur codificato, è inevitabilmente soggetto a processi che sono in grado di deformarlo. Questo è in effetti un rischio concreto, in quanto la reiterazione e l’elaborazione cognitiva del ricordo costituiscono non solo modi per consolidarlo, ma anche occasioni per arricchirne o modificarne i dettagli. Quando un ricordo viene alterato da informazioni successive alla fase di codifica, tecnicamente si parla di “interferenza retroattiva”: un fenomeno che deve essere tenuto in attenta considerazione durante l’assunzione di informazioni nelle indagini di polizia.
Tale fenomeno è stato mostrato in un celebre studio di Loftus (1975), in cui ai soggetti veniva mostrato il filmato di un incidente stradale, in seguito al quale venivano loro poste delle domande, tra cui delle “leading questions” che includevano informazioni potenzialmente fuorvianti. Risultò che chiedere se si ricordava un elemento in realtà non presente nel filmato induceva, a distanza di una settimana, il falso ricordo dello stesso elemento in circa il 30% dei partecipanti, percentuale che si riduceva della metà in assenza di esposizione alle leading questions. Similmente, si notò che la valutazione della velocità dello scontro aumentava all’aumentare della violenza suggerita dai termini usati nel porre domande sull’impatto. Questi risultati sono illuminanti sul peso che può avere la rielaborazione delle tracce mnestiche, specialmente in presenza di informazioni successive alla codifica. Si comprende dunque quanto sia importante tutelare il patrimonio della memoria, ad esempio, in presenza di numerosi testimoni di un evento criminale, cercando di impedire la loro interazione, che potrebbe portare ad una contaminazione del ricordo dei singoli.
Inoltre, se da un lato è vero che un ricordo immagazzinato nella memoria a lungo termine può essere conservato senza limiti di tempo, è altrettanto vero che la quantità di dettagli che riescono ad essere ricordati si riduce col passare del tempo. In particolare, la quantità dei ricordi che possono essere recuperati subisce un crollo verticale nelle primissime ore immediatamente successive alla fase di codifica, per poi continuare a scendere, seppure in modo meno drastico, nei primi giorni ed infine stabilizzarsi nel lungo periodo: si tratta di una funzione logaritmica (mostrata in figura 3.2), nota sin dal XIX secolo grazie ai famosi studi di Hermann Ebbinghaus (Rubin e Wenzel, 1996). Ai fini delle indagini di pg, risulta pertanto evidente quanto sia importante avere la possibilità di raccogliere le testimonianze dei soggetti nel più breve tempo possibile dall’evento che deve essere rievocato.

3.3 Recuperare le tracce
Il recupero della traccia mnestica è un momento critico, e comporta due tipi di rischi che devono essere tenuti in considerazione durante l’assunzione di informazioni:
l’interferenza retroattiva, sopra menzionata, nel caso in cui al soggetto vengano fornite informazioni in grado di alterare il ricordo;
la traumatizzazione secondaria, nel caso del ricordo di eventi traumatici. Rievocare eventi a forte valenza emotiva, infatti, implica il riaffiorare delle emozioni che vi sono associate, il cui impatto sul soggetto deve essere minimizzato.
Mentre la gestione di entrambi questi rischi viene discussa nella sezione 4 di questo inserto, qui occorre sottolineare che il recupero delle tracce mnestiche può essere facilitato mediante alcuni accorgimenti. Ad esempio, secondo il principio della specificità della codifica (Tulving e Thomson, 1973), un ricordo emerge con maggiore probabilità se viene recuperato in un contesto ambientale e/o emotivo simile a quello della codifica. Si parla in questo caso di memoria stato dipendente, intendendo che ricordi che si sono formati mentre il soggetto si trovava in un dato stato d’animo, vengono recuperati in modo più accurato se durante la rievocazione questi si trova nel medesimo stato d’animo.
Tale fenomeno è stato osservato, ad esempio, in alcuni esperimenti di Bower (1981), in cui nei soggetti veniva indotto, mediante trance ipnotica, un tono dell’umore conforme o difforme rispetto a quello che essi avevano durante la fase di codifica: risultò che le prestazioni della memoria erano migliori quando l’umore al momento del recupero era coerente con quello della codifica. Ovviamente, l’art. 64 co. 2 cpp impedisce che tale tipo di attività venga svolta nei nostri Tribunali, trattandosi esattamente di una tecnica idonea“ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti“, in quanto basata proprio sull’induzione di uno stato di coscienza alterato.

4. Raccogliere informazioni
Nella raccolta di informazioni testimoniali nelle indagini di polizia si possono distinguere due principali scenari, in base al fatto che il soggetto ascoltato conceda o neghi la propria cooperazione agli investigatori. Esistono precise tecniche di raccolta delle informazioni applicabili nelle due diverse circostanze, che verranno esaminate nelle sottosezioni 4.2 e 4.3. Purtroppo, specialmente alle prime battute delle indagini, può non essere facile determinare se il soggetto sia animato da un sincero intento collaborativo o meno.
Tuttavia i meccanismi che determinano i processi mnestici, brevemente richiamati nella sezione precedente, ispirano alcuni principi di carattere generale che dovrebbero trovare sempre applicazione nell’assunzione di informazioni nelle indagini di polizia: specialmente quando non vengono impiegati altri metodi strutturati di raccolta delle informazioni. Quest’ultima, in effetti, è la situazione più frequente nella prassi operativa, come notano anche Caso e Vrij (2009), che anzi lamentano l’assenza in Italia di “strumenti e protocolli standard” per “l’interrogatorio dei presunti rei”. In una prospettiva di ricerca, questo rappresenta certamente un limite; tuttavia i margini di discrezionalità che il codice di procedura penale concede sulle modalità di conduzione degli interrogatori e delle assunzioni di informazioni permette la massima flessibilità e l’aderenza dell’escussione alle specifiche necessità dei singoli casi. D’altro canto, il codice non rinuncia a garantire al soggetto ascoltato tutele anche più stringenti rispetto a quelle di altri sistemi penali, come viene discusso nella sottosezione 5.1.1.

4.1 Le regole da seguire
Le linee guida che dovrebbero essere seguite nell’escussione dei testimoni/sospettati hanno tre finalità principali, di carattere sia negativo che positivo:
evitare la deformazione della traccia mnestica e quindi impedire la produzione di falsi ricordi;
evitare eventuali fenomeni di vittimizzazione secondaria;
ottimizzare la resa testimoniale.
Con questi scopi, chi intervista un soggetto che può riferire su fatti attinenti alle indagini dovrebbe porre in essere le seguenti condotte:

chiarire il fine dell’intervista. Per banale che sia affermarlo, come ogni altra interazione umana, l’intervista è un evento che richiede lo stabilirsi di un rapporto tra i partecipanti, sia che questo si configuri come un’alleanza per il buon andamento delle indagini, sia che esso si sviluppi come un conflitto, dissimulato dal soggetto, in cui investigatori ed intervistato perseguono fini opposti. In entrambi i casi, è necessario che chi conduce l’intervista prenda una posizione chiara, rispetto alla quale l’interlocutore deciderà come porsi. In particolare, occorre far sì che l’intervistato si renda conto del fatto che gli investigatori sono determinati ad accertare i fatti. Per tale ragione, essi hanno il dovere di prendere in considerazione ogni possibile ipotesi, incluse quelle che possono comportare responsabilità del soggetto intervistato; tuttavia l’escussione non ha il fine di ottenere ammissioni di responsabilità, bensì quello di riscostruire gli eventi nella loro verità storica. Qualora gli investigatori lo ritengano opportuno, questi concetti possono essere dichiarati esplicitamente nella fase di apertura dell’escussione; in ogni caso è fondamentale che l’onestà intellettuale che deve caratterizzare le indagini venga dimostrata al soggetto in ogni momento dell’intervista, appunto mediante la messa in atto delle condotte discusse nei punti successivi.
Tale chiarezza, che non nuoce nei confronti di un reo, è fondamentale al fine di prevenire l’insorgenza di fenomeni di “compliance” – ovvero compiacenza – o, peggio, di false confessioni. Infatti, nella dinamica dell’intervista investigativa, è virtualmente inevitabile che chi conduce l’assunzione di informazioni venga percepito come avente una posizione di potere e magari anche uno status sociale superiore a quello dell’intervistato. Tale situazione potrebbe elicitare in taluni soggetti risposte tese ad assecondare le possibili aspettative degli investigatori: per disinnescare tale pericolo occorre pertanto che il soggetto percepisca che lo sforzo degli investigatori è teso alla ricostruzione della verità, non alla conferma di una tesi piuttosto che un’altra, né all’acquisizione di informazioni forzatamente accurate, a scapito dei dubbi e delle lacune della memoria, che sono normali in qualunque escussione.

Non fornire informazioni sui fatti che devono essere rievocati. Al fine di non determinare possibili distorsioni nelle tracce mnestiche, nelle domande che si pongono al soggetto si dovrebbe cercare di non includere informazioni relative ai fatti che devono essere narrati. Le informazioni che si possono lecitamente usare nel porre le domande, in teoria, dovrebbero essere quelle fornite per la prima volta dal soggetto stesso. Si tratta di un gioco di abilità per nulla banale, che implica la necessità di arrivare in modo graduale alle informazioni desiderate. Ad esempio, una domanda del tipo «Ricorda il colore dell’auto dei rapinatori?»fornisce al soggetto due informazioni: che i rapinatori avessero un’auto, e che gli investigatori ritengono che egli possa averla vista: senza contare l’assunto che già tutti sappiano che si sta parlando di un evento che coinvolge dei rapinatori. Queste informazioni sono potenzialmente in grado di indurre nel soggetto la formazione di falsi ricordi, come discusso nella sottosezione 3.2. Pertanto, sarebbe stato più corretto arrivare al punto attraverso passaggi intermedi. Si sarebbe potuto indurre il soggetto a descrivere le fasi finali dell’evento, mediante domande come «può descrivere la conclusione dell’evento?» (la “conclusione” è un’assunzione lecita, visto che se ne sta parlando!). Questo potrebbe condurre il soggetto a parlare dell’allontanamento dei rapinatori, ed a quel punto sarebbe lecito utilizzare l’informazione fornita dal soggetto per chiedere: «Ricorda come questi si siano allontanati?». E così via, in una graduale costruzione della narrazione, i cui mattoni dovrebbero essere portati esclusivamente dal soggetto intervistato.

Porre domande aperte. Un modo efficace di evitare i fenomeni suggestivi sopra descritti e di offrire al contempo al soggetto la massima libertà di esprimersi, consiste nel porre domande aperte, ossia domande che presuppongono risposte libere ed articolate, piuttosto che brevi e/o ristrette ad alternative prefissate. L’obiettivo dell’escussione, infatti, è ottenere il maggior numero possibile di informazioni, ciò che è reso possibile dal lasciare al soggetto piena libertà di esprimersi. Consentirgli di sviluppare la narrazione come preferisce, inoltre, contribuisce a metterlo a proprio agio: e sul fatto che i soggetti siano in grado di fornire informazioni più accurate quando si trovano in una condizione di benessere, la letteratura è concorde (Caso e Vrij, 2009).

Non interrompere. Per quanto possa apparire un’assoluta banalità, l’esperienza insegna che non interrompere il soggetto che parla può risultare in realtà più difficile di quanto sembri. Quando il soggetto rilascia dichiarazioni che sembrano interessanti, la tentazione di intervenire chiedendo precisazioni può essere forte. Pertanto l’intervistatore deve essere disciplinato ed addestrato a non essere precipitoso, ma a consentire che il soggetto segua il proprio filo di pensieri: il momento per gli approfondimenti inizia quando il soggetto dimostra di aver completato il proprio discorso.
Ovviamente attenersi a questa indicazione risulta particolarmente difficile in presenza di soggetti prolissi e tendenti a divagare. È diffusa e giustificata opinione che, in questi casi, si dovrebbe con garbo riportare il soggetto sul seminato (Miconi, 2009). Anche in questo caso, tuttavia, è consigliabile cautela nel fermare l’eloquio del soggetto, il quale potrebbe anche inavvertitamente fornire elementi interessanti, senza considerare che le interruzioni incidono negativamente sul clima dell’intervista.

Sostenere il silenzio. La medesima attenzione che va posta nel non interrompere il discorso di chi parla, va posta anche nel non interromperne il silenzio. Quella di riempire le pause con delle parole può essere una tentazione forte, ed è anche un errore. Occorre lasciare che l’impulso a riempire lo spazio vuoto si manifesti nel soggetto ascoltato prima che nell’investigatore, infatti la provocazione rappresentata dal semplice silenzio può rappresentare un potente incentivo a parlare. Invece che coperto di parole, esso va sostenuto mantenendo il contatto con lo sguarda e fornendo segnali di incoraggiamento come cenni di assenso o brevissimi commenti del tipo “sì”, “va bene”, “continui”. Questo consente al soggetto di rilasciare dichiarazioni che andrebbero perdute se non gli fosse lasciato il tempo di riordinare le idee e di percepire il bisogno di arricchire la propria testimonianza.

Offrire alla vittima il controllo dell’escussione. Nel caso, infine, che la persona ascoltata sia la vittima del reato, particolare attenzione andrà posta a minimizzare i rischi di vittimizzazione secondaria. Sappiamo infatti che rievocare un evento traumatico ne riattiva le reazioni emotive, e questo potrebbe essere fonte di ulteriore disagio per il soggetto. In questo caso l’investigatore dovrà rendere consapevole l’intervistato che egli ha piena facoltà di gestire i modi e i tempi dell’assunzione di informazioni, che può essere interrotta a suo piacimento ed eventualmente ripresa in un secondo tempo. Queste indicazioni permettono alla persona sentita di rendersi consapevole di avere il controllo della rievocazione: si tratta di una consapevolezza di grande importanza, considerando che uno degli aspetti più traumatici legati agli eventi critici risiede proprio nella percezione di perdita di controllo sulle circostanze che si sono verificate.
Inoltre dovrà essere ben calibrato, di fronte al soggetto, il peso che si attribuisce alla testimonianza per la prosecuzione delle indagini. Qualora infatti questi avverta una responsabilità eccessiva, potrebbe manifestare ansia e disagio, a scapito del suo benessere e della resa testimoniale. Anche all’estremo opposto, se il soggetto avvertisse l’escussione come una procedura inutile, potrebbe subire un’ulteriore forma di vittimizzazione secondaria, legata al senso di impotenza a reagire agli eventi subiti, e potrebbe non essere in grado, di nuovo, di offrire il meglio come testimone. Se invece il testimone si rende conto che l’escussione è importante per le indagini, pur non rappresentando l’ultima chance per la loro buona prosecuzione, potrebbe sentirsi motivato a dare il meglio di sé. In questo caso, la percezione di avere dato un valido contributo alle investigazioni potrebbe avere persino una valenza positiva in termini terapeutici.

4.2 Intervistare chi vuol collaborare
Esistono diversi protocolli di intervista pensati per essere applicati di fronte a testimoni collaborativi, come – per citarne solo alcune tra le più note – la “step-wise interview”, pensata per bambini e testimoni vulnerabili (Yuille et al., 1999), o la “cognitive interview” (Fisher e Geiselman, 1992). Quest’ultima ha goduto di grande fortuna, sia per le sue solide fondamenta teoriche, che affondano le radici nelle evidenze sperimentali sopra esposte della psicologia cognitiva, sia per il fatto che, sebbene sia stata messa a punto da psicologi, può essere applicata direttamente dagli investigatori, sia per la sua facilità di applicazione in diversi contesti operativi.
L’intervista cognitiva si basa su quattro compiti specifici che il soggetto è chiamato a svolgere (Geiselman et al., 1985):

ripristinare mentalmente il contesto ambientale e personale. Il soggetto viene invitato a ricostruire nella propria mente il contesto ambientale e personale dell’evento da ricordare. Oltre al contesto ambientale, può essere chiesto al soggetto di rievocare lo stato della mente in cui si trovava, ciò che può migliorare la rievocazione, in virtù del fenomeno della dipendenza della memoria dallo stato, come esposto nella sottosezione 3.2.

Riportare ogni cosa. Il testimone viene incoraggiato a esprimere a parole ogni ricordo, senza filtrarli in base a ciò che gli sembri rilevante o meno.

Ricordare gli eventi secondo ordini diversi. Al soggetto può essere chiesto di iniziare la narrazione a partire da momenti diversi, e da lì procedere in avanti o a ritroso.

Cambiare prospettiva. Infine può essere richiesto di narrare l’evento cercando di assumere altri punti di vista.
Tali compiti si inscrivono nell’evento complessivo dell’intervista, che consta di diverse fasi:
1. introduzione: viene stabilito un primo rapporto tra intervistato ed intervistatore, e vengono presentati i 4 compiti sopra menzionati;
2. narrazione libera: il soggetto viene invitato a narrare liberamente l’evento;
3. compiti specifici: il testimone viene poi guidato allo svolgimento dei compiti specifici dell’intervista cognitiva;
4. valutazione: successivamente, la testimonianza viene valutata alla luce dei dati noti sull’evento ricordato;
5. chiusura: infine si chiude l’intervista, lasciando aperta la possibilità di ulteriori precisazioni, qualora il soggetto ritenga di essere in grado di fornirle.
Francamente, le tecniche del cambiamento di ordine degli eventi e di prospettiva suscitano in chi scrive qualche perplessità, in quanto rappresentano distorsioni artificialmente imposte alle tracce mnestiche; in ogni caso l’intervista cognitiva ha dimostrato di essere un ottimo strumento, in grado di incrementare la quantità di ricordi richiamati, senza aumentare il numero di imprecisioni (Caso e Vrij, 2009).

4.3 Per i più reticenti
Anche nel caso di soggetti che si mostrano non collaborativi, è possibile rinvenire in letteratura diverse tecniche di assunzione di informazioni, come quelle proposte dal gruppo di Inbau et al. (2011). Tuttavia, esse sono molto discusse ed altrettanto discutibili, sia sul piano etico che su quello scientifico. L’assunto di base – più o meno esplicitato – risiede infatti nell’idea che per ottenere informazioni da chi non collabora sia necessario metterlo in qualche modo sotto pressione. Ma mentre si concorda sul fatto che un’atmosfera piacevole permetta di ottenere il massimo con soggetti cooperativi, nei confronti di quelli non cooperativi tutto è da dimostrare. Inoltre, correttamente, Miconi (2009) è scettico sull’applicabilità di tali tecniche nel sistema giuridico italiano, in quanto idonee a provocare nel soggetto interrogato “un vuoto di potere critico, logico e analitico” che violerebbe il principio di libertà di autodeterminazione sancito dall’art. 64 co. 2 cpp.
L’approccio di tali autori si basa infatti sul porre al soggetto domande provocatorie volte a elicitare una reazione emotiva e comportamentale sulla base della quale valutare la sua presunta colpevolezza. Ad esempio, al soggetto può essere chiesto se abbia mai pensato di commettere il reato per il quale si indaga, o quale tipo di pena ritenga dovrebbe essere comminata all’autore. Tuttavia la validazione scientifica dei criteri utilizzati per valutare le risposte delle persone interrogate è dubbia (Caso e Vrij, 2009). Inoltre, qualora il soggetto sia effettivamente sospettato di aver commesso il reato, gli autori propongono la c.d. tecnica dei nove passi. Essa ruota attorno all’idea di affrontare il soggetto dichiarando che egli è ritenuto responsabile del reato, per poi cercare di vincere le sue resistenze ad ammettere le presunte responsabilità cercando di ottenere progressive ammissioni e cercando di mostrare sotto una luce favorevole lo scenario che gli si aprirebbe in seguito ad una confessione. Come extrema ratio, gli autori prevedono persino di bluffare, dichiarando al soggetto di essere in possesso delle prove della sua colpevolezza.
La situazione operativa quando si è di fronte a soggetti non collaborativi viene dunque riassunta in modo efficace da Caso e Vrij (2009): “In questo caso un approccio etico avrà scarso successo: è il caso delle persone che non vogliono cooperare. Questo pone un problema, specialmente quando si ha a che fare con persone poco collaborative ma accusate di un reato grave. Metodi etici usati per rendere queste persone più disponibili a collaborare nelle indagini devono essere ancora sviluppati. Il problema tuttavia rimane: metodi scorretti portano sia le persone colpevoli che quelle innocenti a collaborare e successivamente a confessare anche reati mai commessi”.
A tale proposito, vale comunque la pena osservare che, nella grande maggioranza dei casi, è sufficiente fare presente al soggetto che si conta sul suo aiuto per indurlo ad un atteggiamento collaborativo, ancorché di facciata, poiché un brusco rifiuto a cooperare costituirebbe un’implicita ammissione di responsabilità che chiunque desidera evitare. Tuttavia, come viene discusso nella sezione seguente, anche un atteggiamento falsamente cooperativo può essere oggetto di valutazione, e potrebbe condurre, piuttosto che ad una confessione inattendibile e magari ottenuta con mezzi non etici e giuridicamente scorretti, ad una plausibile valutazione del suo reale atteggiamento verso le indagini. Pertanto, è sommessa opinione di chi scrive che creare un’atmosfera accogliente sia quasi sempre l’opzione più vantaggiosa. Il soggetto collaborativo, infatti, sarà messo nelle condizioni di offrire il suo massimo contributo; e quello non collaborativo farà più fatica a sostenere un atteggiamento di evidente chiusura. Anzi, sentendosi a suo agio potrebbe essere indotto ad aprire il canale della comunicazione, anche se ingannevole, ed a fornire informazioni che potrebbero al limite ritorcerglisi contro: eventualità che di certo non potrebbe verificarsi nel caso di uno stile duro di interrogatorio, che legittimerebbe il soggetto ad assumere atteggiamenti difensivi. Le persone devono essere lasciate tranquille mentre si mettono nei guai da sole.

5. Interpretare le testimonianze
La raccolta delle informazioni testimoniali, nelle indagini di polizia, risulterebbe fine a se stessa se non fosse seguita da un’attività di analisi dei dati raccolti. Quando tuttavia non si disponga di riscontri esterni per verificarne la rispondenza ai fatti, si rende necessario orientare le indagini cercando di valutare l’attendibilità del testimone e delle dichiarazioni rese, mediante l’analisi del suo stesso comportamento. Il problema, in sostanza, è quello di esaminare il soggetto al fine di individuare eventuali segnali indicativi di menzogna. Tali segnali possono essere ricompresi in tre grandi categorie:
variabili fisiologiche;
comportamenti non verbali;
comportamenti verbali.
Tali variabili corrispondono ad altrettanti ambiti di ricerca, all’interno dei quali sono state sviluppate diverse tecnologie e metodi di analisi, che vale la pena vedere più da vicino.

5.1 Le bugie hanno le gambe corte?

5.1.1 La macchina della verità
Il più famoso strumento per l’identificazione della menzogna nelle testimonianze è la cosiddetta macchina della verità. Tecnicamente, si tratta del poligrafo, che registra variabili fisiologiche come l’attività elettrodermica (EDA), la pressione arteriosa e la frequenza respiratoria. Negli Stati Uniti, il dibattito sull’ammissibilità nei tribunali di misure di variabili fisiologiche per valutare la veridicità delle testimonianze si è aperto nell’ormai lontano 1923, nel famoso caso Frye vs. United States (Saxe e Ben-Shakhar, 1999). In Italia, peraltro, lo stesso dibattito non ha avuto luogo, in quanto l’uso di strumenti come il poligrafo non è consentito, in quanto considerato lesivo del principio della “libertà morale”, sancito dall’art. 188 cpp, che a sua volta ribadisce quanto stabilito nel menzionato art. 64 cpp. Tale principio, che affonda le radici nelle idee della filosofia illuminista, postula che il cittadino deve essere lasciato libero di determinare le proprie risposte davanti alla legge, e tale possibilità verrebbe negata dall’impiego di tecniche che registrano al contrario risposte involontarie (Maffei, 2007).
Il presupposto teorico delle rilevazioni effettuate tramite poligrafo, infatti, risiede nell’idea che particolari risposte fisiologiche possano essere associate all’atto del mentire, e quindi possano essere utilizzate per individuare le false dichiarazioni. In particolare, le variabili registrate possono essere utilizzate seguendo due tipici paradigmi di indagine:

Concern approach, o approccio dell’inquietudine. Questo metodo si basa sull’assunto che rilasciare false dichiarazione implichi una condizione di stress, che si cerca di misurare col poligrafo. Il soggetto viene pertanto sottoposto ad un protocollo d’intervista, il Comparison question test (CQT) – Test delle domande comparative – finalizzato a verificare le differenze di risposte fisiologiche di fronte a domande neutre e domande inerenti al crimine.
Vrij (2008) ha esaminato la ricca letteratura sull’argomento, considerando gli studi effettuati su casi reali. In tali ricerche, infatti, nonostante le difficoltà nella raccolta dei dati, le condizioni psicologiche dei soggetti sono genuine per via dei rischi reali che essi corrono, condizioni che non vengono riprodotte negli studi di laboratorio. I risultati degli studi sul campo, dunque, hanno mostrato che attraverso il poligrafo venivano correttamente identificati tra l’83% e l’89% dei mentitori: un risultato notevole. Purtroppo, però, i testimoni veritieri venivano identificati correttamente solo in un range compreso tra il 53% ed il 75% dei casi. In sostanza, questo significa che i segnali di stress elicitati da numerosi soggetti sono stati erroneamente interpretati come indicatori di menzogna: questi risultati implicano la necessità di un uso cauto dello strumento.

Orienting reflex approach, o approccio del riflesso di orientamento. L’assunto teorico di questo filone di ricerca vuole che i soggetti mostreranno specifiche risposte di orientamento quando esposti a stimoli per loro significativi. Essi vengono dunque sottoposti al Guilty knowledge test (GKT) – Test della conoscenza colpevole – sviluppato da Lykken (1959), basato appunto sulla somministrazione di stimoli che non sono conosciuti da coloro che non hanno commesso il reato per cui si indaga.
Gli studi sul campo basati su questo approccio purtroppo sono pochi, in quanto non è facile preparare stimoli che siano certamente significativi per i colpevoli, ma non per gli innocenti. Questa difficoltà rappresenta il principale limite di questo approccio, che tuttavia sembra essere molto meno vulnerabile di quello precedente all’identificazione erronea dei mentitori (Vrij, 2008).

5.1.2 La risonanza magnetica funzionale - fMRI
Uno degli approcci più innovativi negli studi sulla menzogna è rappresentato dalle tecniche di “neuro-imaging”. Tra queste, la risonanza magnetica funzionale (fMRI) è la più diffusa negli ospedali e nelle università, ed è uno strumento fondamentale nelle moderne neuroscienze. Tale tecnica, che misura le variazioni di flusso ematico e consumo di ossigeno nelle diverse aree cerebrali, è stata utilizzata per visualizzare l’attività neurale dei soggetti sperimentali mentre svolgevano compiti che comportavano la necessità di mentire. Tale approccio ha provocato grande entusiasmo, tanto che alcuni autori hanno dichiarato, non senza enfasi: “Esiste una differenza neurofisiologica tra falsità e verità a livello di attivazione cerebrale, che può essere individuata mediante fMRI” (Langleben et al., 2002). E negli Stati Uniti già esistono almeno due laboratori che forniscono, a pagamento, servizi di identificazione della menzogna basati proprio sulla fMRI.
Altri autori, tuttavia, sono più cauti. Come osserva Simpson (2008), l’fMRI non identifica direttamente la traccia neurale della menzogna: esattamente come il poligrafo, essa non “legge la mente”, bensì misura variabili fisiologiche correlate all’attività del mentire, in situazioni sperimentali: non dice se la memoria del soggetto contenga o meno ciò che egli afferma. Inoltre, come nota Vrij (2008), la risonanza magnetica è una tecnica costosa e scomoda per il soggetto, il che ne limita l’applicabilità pratica. In ogni caso, si tratta di un campo di ricerca estremamente interessante, ed è facile prevedere che in futuro farà parlare di sé.

5.1.3 Altre tecnologie
Altre tecnologie, meno diffuse, vengono impiegate per studiare la menzogna. Tra le più significative, possono essere ricordate:

Voice stress analysis - VSA. L’analisi dello stress vocale si basa sull’analisi delle tracce audio delle dichiarazioni rese dai soggetti. Ha il vantaggio di essere un metodo non invasivo, ma non risulta particolarmente accurato nell’identificazione della menzogna (Vrij, 2008).

Thermal imaging. Le immagini termiche hanno goduto di grande notorietà per il lavoro di Pavlidis et al. (2002), apparso su Nature poco dopo i drammatici attacchi dell’11 settembre 2001. Come negli altri casi, tuttavia, essa non appare essere una tecnologia risolutiva.

Event-related potentials - ERP. I potenziali evocati sono risposte cerebrali correlate a stimoli specifici, che vengono misurate tramite elettroencefalografia. Tra queste risposte, l’onda P300 si manifesta in seguito all’esposizione del soggetto a stimoli significativi sul piano personale. Pertanto, la P300 può essere utilizzata per identificare la menzogna in situazioni analoghe a quelle dell’Orienting reflex approach, menzionato sopra. E come nel caso del poligrafo, Vrij (2008) riporta che i risultati sono molto buoni: 82% di mentitori correttamente identificati, e meno del 9% di soggetti sinceri erroneamente considerati menzogneri.

Transcranial direct current stimulation - tDCS. Si tratta di una tecnica studiata in Italia. Priori et al. (2008) hanno stimolato direttamente la corteccia prefrontale-dorsolaterale (DLPFC), mostrando che tale stimolazione influisce sui tempi di reazione nella produzione di risposte vere e false. A conoscenza di chi scrive, questa è l’unica tecnica che studia la menzogna mediante la diretta manipolazione delle funzioni cerebrali.

Autobiographical Implicit association test - aIAT. Lo stesso gruppo di lavoro, che fa riferimento al professor Sartori dell’Università di Padova, infine, nel 2009 ha valutato l’attendibilità della testimonianza di una donna vittima di violenza misurando i suoi tempi di reazione a stimoli specifici, e per la prima volta in Italia l’esito del test è stato accolto in Tribunale: si tratta non solo di una tecnica, ma anche di una svolta giurisprudenziale di grande interesse (Agosta et al., 2011).

5.2 L’analisi del comportamento non verbale
Secondo la sistematizzazione proposta da Zuckerman et al. (1981), il mentire influisce sulle sfere descritte di seguito.

Reazioni emotive. Al mentire si associano principalmente tre tipi di emozioni: senso di colpa, paura e piacere (Ekman 1989, 2001). Esse possono pertanto condizionare il comportamento del mentitore.

Sforzo cognitivo. Mentire comporta poi lo svolgimento di diversi compiti particolarmente impegnativi a livello cognitivo, come quelli di produrre una narrazione plausibile e di non cadere in contraddizione.

Sforzo di controllo del comportamento. Inoltre il mentitore deve cercare di controllare il proprio comportamento verbale e non verbale al fine di risultare convincente, e questo compito può risultare difficile, nella misura in cui si cerchi di modulare reazioni corporee che non sottostanno al controllo volontario.

5.2.1 Gli indizi non verbali di menzogna
A dispetto della varietà dei fenomeni innescati dall’atto del mentire, identificare il loro effetto sul comportamento non verbale non è semplice. De Paulo et al. (2003) hanno effettuato un’analisi sistematica della letteratura del settore, e preso in considerazione un centinaio di possibili indizi di menzogna, 21 dei quali risultarono essere almeno debolmente significativi. In sintesi risultò che i mentitori, rispetto a chi dice il vero:
hanno un tono di voce più alto (Vrij, 2008);
usano meno gesti di illustrazione (Vrij, 2008);
fanno meno movimenti con le dita e le mani, sebbene su questo punto alcuni dati siano contrastanti (Vrij, 2008);
hanno una maggiore dilatazione pupillare (Wang et al., 2010);
appaiono più tesi;
tengono il mento più in alto;
stringono maggiormente le labbra.
Tuttavia, riconoscere l’associazione tra questi segnali e la menzogna non significa dire che essi siano indicatori affidabili. Infatti, a prescindere dalla difficoltà di stabilire, al netto delle ampie differenze individuali, quando un possibile indizio di menzogna vada considerato come presente, al termine del loro studio De Paulo et al. (2003) devono concludere che “i comportamenti indicativi di menzogna possono essere ugualmente indicativi di altri stati”. Si ripropone, in pratica, lo stesso problema delle erronee attribuzioni di menzogna, già incontrato nella valutazione delle variabili fisiologiche. Tuttavia, se l’utilizzo di singoli segnali appare problematico, evidenze sperimentali suggeriscono che l’esame di cluster di tali segnali può condurre a valutazioni accurate: Vrij et al. (2000), ad esempio, utilizzando 4 indicatori è riuscito ad identificare correttamente l’85% dei mentitori ed il 70% dei soggetti sinceri, e simili risultati sono sono stati ottenuti da Jensen et al. (2010).

5.2.2 Il lavoro di Paul Ekman
Infine, una delle attività di ricerca più note del settore, è quella di Ekman. Il suo lavoro si basa sull’idea che forti emozioni attivino la muscolatura facciale in modo quasi automatico: questo consentirebbe di osservare micro-espressioni potenzialmente rivelatrici di menzogna. Quando ad esempio un soggetto cerca di reprimere la rabbia, dovrà sopprimere le sue tipiche manifestazioni, come lo stringere le labbra, l’aggrottare le sopracciglia e così via. Ma questo è un compito difficile quando le emozioni sorgono improvvise. In particolare, secondo Ekman (2001) i soggetti riescono a reprimere le espressioni facciali in 1/25 di secondo: ma questo lasso di tempo sarebbe sufficiente ad un osservatore addestrato per cogliere le micro-espressioni. Si tratta di un approccio estremamente interessante, i cui esisti sono confermati da altri ricercatori che hanno riscontrato differenze in latenza, durata e picco di intensità tra le espressioni genuine e quelle prodotte volontariamente (Hess e Kleck, 1990; Hill e Craig, 2002).

5.3 Il linguaggio della menzogna
In generale, le tecniche di identificazione della menzogna basate sulla valutazione del comportamento verbale possono essere distinte in due categorie, dai confini a volte sfumati, in base al fatto che dei dati linguistici vengano esaminati:
i contenuti;
le caratteristiche stilistiche.
Questi due rami delle analisi linguistiche sono caratterizzati da approcci metodologici a volte molto diversi, accomunati però dall’idea – c.d. ipotesi Undeutsch – che l’elaborazione cognitiva e di conseguenza l’espressione verbale di una memoria differisca da quella di una costruzione immaginaria (Steller, 1989).

5.3.1 La Statement validity assessment - SVA
La Statement validity assessment (SVA) è forse lo strumento di valutazione della veridicità verbale più conosciuto in ambito forense. Sviluppata da diversi autori a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso con lo scopo di valutare l’attendibilità delle testimonianze di minori presunti vittime di abusi sessuali, la SVA ha assunto la sua forma attuale grazie al contributo di Köhnken e Steller (1988). Essa consta di quattro fasi:
l’analisi preliminare del caso;
un’intervista semi-strutturata finalizzata a raccogliere le dichiarazioni del soggetto;
la Criteria-based content analysis (CBCA), che è il cuore della SVA;
la valutazione della CBCA mediante la Validity checklist.
La CBCA, a sua volta, è costituita da 19 criteri, che valutatori addestrati devono spuntare come presenti o assenti nelle dichiarazioni del soggetto. Infine, l’esito della CBCA viene valutato alla luce della Validity checklist, che prende in considerazione variabili non propriamente linguistiche che possono influire sul risultato, come la motivazione del soggetto e le sue caratteristiche psicologiche. Evidenze sperimentali suggeriscono che questo strumento sia in grado di identificare dichiarazioni vere e false con un’accuratezza di circa il 70% (Vrij, 2008). Naturalmente, oltre alla SVA, esistono altri protocolli di valutazione delle testimonianze, come la Reality Monitoring (RM) (Johnson e Raye, 1981) e la Scientific Content Analysis (SCA) (Sapir, 2000), caratterizzate da un simile approccio metodologico e per cui si rimanda alla letteratura specifica.

5.3.2 La stilometria
La stilometria studia il linguaggio sulla base delle sue caratteristiche stilistiche. A differenza della quasi totalità delle tecniche finora illustrate, i cui esiti finali dipendono dalla valutazione dei dati effettuata dagli esperti (con le annose problematiche connesse all’uniformità dei giudizi), la moderna stilometria si basa essenzialmente su metodi computazionali tesi alla raccolta automatica delle caratteristiche stilistiche dei testi, ed alla loro valutazione effettuata mediante metodi di intelligenza artificiale. Le analisi stilometriche possono avere diversi scopi, come attribuire un testo al suo autore (authorship attribution), evincere caratteristiche personali di autori di testi anonimi, come l’età, il sesso e i tratti di personalità (author profiling), individuare le emozioni (emotion detection), o identificare gli eventuali plagi (plagiarism analysis).
Da una decina di anni a questa parte, moderne analisi stilometriche hanno iniziato ad essere applicate a testi, al fine di determinarne la veridicità o la falistà. Newman et al. (2003), ad esempio, hanno condotto un esperimento di laboratorio in cui è stato raccolto un corpus costituito sia da testi scritti che da trascrizioni di campioni di linguaggio orale, in cui i soggetti esprimevano opinioni sincere e false su un certo numero di argomenti, e per primi hanno mostrato che anche l’approccio stilometrico può essere utilmente impiegato per individuare la menzogna. A questo studio ne sono seguiti altri, come quelli di Strapparava e Mihalcea (2009) e Bachenko et al. (2008), che hanno raggiunto un’accuratezza oscillante tra il 70 ed il 75% nel classificare i testi come veritieri o menzogneri.

5.3.3 La stilometria in Italia
Recentemente, il professor Poesio dell’Università di Trento ha promosso un’attività di ricerca del tutto innovativa in Italia. Al fine di studiare lo stile linguistico in dichiarzioni vere e false, e grazie alla collaborazione offerta dai Tribunali di Bologna, Bolzano, Prato e Trento, è stato raccolto un corpus, chiamato DeCour – DEception in COURt – costituito da trascrizioni di udienze dibattimentali, provenienti da procedimenti penali per calunnia e falsa testimonianza (artt. 368 e 372 cp) (Fornaciari and Poesio, 2012). Tali procedimenti si concludono con la condanna dell’imputato; pertanto è stato possibile disporre, da un lato, delle trascrizioni delle udienze (spesso provenienti da un precedente procedimento penale dove il soggetto, comparso come testimone, commetteva uno dei menzionati reati) e dell’altro delle relative sentenze che, entrando nel merito degli esiti investigativi, indicano le menzogne pronunciate dai soggetti, per le quali sono poi stati condannati.
Un corpus di questo tipo, in realtà, costituisce una novità anche a livello internazionale. La grande difficoltà che la ricerca sulla menzogna deve affrontare, infatti, risiede nel fatto che gli studi di laboratorio consentono una (relativamente) agevole raccolta dei dati, ma le condizioni psicologiche dei soggetti sono molto diverse da quelle della vita reale. Negli studi sul campo, al contrario, il coinvolgimento emotivo dei soggetti è genuino, ma molto spesso è difficile o impossibile conoscere la verità retrostante alle dichiarazioni rese. Il DeCour ha permesso pertanto di studiare la menzogna in uno scenario reale e con un grado di conoscenza dei fatti retrostanti alle dichiarazioni mai ottenuto prima.
Grazie alle informazioni contenute nelle sentenze, dunque, le dichiarazioni dei soggetti sono state etichettate come “vere”, “false” o “incerte”, e metodi supervisionati di intelligenza artificiale sono stati applicati al fine di classificare le dichiarazioni dei soggetti come false o non false: come negli studi degli altri autori, si sono ottenute previsioni con un’accuratezza di circa il 70% (Fornaciari e Poesio, 2013). Inoltre, le analisi condotte hanno permesso di mettere in luce le caratteristiche stilistiche che, nello specifico contesto dibattimentale, tendenzialmente differenziano nella lingua italiana le affermazioni veritiere da quelle false.
Ad esempio, come era prevedibile, poiché i soggetti subiscono specifiche contestazioni, sono portati a mentire negando le responsabilità che gli vengono attribuite: di conseguenza, le false dichiarazioni abbondano di negazioni. Se si confrontano le frasi vere e le frasi false, inoltre, si nota che le modalità socialmente ammesse per eludere le risposte sono sensibilmente più numerose nelle dichiarazioni false: particolarmente frequenti sono dunque le specifiche negazioni di sapere e ricordare. In modo forse meno intuitivo, è risultato che nelle frasi false, rispetto alle vere, abbondano termini che si richiamano a processi cognitivi, metacognitivi e percettivi: vale a dire che i soggetti tendono ad esprimersi commentando i loro pensieri e le loro percezioni, presumibilmente al fine di ammorbidire il peso delle loro dichiarazioni. Non da ultimo, tra le false dichiarazioni si nota una prevalenza di termini che richiamano emozioni negative rispetto a quelle positive. Le dichiarazioni vere, invece, risultano più dirette, caratterizzate da precisi riferimenti di spazio e tempo. Esse sono orientate ai fatti concreti piuttosto che ai pensieri, ai ricordi ed alle percezioni sui fatti. Ed i riferimenti ad emozioni positive prevalgono decisamente su quelli ad emozioni negative.
Pertanto, sono anche queste le evidenze sperimentali che stanno alla base del suggerimento, espresso nella sottosezione 4.3, secondo cui atteggiamenti falsamente collaborativi in sede di escussione potrebbero essere evidenziati mediante idonei strumenti di analisi. Del resto, con il gentile consenso del professor Poesio, il corpus DeCour è stato posto nella piena disponibilità del Servizio polizia scientifica, rendendo quindi possibile l’eventuale compimento di analisi in un contesto operativo, in particolare in situazioni investigative in cui l’assunzione di informazioni segua dinamiche comunicative simili a quelle dei dibattimenti, come ad esempio gli interrogatori davanti al pm oppure delegati.

6. Conclusioni
L’assunzione e l’analisi delle dichiarazioni testimoniali sono, come si è cercato di illustrare, attività complesse, costituite da una catena di passaggi ognuno dei quali presenta possibili elementi di criticità. I dati mnestici sono fondamentali per le indagini di polizia giudiziaria, ma la loro raccolta costituisce un terreno pieno di insidie. La menzogna stessa è di per sé un fenomeno complesso: ed è probabilmente per questo che non esiste un indicatore univoco – come il naso di Pinocchio – che permetta di identificarla. Al contrario, occorre valutare un vasto campionario di indizi diversi, e per fare questo spesso occorrono competenze professionali di alto livello. La psicologia investigativa, in questo contesto, offre diversi strumenti il cui valore nel supporto delle indagini è riconosciuto, e che sono oggetto di formazione per il personale della Polizia di Stato. Esso infatti è chiamato ad offrire risposte efficaci in un contesto professionale che richiede standard di competenza sempre più elevati, anche nell’ambito delle discipline psicologiche.

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*responsabile area psicologia della Sezione medicina legale e psicologia applicata alla criminalistica

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La verità ti si legge in faccia
Volete sapere se il vostro figlio adolescente non la racconta giusta quando dice di andare a studiare dall’amico? O se il vostro partner è sincero quando giura di amarvi? O ancora, se le persone con le quali avete stipulato una polizza assicurativa sono in realtà dei truffatori? Chiedetelo al dottor Cal Lightman della società scientifica Lightman Group, lui o un esperto del suo team sapranno rispondervi in men che non si dica con esattezza scientifica, guardando chi gli sta di fronte dritto negli occhi. Il talentuoso psicologo e studioso del comportamento umano è il frutto della fantasia degli autori della fortunate serie televisiva Lie to me e della convincente interpretazione del camaleontico attore statunitense Tim Roth, nel ruolo del protagonista, sempre pronto a ricostruire casi complessi con la lucidità e l’intuizione di chi sa leggere e interpretare precisamente il linguaggio del corpo, smascherando impenitenti truffatori o presunti assassini. Il dottor Cal e il suo gruppo lavorano come vere e proprie macchine della verità, attraverso un accurato studio sulla comunicazione non verbale, utilizzata come metodo per svelare la menzogna e la stessa serie tv prende spunto da studi fondati sulla ricerca sull’universalità delle emozioni da parte dello scienziato statunitense Paul Ekman. Le espressioni mimiche sono colte nella rapidità con cui vengono emesse, sfuggendo e risultando impercettibili all’occhio umano non allenato, così grazie alla microespressione lo scienziato si accorse della validità di questo metodo nell’individuazione delle emozioni: la teoria è costruita sul collegamento delle espressioni fisiche del corpo umano con le microespressioni facciali. Tutte le persone della terra, questa la dottrina, rispetto all’insorgere di forti sentimenti interni (rabbia, allegria, stupore, paura, rancore, disprezzo, disgusto, scaturiti dalla vista o dal pensiero di una persona o di un particolare momento), attivano un movimento involontario e incontrollabile del volto, ricollegabile a tale emozione. Quarantatré muscoli facciali si coordinano per produrre 10mila combinazioni, i movimenti del resto del corpo, la postura, le caratteristiche della voce: un patrimonio di elementi che in Lie to me la scienza di Lightman e soci analizza e incasella. Le microespressioni, persino se falsate dal botox, che rende notoriamente inespressivi, sono più attendibili di qualsiasi test della verità, questo l’assunto di base dello sceneggiato. Grazie agli studi effettuati è possibile distinguere le diverse emozioni che fanno aumentare il battito cardiaco, la temperatura corporea e modificano la tonalità della voce, i gesti meccanici che compiamo ogni giorno senza neanche rendercene conto. Efficace l’uso nella sigla di personalità celebri nel mondo, che diventano testimonial di particolari stati d’animo, di gesti o smorfie che si associano a determinate espressioni umane, individuandone alcune universali cui corrispondono sentimenti celati, contribuendo a sviluppare il Factial action coding system. Insomma, la verità sarebbe scritta proprio sui nostri volti, quindi, anche se non c’è niente di più umano della menzogna, il consiglio è di non mentire mai, in caso contrario potreste rischiare di trovarvi in presenza di un esperto del calibro del dottor Lightman che in un batter d’occhio sarà pronto, con fare spietato, a smascherarvi.
Cristina Di Lucente

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01/01/2014