di Roberto Covaz*
Non più confine
Avamposto d’occidente nel recente passato, a Gorizia, oggi maestra di dialogo e multiculturalità, si respira la storia e si avverte la crucialità del territorio di frontiera
“Alt, stoj”. Urla nel buio. E poi il silenzio, opprimente, angosciante, squarciato da una raffica di mitra. Il giorno dopo solo brutti ricordi, da dimenticare in fretta, da inghiottire in silenzio perché la cortina di ferro non stringesse ancora di più l’orizzonte corto di una città di confine.
Gorizia è stata l’avamposto del mondo occidentale e democratico. A pochi metri un altro mondo, quello dell’illusione del socialismo reale: la Jugoslavia.
“Alt, stoj”, erano i comandi secchi dei poliziotti jugoslavi, chiamati graniciari, a presidio del confine. Una frontiera non solo tra due Paesi ma soprattutto tra la consapevolezza del tradimento dei propri ideali e un mondo immaginato migliore. Il Novecento ha inciso profonde ferite nell’animo di Gorizia, città tanto ricca di storia quanto lontana e sconosciuta all’Italia. Perno di una Venezia Giulia di cui ancora oggi si fatica a collocare le coordinate.
Ora, però, a cinque anni dalla caduta del confine tra Italia e Slovenia, Gorizia sembra non godersi fino in fondo l’agognata liberazione della frontiera. Con la sorella Nova Gorica il dialogo non registra significativi progressi dal punto di vista istituzionale; progetti concreti se ne vedono pochi nonostante l’istituzione del Gect (Gruppo europeo di cooperazione territoriale), un organismo creato apposta per stimolare la pianificazione comune tra le municipalità confinarie e rendere più agevole il reperimento di finanziamenti europei. La storia di Gorizia è un libro che non si finirebbe mai di sfogliare per la ricchezza che contiene. Capitale di una vastissima contea (amministrava territori ricadenti nell’attuale Alto Adige, Carinzia e parte dell’Istria), spesso aspramente conflittuale con i domini dei Patriarchi di Aquileia, la città diventa asburgica dal 1500. Legata a Vienna lo sarà fino al termine della Prima guerra mondiale, ad eccezione di due brevi occupazioni napoleoniche. Destino diverso invece per Monfalcone, nota come la città dei cantieri, rimasta per secoli veneziana fino all’assorbimento, anch’essa, sotto la casa d’Austria. Poi il ventennio del regime, che ha esasperato conflittualità etniche tra italiani e sloveni fino al tragico secondo dopoguerra con l’occupazione di Gorizia, nel maggio del 1945, da parte dei partigiani di Tito. Ecco le pagine del nostro libro tingersi di rosso con la deportazione di centinaia di goriziani fatti sparire nelle foibe. Ferite ancora aperte, la cui sutura completa spetta alle nuove generazioni.
Oggi Gorizia è una città che fatica a trovare il suo passo. La crisi non aiuta, ma va detto che la caduta del confine è stata una batosta per l’economia locale. Agevolazioni economiche e commerciali le avevano assicurato ampie risorse, una sorta di risarcimento da parte dello Stato dopo la perdita della gran parte del territorio provinciale, rimasto in Jugoslavia dal settem