Cristiano Morabito

Il Barone di "Ovalia"

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Con 103 “caps” è il rugbysta azzurro più presente di sempre. A fine stagione appenderà gli scarpini al chiodo. Andrea Lo Cicero si racconta a Poliziamoderna

Roma, 16 marzo 2013. Sono passate da poco le cinque del pomeriggio e a Roma si è appena conclusa l’ultima partita dell’Italia nel torneo delle Sei Nazioni di rugby. Gli Azzurri hanno sconfitto l’Irlanda e i 75mila spettatori sulle gradinate dello Stadio Olimpico sono in festa. Sul maxischermo c’è un’immagine fissa con una scritta che recita “Grazie Andrea!”. È il giusto tributo che il mondo della palla ovale italiana dedica ad uno dei suoi principali attori che, con questo match, ha chiuso la sua esperienza con la maglia della Nazionale e a fine stagione appenderà definitivamente gli scarpini al chiodo: Andrea Lo Cicero. Classe 1976, catanese purosangue e orgoglioso della sua sicilianità, il pilone dell’Italrugby ha conquistato, proprio in occasione del match contro l’Irlanda, il suo 103° “cap” (la presenza nel linguaggio di “Ovalia”) superando così Alessandro Troncon e diventando l’azzurro più presente nella storia della Nazionale italiana. A lui, in occasione della centesima convocazione, il tempio scozzese del rugby, lo stadio di Murrayfield, aveva tributato l’onore che viene concesso a chi raggiunge questo risultato in carriera (i cosiddetti centurions), ossia entrare in campo da solo prima delle due squadre: «Trovarmi davanti a più di 60mila persone in piedi che mi applaudivano mentre da solo entravo sul terreno di gioco, mi ha fatto venire i brividi. Mi sono sentito più piccolo di un tappo di bottiglia». La ciliegina sulla torta di una carriera unica, dopo la conclusione della stagione del rugby francese (Lo Cicero milita nella squadra del Racing di Parigi), arriverà questa estate con il tour dei Barbarians, il più famoso club ad inviti del mondo, con i quali Andrea giocherà due partite. Abbiamo incontrato “il Barone” (e non è solo un soprannome), mentre, in smoking per la serata di gala post Italia-Irlanda, si concedeva ai giornalisti nella zona mista dedicata ai media all’interno dello Stadio Olimpico.

Iniziamo dalla fine. Italia-Irlanda è stata la tua ultima partita con la Nazionale, cos’hai provato quando ti sei reso conto che la tua avventura in azzurro si sarebbe conclusa al momento del fischio dell’arbitro?
È stata una delle mie partite più belle, sia per come ho giocato che per la cornice di pubblico che quel giorno riempiva gli spalti dell’Olimpico. Quando l’arbitro ha fischiato la fine ho provato una sensazione unica, un vero e proprio mix di emozioni: avevamo vinto dando all’Italia il miglior risultato di sempre nel torneo delle Sei Nazioni (quarta, ndr) e sapevo che quella era stata l’ultima volta che avevo indossato quella maglia che ho sempre amato. Ero talmente preso da quelle sensazioni fortissime da non rendermi neanche conto che, mentre sul maxischermo dello stadio proiettavano un filmato dedicato a me, c’erano 75mila persone che per cinque minuti mi applaudivano in piedi per rendermi un tributo.

Sei un simbolo della Nazionale, record di caps, una carriera invidiabile. Hai ancora qualche desiderio sportivo prima di smettere?
Restare per qualche anno il rugbysta che ha giocato più partite in Azzurro. Mi sarebbe piaciuto essere il primo al mondo, non è stato possibile per vari motivi, ma va bene così. Anche le delusioni fanno parte della crescita di un uomo.

Negli ultimi anni il rugby ha triplicato il seguito di pubblico e conquistato una popolarità inaspettata nel nostro Paese, regno delle palle tonde.
Pur essendo uno sport difficile da capire (le regole del rugby sono contenute in un volume di più di 200 pagine, ndr) appena lo si avvicina un po’ di più ci si appassiona. In primo luogo perché c’è contatto duro ma senza reazione violenta, l’aggressività viene controllata e autodisciplinata dal giocatore stesso. In secondo luogo perché è una festa, le due squadre che si sono affrontate in campo finita la partita brindano e mangiano insieme al pubblico nel cosiddetto “terzo tempo” che tra l’altro è anche un momento in cui si ha la possibilità di incontrare e comunicare con gente di tutto il mondo, visto che le tifoserie seguono sempre i loro club con fedeltà. Questo sport è molto educativo, per chi lo fa e per chi lo guarda e rappresenta un sano divertimento per famiglie che vivono con serenità la partita sugli spalti. Sarebbe bello se fosse così nel calcio.

Questa popolarità non potrebbe essere solamente una moda passeggera?
Il fatto che nel rugby non ci sia “finzione”, fa sì che le persone si appassionino sempre di più. Molti mi dicono che se il rugby fosse arrivato prima nel nostro Paese, sicuramente lo avrebbero scelto come sport da praticare invece di altri. E questo mi fa capire che non è solo una moda passeggera, ma che il mio sport è entrato realmente nel cuore della gente. E poi seguire un match del 6 Nations è una vera e propria festa, con i tifosi delle due squadre che possono stare fianco a fianco sostenendo il proprio team senza problemi. L’ordine pubblico non è un problema e, addirittura, anche i poliziotti di servizio allo stadio possono godersi una bella giornata di sport. Questa è una vittoria importante.

La palla ovale non richiama un grosso giro di affari: è forse questo uno dei motivi per cui il rugby ha mantenuto una sua purezza?
I soldi entrano, certo non come per la serie A del calcio o per la Formula1, ma rimane uno sport di contatto fisico e di grande fatica, ciò ti fa vivere con i piedi per terra. Puoi guadagnare milioni, ma devi essere disposto a fare il “duro lavoro” del rugbysta in campo. Mi piacerebbe pensare che il rugby possa insegnare agli italiani cos’è un regolamento di conti tra signori, un combattimento nel rispetto delle regole e dell’avversario. Vincere con lealtà e non per arricchirsi.

Oggi sei uno dei volti più noti del rugby, nonché un’icona di questo sport in Italia, ma com’è stata all’inizio?
Ho iniziato nell’Amatori Catania, prima nelle giovanili e poi, dal 1995, in prima squadra. Nel ’97 sono passato al Bologna Rugby club. Quando vivevo a Catania, avevo solo fatto qualche lavoretto da odontotecnico appena diplomato. Una volta arrivato a Bologna invece iniziai a prendere un vero stipendio: 500mila lire al mese. Non erano poche ma vivendo fuori sede avevo parecchie spese. Eppure riuscivo a spendere 200mila lire per mantenermi e anche divertirmi e 300mila le mettevo ogni mese da parte.

Nonostante tu abbia subito molti infortuni durante la carriera, sei comunque un esempio di longevità sportiva.
Mi piace vivere intensamente. Quello con la Nazionale è stato come un rapporto di coppia che è durato più di 14 anni e insieme siamo cresciuti molto. Sono orgoglioso del fatto che, insieme ai miei compagni, ho dato il mio contributo alla crescita di questo sport fino a farlo diventare una vera professione e a farlo arrivare al cuore della gente. Ricordo che i miei nonni (il nonno di Andrea era un appuntato di polizia, ndr) mi chiedevano se fossi matto, perché volevo giocare a rugby, proprio perché allora la palla ovale in Italia era un’emerita sconosciuta.

Tra le tante mete della tua vita ce ne sono alcune che pochi conoscono, quelle delle tue iniziative di impegno sociale, da giovanissimo con la Croce rossa italiana, poi con Antea, per le cure palliative dei malati oncologici, infine l’Unicef. Attualmente di cosa ti occupi?
Se nella vita non si hanno problemi economici e si gode di ottima salute, penso sia un dovere concedere un po’ del proprio tempo libero a chi è meno fortunato. Farò a giugno il mio primo viaggio come ambasciatore Unicef in Africa. Devo prima smettere di giocare il campionato per fare la profilassi dei vaccini. Poi ho fondato a Nepi, tra Roma e Viterbo, una fattoria didattica e un’associazione culturale agricola “La terra dei bambini onlus” che si occupa di onoterapia (pet therapy, che utilizza gli asini, rivolta a bambini down e disabili).

Anche la Polizia di Stato ha una squadra di rugby che milita nel massimo campionato e lo fa con una rosa di soli giocatori italiani. Pensi che possa essere funzionale alla crescita del movimento rugbystico nazionale?
Ritengo sia fondamentale. Io stesso iniziai a praticare sport con le Fiamme oro nella sezione della lotta grecoromana di Catania: il trampolino che mi ha permesso di arrivare alla disciplina che mi ha dato notorietà. Quello del Gruppo sportivo è un modo giusto per avvicinare sempre di più le persone ad un’Istituzione importante qual è la polizia, oltre ad essere fondamentale per lo sviluppo e il mantenimento in vita di sport che, altrimenti, non sopravviverebbero, ma che fanno gioire gli italiani per una medaglia alle Olimpiadi.

Il rugby è sinonimo di rispetto delle regole, un concetto fondamentale anche per la Polizia di Stato.
La funzione della polizia è proprio quella di far rispettare le regole, anche se spesso alcune leggi non le consentono di poter svolgere a pieno questo compito. Forse nel rugby è più semplice, proprio perché ci sono tante regole che, anche senza l’aiuto di un arbitro, vengono automaticamente rispettate da tutti i giocatori.

Un’ultima curiosità: ti chiamano “Il Barone”, sei davvero nobile?
È una storia che ha tirato fuori qualche anno fa un giornalista. Ebbene sì, è vero e risale alle origini normanne della mia famiglia. Non ho mai pubblicizzato questa storia perché penso che i titoli nobiliari siano un qualcosa che resta relegato nel passato. Bisogna essere “nobili” nella vita di tutti i giorni e non perché lo sancisce un titolo che viene ereditato. La nobiltà vera è quella dell’anima.

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I “CREMISI” AL 6 NAZIONI
Un Sei Nazioni 2013 da ricordare per l’Italrugby che trascinata dal tifo dell’Olimpico chiude il torneo con la vittoria contro l’Irlanda. Proprio nel piazzale antistante lo stadio c’ è stato spazio anche per lo stand della Polizia di Stato curato e allestito dall’ Urp della questura di Roma. Uno stand in cui, ovviamente, fanno bella mostra di sé, oltre agli atleti del G.S. Fiamme oro rugby anche le gloriose maglie da gioco della squadra della polizia. Dai primi completi delle origini targati Padova e Milano fino all’ultima scintillante divisiva che ha coinciso con il ritorno del XV cremisi, dopo anni di oblio, ai massimi vertici della palla ovale nazionale. L’appuntamento è per l’anno prossimo, magari con qualche nostro atleta non più nello stand ma a correre e sudare in campo con gli altri Azzurri.
Anacleto Flori

01/04/2013