Cristiano Morabito
La scienza delle prestazioni
Nato negli Usa, il mental coaching sta prendendo piede anche in Italia. Oggi sempre più manager e sportivi si affidano agli allenatori della mente
Cosa succede se, non essendo dei piloti professionisti, alla guida di una fiammante automobile sportiva proviamo a fare qualche giro su un circuito da gran premio di Formula 1? Sicuramente, pur essendo dei bravi guidatori, non riusciremmo ad ottenere le stesse prestazioni di un professionista del volante fermandoci alla classica “buona prova” e nulla più. Per andare oltre quel limite ci servirebbe un qualcosa, come un bel corso di guida veloce o una superlicenza per correre in pista, che ci potrebbe permettere di competere con un Alonso o un Vettel. Dunque un passo in più che dall’ordinario ci portasse nel campo dell’eccellenza assoluta.
Un semplice esempio che, comunque, può essere rapportato alla vita di tutti i giorni e in ogni ambito di essa.
Spesso, di fronte ad ostacoli che sembrano insormontabili, ci si ferma prima di affrontarli, con la convinzione di non riuscire a superarli, rinunciando ancor prima di provare a trovare la soluzione, nella sicurezza di non avere le capacità. Salvo poi accorgersi che qualcun altro è riuscito a farlo.
È una condizione tipica di chi si accontenta di ottenere delle prestazioni normali, ma se per mestiere o volontà si vuol oltrepassare questo limite, allora c’è bisogno di uno step in più. Spesso non ne siamo consapevoli ma, prendendo in prestito la battuta di un comico degli Anni ’90: “La risposta è dentro di noi, ma non lo sappiamo”. Quella di Corrado Guzzanti che interpretava il personaggio di Quelo potrebbe sembrare, appunto, solamente una boutade, ma analizzando la frase fino in fondo ci si accorge di quanto quella affermazione sia vera. Ed è proprio sulla ricerca interiore di una risposta, o meglio di una motivazione in più che si basa una disciplina relativamente moderna: la scienza della prestazione, il mental coaching cui ultimamente manager, aziende e soprattutto sportivi si sono affidati proprio per puntare a quella eccellenza che, ognuno nel proprio ambito, vuole raggiungere. Bisogna comunque dire che un 20-30% di queste prestazioni, secondo studi forniti dall’Università di Harvard, possono essere raggiunte contando sulle proprie forze. Ma se si vuole andare oltre è necessario affidarsi ad un professionista: il mental coach.
Il coaching nasce negli Usa (in Italia è di sviluppo abbastanza recente) e parte da un’equazione fondamentale elaborata negli Anni ‘70 dal californiano Timothy Gallwey, secondo il quale il rendimento è dato dal potenziale delle persone meno i loro limiti. Quindi, andando a lavorare su questi limiti, che sono a monte, si riesce ad aumentare il valore delle prestazioni. I limiti sono interferenze di vario livello: il non essere focalizzati su un obiettivo, non saper gestire il tempo, la comunicazione, pensieri che spesso sono nella parte sbagliata… A tutto questo si è affiancato parallelamente l’utilizzo di una scienza molto importante e potente che è la pnl, programmazione neurolinguistica. La pnl è una disciplina che estrae il meglio da tutte le scienze, terapie e scuole di psicologia (cognitivista e freudiana) e che ha al centro della propria attività l’interesse per il bene della persona. Il coaching, dunque, mira al benessere della persona, secondo l’assunto che “il primo giorno della tua vita è domani mattina”. Per cui il disinteresse per ciò che è il passato è la fondamentale differenza rispetto ad una qualsiasi teoria psicologica.
Ma chi è il mental coach? Non uno psicologo, ma una figura a metà tra il terapeuta e il motivatore, capace di stimolare e focalizzare l’interesse della persona verso un obiettivo per cercare di raggiungerlo nel migliore dei modi. Esistono varie tipologie di coaching riferite a vari ambiti, da quello lavorativo al mondo dello sport, dal business coaching utilizzato per aiutare a migliorare una posizione professionale o per ottenere risultati da un certo tipo di team, allo sport coaching applicato sia nelle singole discipline che negli sport di squadra e molto utile per gestire l’emotività sotto pressione o per trovare la carica e la concentrazione necessarie ad affrontare un qualsivoglia avversario.
Conosciuto molto all’estero, soprattutto oltreoceano, il coaching sta prendendo piede anche nel nostro Paese. Per spiegare meglio alcune tecniche di “allenamento della mente”, abbiamo incontrato Gianni Simonato, esperto di coaching e attualmente impegnato anche con le Fiamme oro rugby, il team della palla ovale del Gruppo sportivo della Polizia di Stato che milita nel campionato nazionale di Eccellenza, la massima serie italiana del rugby.
«Innanzitutto – dice Simonato – bisogna dire che c’è grande differenza tra il lavoro che si svolge su un singolo soggetto e quello con una squadra. Naturalmente, il secondo risulta essere quello che pone maggiori difficoltà perché, non lavorando sull’individuo, è necessario entrare in un gruppo cercando innanzitutto di intuirne le dinamiche e capire il punto in cui fare breccia. Di solito l’interesse dei soggetti possiamo schematizzarlo come una curva gaussiana: una piccola parte indifferente, una molto resistente e una parte centrale, abbastanza cospicua, molto interessata».
Dunque, spesso ci si può trovare davanti a resistenze, del tutto umane, di fronte ad una persona che può essere percepita come uno psicologo, ma che tale non è. Il coaching, a differenza della psicologia, si pone degli obiettivi ben precisi, con una scadenza nel medio-breve periodo, proprio perché, soprattutto in ambito sportivo, quel che conta è il risultato finale.
«La domanda che pongo – continua Simonato – nella prima seduta di coaching è: “Da qui ai prossimi tre mesi, c’è qualche punto che vogliamo migliorare?”. Qui entra in gioco quella che viene definita come “la ruota della vita”: un vero e proprio cerchio che misura da 0 a 100, come i raggi di una bicicletta (otto raggi), all’interno dei quali inserire, in ordine crescente, le cose più importanti nella vita di ogni individuo (famiglia, lavoro, tempo libero, eccetera), dando un valore numerico ad ognuna di queste e individuando di quanto dover incrementare questo numero per raggiungere il benessere cui vogliamo arrivare. Ad esempio, dando alla famiglia un valore pari a 50, in base ai miei desideri, penso che per raggiungere la felicità in quel campo dovrei arrivare almeno a 80. Il vero punto di partenza è chiedersi cosa si stia facendo attualmente per aggiungere quei 30 punti che mancano, e quale piano di azioni concreto impostare».
Il coaching ha scoperto che è possibile lavorare sullo sviluppo personale. Le cose non accadono “per grazia ricevuta” e ci sono eventi al di fuori che non possono essere controllati o modificabili, come ad esempio i fattori atmosferici e il tempo. «Non si possono allungare le 24 ore – aggiunge il coach – però si può imparare a gestirle e decidere come impiegarle. In una parola, imparare a guidare il proprio libero arbitrio».
Il punto fondamentale è che il coaching non mira ad insegnare qualcosa alle persone, ma vuole estrarne il meglio, cercando di capire dove sia orientata la loro attenzione cercando di rifocalizzarla in altri ambiti. «Spesso – prosegue Simonato – non c’è una gestione ottimale degli obiettivi, che magari sono tanti e in contraddizione tra loro. Si dice che la “direzione” sia più importante degli obiettivi, nel senso che la direzione è una specie di bussola, di ago magnetico, che ci orienta. Molte volte le persone non parlano volentieri di queste cose. Per questo ho elaborato una teoria che ho chiamato “Laser”. Un vero e proprio fascio di luce che ha come punto focale l’obiettivo da raggiungere, nel quale ho inserito quattro punti fondamentali: dialogo interiore, convinzioni, azione e risultati. Partendo dalla fine, il risultato è dato da una serie di azioni: nel caso dello sport, ad esempio, la preparazione atletica, la strategia e una preparazione mentale che a volte si fa bene, altre no. Quindi è necessario fare una sorta di passo indietro: “fai bene quel che sei convinto di fare”. Le persone non dicono di essere convinte, ma dicono “Ok, ho capito!”, ma lo faranno realmente all’interno del loro dialogo interiore?». Qui entra in ballo il coaching che ha il compito di capire se ci sono dei blocchi o dei limiti a questo livello. Attraverso la programmazione neurolinguistica, tramite domande mirate o osservando i movimenti del corpo, specialmente quello degli occhi, il mental coach può capire chi ha di fronte, se è realmente convinto di quel che sta dicendo o meno. Se non lo è risulta utile iniziare a lavorare sul “sistema di convinzioni limitanti” del soggetto, secondo l’assunto che l’umano fa solo ciò che è convinto di fare.
Dunque, non una scienza esatta, ma un vero e proprio aiuto capace di tirare fuori quel che c’è dentro ognuno di noi, perché ciascuno ha potenzialità enormi, ma che spesso non sa o non vuol sapere di averle. Il vantaggio del coaching è che, a differenza di una terapia psicoanalitica che può essere messa in atto solamente nel momento in cui ci si trova nello studio del terapeuta, dopo alcune sessioni in cui vengono insegnate le tecniche, può essere anche continuato al di fuori ed in ogni momento della giornata. La chiave sta solo nella volontà di volersi migliorare e di raggiungere l’obiettivo finale. I tuoi risultati dipendono per buona parte proprio dal tuo dialogo interiore.