Stefano Sollima

Io, Acab e i celerini

CONDIVIDI

Nonostante le polemiche sollevate da Acab e le reazioni negative di una parte del mondo in divisa, potrei iniziare il mio contributo sul rapporto tra cinema e polizia, ringraziando proprio l’Ufficio relazioni esterne del Dipartimento della ps. Ricordo che mi presentai dal direttore Maurizio Masciopinto sapendo di avere in tasca un progetto cinematografico difficile da condividere da parte di un funzionario di polizia: fare un film prendendo spunto dal libro inchiesta di Carlo Bonini. Un libro che puntava a far vedere la polizia dal di dentro, attraverso una serie di interviste ai poliziotti e che tante polemiche ha suscitato. Certo ero consapevole che Acab rappresentava per la polizia un nervo ancora scoperto, ma avevo scelto di parlare degli uomini del Reparto mobile perché, rispetto ad altre specialità, mi fornivano molti più punti di contatto con il mondo che volevo raccontare. Una scelta scomoda, e solo apparentemente provocatoria, perché quella del cosiddetto “celerino” è forse una delle figure più discriminate della polizia non solo in Italia, ma in quasi tutti i Paesi. Sembra strano ma di pellicole sui poliziotti delle diverse specialità se ne contano a centinaia, nessuna però sulla vita e sul lavoro dei “celerini”.
Nonostante ciò, già nel corso di quel primo incontro ebbi subito la sensazione di un rispetto reciproco e di una leale collaborazione. Infatti dopo avermi ascoltato, il direttore mi fece capire di non essere molto d’accordo sul film, ma che avrebbe comunque fatto di tutto per facilitarmi le riprese. Devo confessare che rimasi stupito per quella dimostrazione di apertura, per nulla scontata. Ritengo sia stato soprattutto un modo importante di riaffermare il principio di democrazia, ma anche un segno di maturità e di rinnovata capacità comunicativa: un atteggiamento che rende onore a tutta la polizia e che mi ha fatto pensare alla massima di Voltaire: “Non condivido la tua idea ma darei la vita perché tu la possa esprimere”. Così il rapporto è nato e si è sviluppato come se io dovessi girare un film assolutamente innocuo e indolore per i rappresentanti delle forze dell’ordine. Invece nella sceneggiatura c’erano scene “forti”, tra spedizioni punitive e poliziotti che protestavano contro la classe politica davanti ai cancelli del ministero dell’Interno o sotto il Parlamento. Questa collaborazione è stata la dimostrazione pratica che alla fine il rapporto diretto tra cittadini e polizia aiuta a risolvere, al di là della demagogia, la maggior parte dei problemi; ma anche la dimostrazione che la polizia è ormai consapevole che film e fiction rappresentano un formidabile strumento di comunicazione. Per questo ritengo che anche un film scomodo come Acab abbia avuto, in fondo, il merito di raccontare i fatti dal punto di vista della polizia, di aver umanizzato i poliziotti del Reparto mobile che non sono né eroi né demoni, ma più semplicemente uomini alle prese con un lavoro sporco; ed è a loro che i cittadini delegano la propria sicurezza. Non volevo fare un film contro o a favore della polizia, ma più semplicemente raccontare delle storie; e dal punto di vista dello spettacolo la storia funziona nel momento in cui drammaturgicamente racconti un conflitto interno al personaggio, descrivendo la figura del poliziotto che fa i conti con le proprie contraddizioni. Basti pensare a un capolavoro del cinema italiano come “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, interpretato da un Gian Maria Volontè in stato di grazia. Il fatto che l’uscita della pellicola nelle sale sia stata accompagnata da tante polemiche è dovuto in buona parte alla nostra incapacità di autorappresentarci, di fare cioè i conti con il nostro passato attraverso i film, come invece avviene normalmente nei Paesi anglosassoni. Non a caso il cinema italiano ha abbandonato il genere poliziesco all’inizio degli Anni ’80 e a raccontare l’universo dei poliziotti è rimasta solo la televisione; ma i detective televisivi sono spesso improbabili oppure tratteggiati a “grana grossa”, dando così vita a un mondo meraviglioso che non corrisponde alla realtà. Forse il grande successo delle due serie di Romanzo criminale è proprio dovuto alla scelta di far rivivere le atmosfere più serrate e dure dei vecchi “poliziotteschi” degli Anni ’70.
In ogni caso, cinema a parte, come semplice cittadino sono convinto che la migliore strategia comunicativa per la polizia sia quella di dire la cosa giusta al momento giusto. Penso ad alcune vicende che hanno visto la polizia coinvolta negativamente – come la morte di Gabriele Sandri e i successivi scontri nel cuore di Roma – che sono scaturite da una strategia comunicativa poco trasparente. Quello del poliziotto è un lavoro delicato e difficile, con tanta pressione addosso: gli errori vanno messi in conto e non dovrebbe essere un problema rappresentarli. La cosa importante è la velocità della presa di distanza. Altrimenti si finisce per fare confusione tra l’Istituzione e il singolo. 

01/02/2013