Cristina Di Lucente
Salvate da una rete
Crescono le denunce per “atti persecutori”, segno di maggiore consapevolezza e fiducia in un aiuto delle forze dell’ordine
Sono 5.914 le denunce alle forze dell’ordine nel 2009, 7.663 nel 2010, 9.027 nel 2011, 10.338 nel 2012: le cifre fornite dal Servizio analisi criminale (Sac) della Direzione centrale della polizia criminale, relative ai cosiddetti “atti persecutori” in Italia sembrano parlare di un trend in crescita del fenomeno. In realtà, considerandone il risvolto “sommerso” spesso risultato del fatto che molti maltrattamenti avvengono all’interno delle mura domestiche, sarebbe più corretto interpretare i dati come una crescita di consapevolezza e fiducia nell’efficacia prodotta dalla denuncia. Dal nord al sud della Penisola vengono organizzati corsi di formazione per operatori di polizia che preparano a trattare i casi di stalking e maltrattamenti, puntando sull’accrescimento delle competenze e la sensibilizzazione degli operatori. Nelle quattro questure delle città più popolose (Milano, Roma, Napoli e Palermo) è stata istituita all’interno della Squadra mobile la IV sezione, specializzata oltre che nei reati in danno di minori anche in quelli sessuali, comprese le molestie. A partire dal 2007 le 103 questure d’Italia hanno adottato come strumento di valutazione del rischio il metodo Sara (valutazione del rischio di violenza interpersonale tra partne, vedi box pag. 13). Multidisciplinarità è la parola chiave per affrontare questo reato; è stata infatti riscontrata la necessità di costruire reti di collaborazione nelle quali ogni nodo rappresenta un singolo aspetto del problema, un network che coinvolge più strutture sul territorio. Per acquistare efficacia, anche gli aggiornamenti professionali prevedono la presenza di magistrati, medici legali, personale di pronto soccorso, avvocati, psicologi: tutte le figure professionali che concorrono ad affrontare l’iter previsto, dalla denuncia al recupero della vittima. Sono costanti i contatti diretti tra commissariati e centri antiviolenza che quando possibile, in presenza di figli minori, forniscono alla vittima un alloggio per consentirle l’allontanamento dal tetto coniugale.
Poliziamoderna ha individuato tre questure corrispondenti a differenti aree geografiche ed estensioni territoriali, per cercare di tracciare, attraverso il racconto degli investigatori, un quadro generale della situazione in tema di prevenzione. Che parte innanzitutto dall’educazione attraverso la diffusione di una cultura diversa.
Verona: un esempio virtuoso
È Roberto Della Rocca, dirigente della Squadra mobile di Verona e docente nei corsi antistalking per gli operatori della sua questura nell’ambito degli aggiornamenti professionali, a spiegare che i due aspetti su cui puntare sono l’informazione e la sensibilizzazione: «Gli specialisti della Mobile viaggiano ormai su un binario rodato, ma i corsi devono rivolgersi anche a chi può avere il primo contatto con chi ha subito violenza, come il centralinista, che dev’essere in grado di tranquillizzare la persona e allo stesso tempo raccogliere il maggior numero di informazioni utili, cercando di conquistarne la fiducia». Agli operatori delle Volanti, chiamati per interventi di liti in famiglia, è consigliato prendere informazioni prima di arrivare sul posto, accertando l’eventuale presenza di armi in casa o situazioni pregresse di violenza; questo consente di dare valutazioni più accurate: ad esempio un vaso rotto a terra in un contesto del genere può avere una valenza molto diversa. È necessaria l’educazione a punti d’osservazione differenti. Uno degli errori da evitare è la fretta nel chiudere gli interventi, l’acquisizione non analitica degli episodi. L’abc per le pattuglie è sapere che le parti vanno ascoltate separatamente e che quando sono presenti minori al di sopra dei 14 anni è possibile richiederne la testimonianza. «Sono convinto che il problema non si trovi in una fase emergenziale – prosegue Della Rocca – ma che sia strutturale alla società. Le chiamate al centralino aumentano nella nostra provincia perché i cittadini sono abituati a segnalarci i fatti. Questo è da interpretare come il segnale di un buon rapporto che abbiamo instaurato con la cittadinanza». Ne è la riprova il fatto che nel Veneto comincia ad essere significativa anche la percentuale di denuncianti straniere (il 24,6% del totale nel 2012). La presenza sul territorio di etnie diverse dalla nostra ha un’incidenza sulle casistiche, sia per questioni culturali, sia perché bisogna sempre tenere conto del fatto che i processi di integrazione delle immigrate non sono realmente compiuti e chi paga di più in queste dinamiche è sicuramente la donna. Soprattutto per quelle che hanno il permesso di soggiorno collegato al marito e una situazione monoreddito esiste un vincolo economico, una situazione che in Italia si verificava circa 40 anni fa; c’è la necessità sempre maggiore di far assistere alle verbalizzazioni i mediatori culturali, fondamentali per dare modo di capire compiutamente in che modo si sta procedendo e con quali conseguenze. Quasi sempre il problema nasce dall’isolamento linguistico. La segregazione è un tratto tipico della violenza: in questi casi può subentrare il divieto di comunicare con i familiari e le persone amiche, una separazione totale dal resto del mondo. Così si arriva al paradosso delle donne giunte in Italia da diversi anni che ancora stentano a relazionarsi. È una peculiarità tipica degli immigrati quella di avere rapporti con il femminile molto negativi, aspetto che si ripercuote anche sul problema delle ragazze di seconda generazione. «Nella mia esperienza ho trattato diversi casi di ragazze, figlie di immigrati, che si sono rivolte a noi. Basta uno smalto, un trucco per far nascere il problema. O voler uscire alle sei di pomeriggio, incontrarsi con altri ragazzi o andare in discoteca. Alcune ragazze sono state messe in comunità e i genitori non immaginavano che potesse minimamente esserci un’ipotesi del genere, la configurazione di un reato: per loro è scontato dire “sono io che decido per lei”». I problemi ci sono anche dal punto di vista materno. Le ragazze andando a scuola, frequentando coetanei, intraprendendo un certo tipo di rapporti, cominciano ad occidentalizzarsi in senso positivo; vogliono condurre una vita diversa da quella dei loro genitori e si scontrano con problematiche davvero pesanti. Altro fattore positivo in questi casi è la presenza di un’agente donna, elemento che può favorire la confidenza di vicende personali problematiche. Importante è anche saper spiegare con chiarezza l’iter al quale la donna andrà incontro nel caso di una denuncia, cosa comporta non sporgerla, garantire la riservatezza in base ai limiti della legge, acquisire i referti medici, fornire l’indicazione dei centri antiviolenza. L’informazione alla vittima riguarda la situazione di rischio a breve, medio e lungo termine: le forze dell’ordine non si occupano solo della denuncia e del percorso giudiziario, ma anche della protezione. A questo concorre il lavoro in team, attraverso una forte collaborazione con le strutture sociali che lavorano come una sorta di multiagency, viene infatti agevolato un percorso di inserimento che va oltre la violenza. Altrettanto rilevante è prendere a verbale le informazioni senza esprimere giudizi: una delle critiche che talvolta venivano rivolte agli operatori era il tentativo di riconciliazione. «Quando una donna si presenta da noi e poi non denuncia non dobbiamo reputarlo un problema che non ci riguarda – conclude il funzionario – ma in quel momento non è pronta, ha paura o non sa dove andare. Possono inoltre influire sulla decisione la presenza di figli, l’aspetto economico, la vergogna. Pur non essendo psicologi dobbiamo avere una minima formazione in quella direzione. Il nostro intento è cercare di pianificare e valutare il rischio con la vittima, mettere su carta una strategia, darle la possibilità di contattare direttamente l’operatore, assicurarle l’incolumità. Per fare questo è indispensabile non sottovalutare mai le situazioni». La questura di Verona sta puntando molto sulla prevenzione attraverso incontri nelle scuole finalizzati a diffondere la cultura del rispetto per l’altro, e in autunno sono in programmazione corsi “multiagenzia” rivolti a tutti gli operatori.
Roma: uno speciale centro di ascolto
«Per quel che riguarda lo stalking, uno dei casi più comuni è quello della donna che decide di lasciare il partner, ottenendo come conseguenza minacce e rimproveri. È allora che il senso di abbandono si trasforma in vendetta». Così Eugenio Ferraro, dirigente del Reparto volanti di Roma, con alle spalle una lunga esperienza nella Squadra mobile della Capitale, racconta come spesso le violenze avvengano nel nucleo familiare, tra conviventi, e non manca una percentuale inferiore ma non del tutto trascurabile (20% circa, lo dicono i dati del Sac) in cui le parti si invertono e le donne diventano responsabili delle molestie. Già nel 2003, la Squadra mobile di Roma prese atto che molti esposti raccontavano vicende di violenza, quando il fenomeno non aveva raggiunto la ribalta mediatica. Presso la questura di Roma vengono effettuati spesso seminari aperti agli operatori di polizia, organizzati con la partecipazione dell’autorità giudiziaria; la presenza dei magistrati consente di spiegare, da un punto di vista tecnico, la gestione del caso di stalking, dando istruzioni su come effettuare l’informativa della notizia di reato. Molto importanti sono anche altre figure professionali, perché spesso i comportamenti che una donna denuncia, quando non validamente supportati da un aiuto psicologico, rischiano di non essere rappresentati nel modo migliore e che la vittima possa tornare sulla decisione, sentendosi sottovalutata nelle sue dichiarazioni. «In commissariato la persona che ha subito violenza deve essere accolta ponendo le giuste domande, cercando di non invaderne troppo la privacy, accostandosi in maniera non morbosa alla realtà che ci sta rappresentando – spiega Ferraro, che si è occupato spesso della formazione degli operatori di polizia – Bisogna comprendere che chi denuncia si trova in uno stato di prostrazione psicologica perché sta procedendo nei confronti di qualcuno con cui ha condiviso un trascorso sentimentale. È necessario lasciarle tutto il tempo di cui ha bisogno per parlare senza sottovalutare i segnali che ci rappresenta». Dal punto di vista tecnico è necessaria una buona preparazione di polizia giudiziaria per cogliere i dati caratteristici del reato (violenza, percosse, minacce), per questo i corsi sono rivolti anche a questo particolare settore che lavora sull’attività criminale. Ogni singolo caso dev’essere modulato, le soluzioni vanno dal semplice esposto all’intimazione del questore con la conseguente diffida, fino alla richiesta di misura cautelare in carcere nei casi più gravi. «La formazione prevede sei ore di corso – prosegue Ferraro – si parte dai casi che hanno fatto scuola e dalle difficoltà che può incontrare l’interlocutore. Ciò che cerchiamo di comunicare a chi prende le denunce è di pensare in prospettiva dinamica: un primo racconto può essere la fase iniziale di un iter che potrebbe dare il via a fatti estremamente drammatici». Un progetto molto interessante è stato istituito tra la questura di Roma, l’associazione Differenza Donna e la Vodafone. Consente di assegnare alle donne segnalate dall’associazione un telefono cellulare collegato con un centro di assistenza e al momento di un’eventuale emergenza l’allarme arriva al 113 tramite un semplice pulsante di allerta che trasmette il segnale per l’intervento immediato. Si tratta di un “felice” esperimento partito con 40 donne che si sta ora ampliando, con l’eventualità di essere esteso a tutto il territorio nazionale. Le capacità di alcuni operatori hanno consentito di risolvere molti casi, portando talvolta alla luce situazioni sotterranee, che non venivano raccontate nel modo giusto. «Ricordo un intervento – conclude il funzionario della questura di Roma – un caso caratterizzato da liti continue. Mentre gli adulti tendevano a minimizzare il conflitto, la cosa che ci colpì fu la presenza dei figli che testimoniavano con lo sguardo la realtà della situazione. Fu la sensibilità di un’operatrice a far svelare, attraverso il timore percepito dai bambini, una storia molto seria di violenza». Spesso le soluzioni si trovano sviluppando la capacità di leggere le situazioni al di là di come la realtà viene rappresentata.
Palermo: se la cultura viene dal sociale
Quando lo scorso aprile la diciassettenne Carmela Petrucci è stata uccisa a coltellate nel portone di casa per difendere la sorella dal suo carnefice, un ex fidanzato, i ragazzi palermitani sono rimasti profondamente scossi. Rosaria Maida, dirigente della IV sezione della Mobile di Palermo, racconta che molte scolaresche hanno richiesto un incontro con i poliziotti per sapere come comportarsi nelle situazioni di persecuzione. «È uno di quei fenomeni ai quali è giusto che le cronache prestino attenzione – riferisce Maida – perché su questi fatti bisogna riflettere per costruire una cultura della parità che purtroppo qui è ancora carente». Il funzionario, dieci anni di esperienza in questo specifico settore, partecipa come docente alla formazione presso i tre maggiori ospedali palermitani dove le classi sono composte da personale sanitario, parasanitario, dei servizi sociali e delle forze dell’ordine. Già dal 2006 a Palermo esiste una rete istituzionalizzata di cui fa parte la questura, la cui capofila è la onlus Le onde, collegata ad un centro antiviolenza e alla casa-rifugio per le vittime. L’esigenza era di creare dei protocolli negli ospedali per la gestione delle violenze: oggi è il nosocomio Cervello, che presenta un servizio sociale ospedaliero, ad occuparsi dei maltrattamenti; si tratta di una delle buone prassi tra istituzioni per migliorare i contatti reciproci e aiutare le persone nel modo migliore. Anche la procura, parte di questo network, delega i casi più gravi alla IV sezione. «I primi li abbiamo trattati quando lo stalking non era ancora configurato come reato. Già allora consigliavamo alla vittima di segnalare ogni dettaglio, di raccogliere anche le fotografie come prova, perché così maggiore era l’attività di pressing sul magistrato che avrebbe preso provvedimenti. Un gip in un’occasione, in mancanza di legislazione fece riferimento alla Convenzione sui diritti dell’uomo». Il personale che lavora in questa sezione viene selezionato in maniera molto attenta; per trattare le violenze sono necessarie doti integrate dove la capacità professionale e una buona dose di umanità sono complementari. «Occorre dimostrare un buon equilibrio e una smisurata “pazienza”– continua Rosaria Maida – perché la donna che si presenta da noi non vuole essere giudicata e nelle sue esternazioni è come un fiume in piena, racconta velocemente, in uno stato di tensione, tutta la sua vita. Il colloquio si svolge “a porte chiuse”, con i telefoni staccati e senza interferenze esterne. Chi ascolta deve saper contenere quel flusso e riuscire, senza domande induttive, a far focalizzare i fatti. L’esperienza in questo settore conta moltissimo perché dopo aver assistito centinaia di persone la sensibilità si affina. Nei casi di stalking e maltrattamenti è il noto che prevale, per questo una denuncia richiede molto tempo: procedere nei confronti di un familiare è devastante, richiede un grande supporto, c’è il rischio che anche la famiglia d’origine abbandoni chi ha il coraggio di denunciare». Sorprendentemente il problema è trasversale, riscontrabile tanto tra le famiglie disagiate quanto tra quelle dei quartieri “bene”: «Ricordo tra le testimonianze raccolte – conclude il funzionario palermitano – una professoressa, moglie di un avvocato penalista: mi raccontava nei dettagli le umiliazioni che subiva dal marito, la matrice psicologica da cui partivano le violenze: “disprezzava tutto quello che facevo, mi ingiuriava davanti ai figli”, e altre esperienze di donne agiate che venivano buttate giù dal letto nella notte, lasciate sul pianerottolo di casa, seguite. Ad altre è stato tagliuzzato l’intero guardaroba. Il nostro obiettivo non è semplicemente ottenere una denuncia ma una situazione migliore per la persona». Tutto questo non è realizzabile senza la collaborazione delle altre istituzioni con le quali il lavoro va costantemente coordinato. Quando subentra l’intervento della volante è fondamentale la valutazione del rischio: se grave bisogna attuare tutte le strategie per evitare l’evento peggiore e l’azione dev’essere particolarmente rapida. È comunque importante allargare la formazione anche agli operatori degli altri settori per far comprendere la particolarità di questi reati il cui trattamento richiede una forma mentis diversa.
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Progetto do.min.a.
“Un po’ se l’è cercata” o “I panni sporchi si lavano in famiglia”: a volte è l’atteggiamento che si può avere di fronte a chi subisce una violenza. La rete Do.min.a (acronimo per donne, minori, abuso) nasce come una sfida verso questa mentalità: è il progetto a cui l’Ufficio sanitario della questura di Roma sta dando avvio, supportata dalla Direzione centrale di sanità. Una task force il cui nucleo è costituito da due psicologhe, un medico legale e altri tre poliziotti e diretto da Rosa Corretti. Il lavoro della rete, presentato lo scorso giugno alla presenza del questore di Roma Fulvio Della Rocca, agisce con diversi obiettivi: creare contatti diretti con le associazioni, centri antiviolenza ed ospedali, cercando di stabilire i contatti con le vittime anche quando non sono intenzionate a denunciare le violenze, caso che prevede un’apposita procedura. Quando c’è il sospetto di una violenza, gli operatori, ascoltando separatamente le parti, compileranno una scheda avendo cura di segnalare un possibile maltrattamento e informeranno la presunta vittima che verrà contattata personalmente da uno psicologo della questura, lasciando decidere a lei modalità e fasce orarie. Un’occasione, dunque, per aprirsi al percorso che porterà ad una denuncia: lo scopo della rete è infatti coprire una fase di latenza, offrendo sostegno in un momento delicato che rimarrebbe altrimenti trascurato qualora non si decidesse di procedere. Fondamentale è la collaborazione degli operatori che avranno un ruolo di raccordo tra le figure specifiche e le persone alle quali andrà il supporto: agendo in prima linea opportunamente formati, dovranno essere pronti a rilevare tutti i segnali che potrebbero far pensare ad una situazione di pericolo. Un altro tassello importante è l’attivazione di protocolli con ospedali e pronto soccorso, per verificare il numero di accessi delle persone e per riuscire a fotografare le violenze fase per fase, cosa che consentirà di fornire all’autorità giudiziaria non solo un racconto di ipotesi ma dati fatti di referti medici e psicologici da utilizzare al fine di un eventuale processo.