Maurizio Masciopinto*

Ciao Capo

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Quando da noi dici il “Capo della Polizia” sembra che anche quando parli ti escano le maiuscole. Che magari fai fatica a immaginare cosa faccia, come viva, come possa gestire un potere così grande.
Poi, un giorno di luglio di sei anni fa, nominano Antonio Manganelli Capo della Polizia. Un poliziotto che tanti altri poliziotti avevano conosciuto sulla strada. Uno che in parecchi se lo potevano immaginare davvero, anzi lo conoscevano, gli avevano stretto la mano, ne avevano incontrato lo sguardo. E quando fanno Capo uno che è stato sulla strada proprio come te, che si è sporcato di polvere e attese, che ha riso e sofferto per un successo o una sconfitta, uno che ti ha abbracciato quando piangevi, perché a volte capita anche ai poliziotti di stare male, ecco, quando fanno Capo uno come Lui, quelle maiuscole ti escono per rispetto e non per timore reverenziale.
In tanti hanno scritto del Capo cose bellissime e vere. A me, nel riempire questo foglio bianco, che mi sembra il simbolo del vuoto che ha lasciato in tutti noi, continua a tornarmi alla mente una delle tante giornate insieme a lui.
Aveva appena tenuto una riunione operativa. Aveva ascoltato tutti. Poi aveva parlato Lui. Riuscendo a cogliere il meglio di ognuno. Intorno aveva poliziotti, carabinieri, finanzieri. Uniformi diverse per colore ma con dentro donne e uomini con lo stesso DNA. C’era un clima di quelli che ti entrano dentro. Ci sentivamo uniti. Forti. Sereni. La forza e la serenità che ti dà solo la consapevolezza di agire per qualcosa di importante come il bene di tutti.
Uscendo mi disse: «Ci hai mai pensato? Quando una persona parla del proprio lavoro, di solito, dice quello che fa. Per noi si dice: è un poliziotto, è un carabiniere, è uno sbirro. Il nostro lavoro è anche il nostro modo di essere». È in quelle parole che ho capito. Che ho capito quando un uomo, una persona incarna (nel senso letterale del termine) l’Istituzione che rappresenta.
Ci sono frasi che si fermano nella mente. Che ti fanno capire in un istante quello che intuisci ma che non riesci a fermare in un concetto. È lì che ho capito perché Manganelli, che era “il Capo”, si sentiva al servizio dei propri poliziotti. Perché rappresentava la vera rivoluzione di questi anni. L’autorevolezza di chi sa assumersi le responsabilità più pesanti. Di chi sa rivolgersi al Paese intero non nei momenti del trionfo operativo o investigativo ma nei momenti più difficili, quelli in cui i “suoi” avevano bisogno di ritrovare la propria identità. Quelli in cui il Paese voleva una Istituzione a cui rivolgersi e non un concetto astratto.
Per questo, oggi, il termine Capo risuona nelle nostre menti, nei nostri cuori come una parola che sa di forza, di coraggio, di generosità. Una parola a cui diamo e continueremo a dare il volto sorridente di Antonio Manganelli.
Il nostro Capo.

*direttore dell’Ufficio relazioni esterne e cerimoniale del Dipartimento della pubblica sicurezza

01/04/2013