Gianluca Comin
Comunicare a tutto campo
Il mondo dell’informazione ha cambiato pelle rapidamente, sotto i nostri occhi. Questo è certamente vero in termini quantitativi: l’Università di San Diego ha stimato che ogni statunitense – ma il dato è verosimile anche per l’occidentale medio – consuma 34 gigabyte di informazione al giorno. Sono necessarie ben 11,6 ore per smaltirla.
Ma anche in termini qualitativi: in pochi anni, siamo passati dalla guerra del Golfo del 1990, prima guerra interamente televisiva, all’11 settembre, in cui i filmati amatoriali del crollo delle torri si sostituirono alle tv ufficiali, per arrivare infine alla primavera araba e alle proteste degli ”indignados”, raccontate e perfino stimolate dai nuovi social media.
In pochi anni, insomma, si è completato un ribaltamento: da un modello con pochi centri di produzione e moltissimi di fruizione delle informazioni, siamo entrati in un modello in cui tutti possono produrre notizie e ciascuno è una cassa di risonanza per la circolazione delle informazioni.
E sono cambiate anche le parole d’ordine della comunicazione: non più verticalità-immagine-controllo, ma orizzontalità-interazione-condivisione. Un cambiamento che non riguarda solo le aziende, ma ogni ambito della comunicazione pubblica. E che pone sfide comuni a istituzioni come la Polizia di Stato e a grandi aziende come Enel.
Comunicare in questo nuovo mondo ci impone di diventare flessibili, rapidi e sensibili come i nuovi attori che si rapportano con noi. Che cosa significa questo in termini pratici?
Innanzitutto vi è una questione di linguaggio: l’orizzontalità dei nuovi media rende la comunicazione un processo sempre più simile alle conversazioni tra esseri umani. La capacità di parlare con faccia e voce umana deve essere una sfida da tenere ben presente per organizzazioni grandi, numerose e inevitabilmente burocratiche come può essere talvolta anche la Polizia di Stato.
Vi è in secondo luogo una questione dimensionale. Nel nuovo mondo della comunicazione, Davide può battere Golia: grazie ai nuovi media, entità piccolissime come i singoli cittadini, interagendo tra loro, possono diventare più intelligenti e veloci di grandi entità come governi, istituzioni, aziende. Un tweet può mettere in ginocchio il miglior ufficio stampa del mondo e demolire una reputazione costruita con fatica. Adattarsi a questo nuovo paradigma è una sfida imponente, ma se si ha disponibilità all’ascolto e si comunica con attenzione e umiltà, si riuscirà ad avere un impatto reale. In un tale contesto, in cui l’informazione è nelle mani di tutti, diventa essenziale il nuovo ruolo del giornalista: la sua capacità di mettere ordine nel rumore di fondo dell’informazione, di interpretare in maniera trasparente il rapporto tra politica, economia e cittadini, di informare correttamente per aiutare la partecipazione della gente alla vita pubblica.
Un’altra conseguenza importante di questi cambiamenti riguarda il luogo – fisico o virtuale – dove si formano le opinioni. Le discussioni sui temi che interessano alle persone avvengono sempre più vicino ai cittadini e più lontano dal controllo di istituzioni e aziende.
La polizia ha una vocazione naturale ad “andare dove sono le persone”; oggi ha l’opportunità di evolverla, prendendo coscienza che i cittadini non si incontrano più solo in strada, ma anche in arene virtuali, più impalpabili ma non per questo meno importanti. Ricordando sempre che il bisogno di vicinanza, anche fisica, non diminuisce, ma aumenta nell’era digitale.
Lo dimostrano gli 80milioni di visite alle pagine del sito della Polizia di Stato negli ultimi due anni, o i 47 mila like all’agente Lisa, profilo ufficiale della polizia su Facebook. Da quest’anno la Polizia di Stato ha uno strumento in più per rispondere a questo bisogno di vicinanza: la “Casa della Comunicazione”, inaugurata di recente da Antonio Manganelli.
Infine, un ultimo punto, che credo sia cruciale nell’affrontare la maggior parte dei discorsi della nostra epoca, soprattutto quelli attinenti alla comunicazione: la trasparenza.
Politici, aziende, decisori pubblici, devono prendere atto che il modello fatto di controllo e restrizione dell’accesso alle informazioni sta giungendo al termine.
I nuovi media favoriscono l’apertura, la libera fruizione, persino la verifica di una quantità infinita di dati, inclusi quelli riguardanti la gestione di istituzioni pubbliche: budget, politiche del personale, prestazioni…
Non si tratta di un trend da ostacolare o limitare, ma di una fonte enorme di opportunità per migliorare i rapporti tra pubblica amministrazione, cittadini e mercato.
Ciò ha due conseguenze. In primo luogo la trasparenza non consente scarti tra l’interno e l’esterno: i valori che si esprimono nei confronti di chi ci osserva devono essere gli stessi vissuti all’interno dell’organizzazione. Per questo motivo la comunicazione interna ha una rilevanza strategica.
In secondo luogo, trasparenza significa accesso. E in questo senso la possibilità per i cittadini di accedere sempre più liberamente ai dati che riguardano il funzionamento delle istituzioni – anche della polizia – possono rivelarsi addirittura più efficaci della comunicazione tradizionale nel delicato scopo di creare fiducia.
Una fiducia che, in fondo, costituisce il capitale più prezioso per operare nella società. E che la polizia ha saputo mantenere ed accrescere (dal 50,7% del 2008 al 71,7% del 2012, secondo Eurispes, addirittura all’82% secondo Ipsos) proprio in questi anni, in cui rappresenta un bene raro. Continuare su questa strada richiede vicinanza ai cittadini, velocità nelle risposte, capacità di anticipare le sfide. Anche nella comunicazione.