Tommaso Fornaciari

Nella mente criminale

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La psicologia investigativa: l’esperienza del Servizio polizia scientifica

Da Csi a Criminal Minds, da Cold case a Ncis, le serie tv che hanno come tema le indagini sulla scena del crimine dilagano, così come le trasmissioni televisive che chiamano in causa schiere di esperti, in prima linea nel fornire pareri sui casi di più scottante attualità. Basti pensare ad alcune puntate di Porta a porta, Quarto grado, Matrix, Amore criminale o Chi l’ha visto. Tuttavia, se il sensazionalismo con cui i media cercano di polarizzare l’attenzione può essere talvolta fuorviante, è bene ricordare che la ricerca in questo ambito affonda le sue radici indietro nel tempo, alla fine del Settecento. È allora che il metodo d’indagine ha cominciato a muovere i primi passi verso l’istituzione di una disciplina che si occupa del supporto alle indagini di polizia.

1. Introduzione
La psicologia investigativa è una branca della psicologia relativamente giovane, caratterizzata da forti connotati applicativi e, sebbene i suoi ambiti di intervento non siano rigidamente circoscritti, i suoi scopi coincidono con quelli perseguiti mediante le attività investigative, ossia:
l’identificazione dell’autore del reato – tipicamente violento – per cui s’indaga;
la raccolta e la valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rese dai testimoni e dalle vittime del reato stesso.
Sebbene da un punto di vista operativo i due punti siano quasi sempre strettamente correlati, il presente studio si concentra sul primo, mentre del secondo si occuperà in maniera specifica il prossimo inserto che tratterà la psicologia della memoria, la raccolta e l’analisi delle testimonianze .
L’obiettivo menzionato al punto 1, dunque, richiede che lo psicologo contribuisca ad orientare le attività degli investigatori e dell’Autorità Giudiziaria principalmente mediante la realizzazione di due tipologie di relazione tecnica: profilo criminale dell’autore ignoto del reato, finalizzato alla sua stessa identificazione; profilo vittimologico di chi ha subito il reato. Questo genere di analisi può in realtà avere vari scopi. Essa infatti non solo può integrarsi nel contesto delle attività necessarie alla realizzazione del profilo d’autore, ma può anche avere, nel caso di decessi sospetti, la finalità indipendente di contribuire a stabilire se la morte del soggetto sia da attribuire ad una dinamica omicidiaria o suicidaria.
La realizzazione dei profili può avere un taglio più marcatamente psicologico, nel caso l’obiettivo sia quello di inferire le caratteristiche di personalità e gli schemi cognitivi del reo, o comportamentale, laddove il fine consista nell’evincere caratteristiche del soggetto di tipo sociodemografico, o nell’orientare la ricerca delle tracce riconducibili al soggetto stesso.
La fattispecie del profilo d’autore pone comunque in immediata evidenza il paradosso che caratterizza quest’area della psicologia investigativa, rendendola atipica, se non virtualmente unica, nel panorama delle scienze che studiano la psiche ed il comportamento umano: la psicologia investigativa è, in larga misura, una psicologia senza soggetto. Vale a dire che si tratta di una psicologia che, contrariamente alle discipline consorelle, opera in assenza anziché in presenza del soggetto a cui si dedica. Di più, il soggetto in realtà non è soltanto assente, è persino sconosciuto. In un tale panorama, viene per definizione esclusa la possibilità non solo di impiegare gli strumenti della psicologia che presuppongono la presenza e l’interazione diretta con il soggetto, ma spesso anche di avvalersi delle svariate fonti indirette di informazioni che abitualmente integrano il lavoro dello psicologo. Per tali ragioni, non sembra eccessivo affermare che quelle della psicologia investigativa siano condizioni di lavoro francamente estreme.
Nei reati in cui la vittima ha perso la vita, la situazione non è molto diversa neppure nella redazione del profilo vittimologico,che in questo caso specifico in letteratura viene spesso indicato col termine di “autopsia psicologica”. Anche in tale circostanza, infatti, la raccolta diretta di informazioni da parte della vittima non è più possibile, pertanto lo psicologo deve avvalersi di fonti indirette e a posteriori rispetto alla sua morte.
Tali premesse inducono a porre alcune domande:
Come ha potuto svilupparsi una psicologia che manca in origine dell’oggetto del suo studio?
Una tale disciplina è veramente in grado di dare un contributo concreto alle indagini di polizia giudiziaria?
Di quali strumenti può avvalersi per compensare l’intrinseca carenza di dati in cui si trova ad operare?

2. Cenni storici
2.1 Le origini
Quando si cercano le origini di quel ramo della psicologia che si occupa del comportamento criminale, sembra ovvio rivolgersi almeno alla frenologia del medico tedesco Franz Joseph Gall (1758-1828), all’antropologia criminale di Cesare Lombroso (1835-1909) ed all’antropometria segnaletica di Alphonse Bertillon (1853-1914).
A Gall in particolare viene riconosciuta l’originalità dell’idea di derivare qualità psicologiche del soggetto dall’osservazione della conformazione della superficie del cranio. Egli infatti, che può essere considerato un pioniere della neurofisiologia, formulò l’ipotesi – del tutto innovativa per l’epoca – che le facoltà cognitive avessero sede in specifiche aree del cervello, e che pertanto le protuberanze del cranio ne avrebbero potuto rivelare il relativo sviluppo. Sebbene il tentativo di Gall possa apparire ingenuo se valutato con occhio contemporaneo, nel contesto storico in cui si svilupparono le sue intuizioni possono essere considerate geniali, e contribuirono a preparare il terreno per le moderne neuroscienze e naturalmente per la criminologia, dal momento che il suo impegno si rivolse specificamente allo studio di soggetti che avevano manifestato comportamenti devianti (Selling, 1946).
Analoghe considerazioni possono valere per l’avventura intellettuale di Cesare Lombroso. Questi, imbevuto della cultura positivistica del suo tempo, con approccio neanche velatamente deterministico cercò di sviluppare le teorie di Gall in ambito criminale, dedicandosi per questo alla disciplina cui diede il nome di “antropologia criminale”, che si espresse nel tentativo di individuare caratteristiche fisiche che risultassero correlate con la manifestazione di comportamenti criminali. Sebbene la visione di Lombroso appaia oggi (fortunatamente) superata, a lui e al rivale d’oltralpe Bertillon si deve la sistematica introduzione dell’antropometria nelle investigazioni criminali.
A tale proposito, Alphonse Bertillon merita una breve menzione, in quanto rimasto famoso nel bene e nel male: egli infatti ebbe il merito di introdurre in Francia per la prima volta il ritratto fotografico per l’identificazione personale, ma fu anche protagonista di una clamorosa topica nel celeberrimo “affaire Dreyfus”, che indusse Émile Zola a scrivere il suo J’accuse...!. Nel procedimento a carico del Capitano Dreyfus, infatti, Bertillon – che in effetti non era esperto nelle analisi grafiche delle scritture autografe – attribuì all’imputato la vergatura di alcuni documenti compromettenti, commettendo in questo gravi errori metodologici che furono poi puntualmente stigmatizzati dal matematico Henry Poincaré (Kaye, 2007).
Certamente a queste figure significative si deve, in varia misura, l’introduzione dell’idea che i criminali possano essere descritti, e persino inseriti in possibili categorie che li racchiudano. Non a caso, la loro eredità è stata raccolta da un insieme di scuole di pensiero, complessivamente definite “costituzionaliste” che tentarono di individuare determinati tipi umani sulla base delle loro caratteristiche morfologiche, si vedano ad esempio i lavori di De Giovanni (1891) e Kretschmer (1925). Tale linea di ricerca si è sviluppata, con la teorizzazione di Sheldon and Stevens (1942), fino alle soglie degli anni Sessanta, per poi dissolversi spontaneamente in seguito alla scoperta del Dna, che ha completamente rivoluzionato il nostro panorama culturale e spostato altrove il baricentro del dibattito. Ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta.
Ciò che importa è il fatto che questo lungo percorso filosofico e scientifico si sia sempre basato sullo studio diretto dei soggetti che ne costituivano oggetto di studio. L’assunto teorico centrale della psicologia investigativa – esplicitato in modo più o meno ardito – invece, pur presupponendo la possibilità di classificare i soggetti secondo categorie di appartenenza, consiste nel ritenere che le tracce comportamentali di un soggetto ignoto possano essere in grado di fornire al suo riguardo informazioni sufficientemente attendibili ed accurate da poter concorrere ad identificarlo. In questa prospettiva, le origini epistemologiche della psicologia investigativa andrebbero cercate altrove.
Potrebbero essere trovate, ad esempio, nel territorio della filosofia illuminista, e più precisamente nello Zadig di Voltaire, pubblicato per la prima volta nel 1747 (e nel 1748 in una versione aggiornata). In un famoso episodio delle sue numerose peripezie, infatti, il protagonista dell’opera si rende autore di alcune brillanti inferenze che gli permettono, mediante l’interpretazione di diversi segni osservati sul terreno, sulle piante e sulle rocce dell’ambiente boschivo in cui si trovava,di descrivere con precisione la cagna della regina ed il cavallo del re di Babilonia, pur senza averli osservati direttamente (Voltaire, 1748). Sebbene, nella trama di Voltaire, l’abilità di Zadig gli causerà un susseguirsi di sventure, il principio è stato affermato con un’efficacissima rappresentazione narrativa: l’osservazione delle tracce comportamentali veicolano importanti informazioni sul soggetto – o sugli animali – che hanno prodotto quelle stesse tracce.
La suggestione, o il suggerimento contenuto nel testo di Voltaire, tuttavia, viene raccolto nel mondo della letteratura prima che in quello della speculazione scientifica. Nel 1841 esce dalla penna di Edgar Allan Poe il personaggio di Auguste Dupin, vero e proprio archetipo di investigatore che, partendo da elementi di fatto apparentemente caotici, li interpreta mediante serrate concatenazioni inferenziali (Poe, 1841). Nel 1887, poi, irrompe sulla scena un personaggio destinato ad influenzare profondamente sia la cultura popolare del XX secolo, sia lo sviluppo delle scienze del comportamento applicate in ambito investigativo: si tratta di Sherlock Holmes, creato da Sir Arthur Conan Doyle, medico e scrittore scozzese che raccoglie il testimone di Edgar Allan Poe fino a sviluppare, sia pure in un contesto fictional, una vera e propria epistemologia investigativa, basata sull’osservazione dei fatti e sulla formulazione di ipotesi, ed esplicitamente ispirata al modello della formulazione della diagnosi in campo medico (Doyle, 1887).
Una volta diffusa la concezione secondo cui l’analisi delle tracce del comportamento possa essere preziosa per le indagini di polizia, la sperimentazione di tale principio nella prassi operativa e l’intervento delle discipline piscologiche nell’interpretazione del comportamento umano furono passi naturali e forse inevitabili.

2.2 la psicoanalisi
nell’investigazione criminale
A cavallo tra XIX e XX secolo, proprio mentre Conan Doyle pubblicava le gesta del suo Sherlock Holmes, un altro grande pensatore, anch’egli un medico, formulava una teoria ed insieme un metodo di indagine aventi per oggetto non solo il comportamento dell’uomo, ma la sua stessa attività mentale. Sigmund Freud stava infatti sviluppando la sua psicoanalisi, disciplina che avrebbe dato origine ad una profonda rivoluzione culturale ed impulso ad un acceso dibattito sull’uomo, tuttora in corso.
Nel 1906 Freud tenne dunque un seminario dal titolo “La psicoanalisi e l’accertamento della verità nei processi legali” (Gulotta, 2008). In tale circostanza, trattando il tema dell’esame di soggetti sospettati di aver commesso un reato, egli sottolineò con cauta lungimiranza il salto logico esistente tra indagine di polizia ed indagine psicoanalitica. In primo luogo, nella relazione terapeutica il paziente collabora con l’anali

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01/08/2013