Irene Scordamaglia*

Vorrei la pelle nera

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Lo stigma penale della discriminazione razziale, religiosa o etnica

 

1. L’ordito della disciplina penalistica dei comportamenti di discriminazione razziale, religiosa ed etnica
La l. 13 ottobre 1975, n. 654 – di ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale firmata a New York il 17 marzo del 1966 – ha disciplinato la materia della tutela penale della pari dignità ed uguaglianza di tutti gli esseri umani, conformandosi alla disposizione dettata dall’art. 4 della stessa Convenzione che impegna gli Stati contraenti a condannare ogni tipo di propaganda ed ogni genere di organizzazione che s’ispirino a teorie che propugnano la superiorità di una razza o di un’etnia sulle altre o che giustifichino o incoraggino ogni forma di odio e di discriminazione fondate sulla sola appartenenza ad un gruppo razziale, religioso od etnico e ad adottare misure efficaci per eliminare ogni incitamento ad una tale discriminazione od ogni atto discriminatorio, tenendo conto, a tale scopo, dei principi formulati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
L’art. 3 della l. n. 654 del 1975 – nel testo sostituito dall’art. 1 dl 26 aprile 1993 n. 122 convertito con modificazioni nella l. 25 giugno 1993 n. 205 e successivamente modificato dall’art. 13 della l. n. 85 del 2006 – punisce, pertanto, la propaganda di idee che affermano la superiorità di una razza sull’altra o che propugnano l’odio razziale, religioso o etnico; l’istigazione a commettere e/o la commissione di atti di discriminazione per motivi razziali, etnici o religiosi; l’incitamento a commettere e/o la commissione di violenze o di atti di provocazione alla violenza per gli stessi motivi, nonché la promozione o partecipazione ad organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza a causa della diversità di razza, di etnia o di religione.
Peraltro, poiché l’art. 1 del dl 122/1993 conv. in l. n. 205 del 1993, nella parte in cui ha sostituito l’art. 3 della l. n. 654 del 1975, stabilisce che le relative disposizioni si applicano soltanto se il fatto non costituisce più grave reato, le stesse assumono carattere sussidiario rispetto alle previsioni dettate dalla l. n. 45 del 1952, in tema di riorganizzazione del disciolto partito fascista, che presentano, almeno per quanto concerne il divieto di svolgimento di attività razzista, un’oggettività giuridica sostanzialmente coincidente con quella della l. n. 654 del 1975, recante norme in materia di discriminazione razziale. Ciò significa che, se attraverso la propaganda razzista lo scopo del soggetto agente non è la ricostituzione del disciolto partito fascista, la stessa può acquistare rilevanza sul piano penale come forma di incitamento all’odio ed alla discriminazione razziale, religiosa o etnica punibile ai sensi della l. 654/1975: tanto perché – lo si è precisato da parte della giurisprudenza di legittimità, che ha riconosciuto la sovrapponibilità della “ratio” delle due leggi, volte ad impedire che le ideologie propugnanti il primato delle razze superiori conducano a discriminazioni aberranti che fomentino l’odio, la violenza e la persecuzione razziali – l’applicazione del principio di sussidiarietà comporta l’esclusione dell’operatività della norma che commina sanzioni meno gravi (quella di cui all’art. 1 della l. n. 45 del 1952) ed il venire in rilievo della sola norma che prevede un più severo trattamento sanzionatorio (quella di cui all’art. 3 della l. n. 654 del 1975), ricomprendendo quest’ultima nel proprio ambito di tutela anche l’interesse protetto dall’altra, così da evitare una duplicazione d’incolpazioni per un’unica condotta che esaurisce in sé il disvalore dell’intero fatto.
Il dl 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni nella l. 25 giugno 1993, n. 205 ha poi ampliato l’area di tutela penale del bene giuridico superindividuale indicato, comminando altresì – con la norma di cui all’art. 2 – la sanzione criminale al compimento di manifestazioni esteriori ed all’ostentazione di emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 3 della l. 13 ottobre 1975, n. 654 nel corso di pubbliche riunioni ed all’accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche recando seco tali emblemi o simboli, nonché – con la disposizione di cui all’art. 3 – prevedendo una specifica aggravante per i reati comuni che siano commessi per le medesime finalità discriminatorie o per l’agevolazione degli organismi vietati dalla norma incriminatrice di cui all’art. 3 l. 654/1975. Circostanza aggravante, questa, che, per volontà dello stesso legislatore, si sottrae al bilanciamento con le circostanze attenuanti diverse da quella prevista dall’art. 98 cp, non potendo le stesse, pertanto, essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto alla detta aggravante; con la conseguenza che le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente all’applicazione della aggravante delle finalità di discriminazione.
Infine, nel dettare le disposizioni di cui all’art. 1, comma 2, lett. e) l. 241 del 2006, il legislatore ha inteso stigmatizzare il fenomeno criminale originato da motivi di odio razziale, religioso o etnico escludendo dall’indulto le pene irrogate per reati che di tale fenomeno siano manifestazioni; in particolare quelle inflitte per i reati per i quali “ricorre” la circostanza aggravante di cui all’art. 3 dl 26 aprile 1993, n. 122, ritenendo che i suddetti non meritino alcuna indulgenza e, quindi, il condono della pena.
Il Giudice di legittimità ha tuttavia evidenziato come tale formula legislativa sia rappresentativa anche dei comportamenti che il legislatore ha ritenuto di per sé meritevoli di pena quali autonome ipotesi di reato, sottolineando che l’area di esclusione dall’indulto trova il suo fondamento nella sostanza dell’aggressione al bene protetto dalla previsione normativa con comportamenti che la legge prevede tanto come costituenti reato, quanto come aggravante dei reati comuni nel caso in cui siano connotati da quelle specifiche finalità, non estendendosi, in tal caso analogicamente in malam partem l’area di esclusione dal beneficio a situazioni di fatto non previste dalla norma, ma valorizzandosi, piuttosto, il contenuto sostanziale dell’espressione utilizzata dal legislatore.

2. Il bene superindividuale oggetto di protezione: la pari dignità ed uguaglianza di tutti gli esseri umani
Con le norme richiamate il legislatore nazionale ha inteso, dunque, erigere un imponente baluardo a difesa di un bene superindividuale indicato come fondamentale dalle Carte soprannazionali – ad esempio dall’art. 14 Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo), che sancisce, tra l’altro, il divieto di discriminazioni nel godimento dei diritti e

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01/01/2014