Cristina Di Lucente

La nostra Africa

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Un nuovo aiuto all’Unicef con gli introiti del calendario 2013 della Polizia di Stato, per finanziare un progetto a sostegno dei bambini della Tanzania

Per la maggioranza delle persone è poco più che una macchia di colore su un planisfero, nell’immenso continente africano, mentre i più fortunati possono legare al nome Tanzania ricordi di indimenticabili safari a contatto con la natura selvaggia o le spiagge incontaminate dell’isola di Zanzibar. Per la Polizia di Stato, diversamente, questo Paese concretizza il punto d’arrivo dei proventi del calendario 2013, con il finanziamento del progetto dell’Unicef “Acqua e igiene nelle scuole per i bambini della Tanzania”.
Anche quest’anno, infatti, il fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia e l’adolescenza in Italia rinnova la tradizionale partnership con la polizia per combattere l’emarginazione in uno dei Paesi del terzo mondo dove le condizioni igienico-sanitarie sono più drammatiche. Giacomo Guerrera, successore di Vincenzo Spadafora, è solo dallo scorso febbraio presidente del Comitato italiano per l’Unicef, ma ha alle spalle una lunga esperienza nell’ambito dell’organizzazione umanitaria, essendo uno dei membri fondatori del Comitato. Proprio lui ci aiuta a comprendere le condizioni di uno tra i Paesi più poveri al mondo: «Basti pensare che in molte delle scuole dove la situazione è migliore, c’è un gabinetto per cinquanta bambini, a volte, dove ce ne sono cinquecento, le toilette sono appena due per i maschi e due per le femmine».
La mortalità infantile in questa regione del mondo è di circa seicento bambini al giorno e uno dei motivi principali è legato all’igiene e alla salute. Il progetto ha due obiettivi principali: creare ambienti sani all’interno delle scuole e affrontare la problematica legata alla disponibilità idrica, educando i bambini alla pulizia delle mani. Attraverso questo intervento così elementare l’Unicef stima una diminuzione consistente della mortalità infantile. «Il ricavato di questa raccolta – prosegue Guerrera – è diretto non solo a fornire acqua nelle scuole, ma anche a formare mediatori che possano dialogare all’interno dei villaggi e nelle realtà frequentate dai giovani, per far comprendere l’importanza di una tecnica basilare e semplicissima come quella di lavarsi le mani».
Uno dei punti essenziali nei programmi dell’Unicef è infatti la formazione dei mediatori culturali. Nei Paesi nei quali opera, l’organizzazione mira sempre al coinvolgimento delle comunità locali, perché i messaggi che propone per migliorare le condizioni di vita, se comunicate dalle persone del posto, hanno sicuramente maggiori prospettive di successo.
L’idea di Guerrera, sulla base degli obiettivi raggiunti negli anni passati, è quella di ottenere un esito addirittura superiore rispetto ai precedenti, perché i metodi utilizzati coinvolgendo le popolazioni locali sarebbero meno costosi: dal risparmio ottenuto si potrebbero finanziare nuove iniziative.

Calendari passati:
dove sono finiti i soldi
E a parlare di risultati sono le cifre raccolte con le vendite dei calendari della Polizia di Stato, che nell’ultimo triennio si attestano su 570mila euro circa di finanziamento per le iniziative di volta in volta proposte dall’Unicef. Dal 2010 al 2013 si è registrata un’escalation nella gara di solidarietà: dai 159mila euro devoluti nel 2010 per il progetto del Sud-Sudan per la formazione di magistrati, funzionari di polizia e assistenti sociali per la protezione di donne e minori, ai 170mila euro raccolti nel 2011 e destinati al Bangladesh, per favorire l’accesso dei ragazzi di strada ai servizi sociali di base quali l’assistenza medica, psico-sociale e scolastica e a riqualificare i bambini-lavoratori, fino ai 240mila euro del 2012, impiegati in un programma per contrastare la malnutrizione infantile in Camerun, nazione nella quale la mortalità sotto i cinque anni d’età si attesta su cifre elevatissime per la scarsità di alimenti, abitudini nutrizionali inadeguate e carenza dei servizi medico-sanitari essenziali.
«E ora è la volta della Tanzania. Pensiamo che bissando il risultato ottenuto dal ricavato dello scorso anno, potremmo migliorare la condizione di vita di almeno 40mila bambini, ed è uno dei motivi principali per cui questo calendario dovrebbe entrare in tutte le famiglie» è la considerazione del presidente dell’Unicef, che racconta il risvolto pratico dell’iniziativa umanitaria.

Come nasce un progetto Unicef
Guerrera prosegue spiegando la genesi dei progetti, che vengono stabiliti dall’organizzazione internazionale nell’ambito di un’assemblea delle Nazioni Unite: «Un direttivo unico composto da circa cinquanta delegati rappresentanti di vari Paesi individua i progetti da seguire e li suddivide in tre diverse tipologie, quella dei progetti “interamente finanziati”, i “parzialmente finanziati” e i “non finanziati”: i primi, naturalmente, camminano per la loro strada, i secondi (che includono anche la Tanzania) vengono proposti ai Paesi donatori per trovare le risorse necessarie, e i terzi beneficiano di donazioni che provengono da privati o da aziende che stabiliscono appositi budget. È un dramma, per noi, quando un progetto non trova le risorse sufficienti per essere realizzato e dobbiamo abbandonarlo. Per fortuna questo non accade spesso e la suddivisione permette di minimizzare i rischi e di avere ben chiaro il modo in cui organizzare lo svolgimento delle nostre iniziative».
Così l’associazione umanitaria è riuscita ad intercettare aree di effettiva necessità attraverso una metodologia peer-to-peer (tra pari), utilizzando una comunicazione che prevede una presenza di operatori appartenenti ai luoghi dell’emergenza e preparati per parlare ai loro connazionali. Gli interventi da mettere in campo devono agire su diversi livelli: quello della realizzazione materiale, che nel caso della Tanzania è rappresentato dalla costruzione di strutture igienico-sanitarie, quello dell’educazione, cioè la necessità di far passare un messaggio che incida sulle abitudini delle persone e l’azione tempestiva, attraverso programmi detti Acsd (Accelerated child survival and development).
«Le situazioni di disagio vengono letteralmente aggredite: è necessario individuare immediatamente le sintomatologie delle malattie infantili, intervenendo con la distribuzione dei farmaci presso i villaggi, spiegandone l’utilizzo e, nei casi più gravi, portando i bambini nei centri sanitari più vicini. Questo vuol dire percorrere diversi chilometri, ma in Africa non è così semplice perché non esistono autoambulanze o strade asfaltate. Se vogliamo comprendere davvero queste problematiche dobbiamo abbandonare i nostri concetti di tempo e di spazio», conclude il presidente Guerrera. Non resta che sperare che il circolo virtuoso della solidarietà trovi anche questa volta la sua strada.
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Diario dal campo
“Questa è l’Africa: un Paese dai colori così asciutti e arsi da sembrare di terracotta”, così la scrittrice Karen Blixen descrive nel romanzo La mia Africa il continente che tanto ha amato, sostenendo che solo chi ne ha calpestato il terreno possa comprendere davvero il rapporto che si instaura con la natura e la condizione di vita della gente che abita questi luoghi. Ed è attraverso il diario di Gianluca De Palma, dell’Unicef Italia in missione in terra africana, nel Sud-Sudan, Stato confinante con il Kenia e la Tanzania, che vediamo con gli occhi di un testimone una terra dove è difficile vivere e dove la natura sovrasta l’uomo. Qui i volontari dell’Unicef conducono le loro missioni per aiutare le popolazioni locali, assistendone l’integrazione in un ambiente sociale in pieno cambiamento. «Non ci sono strade asfaltate, ne sensi di marcia fuori dagli slum a cielo aperto, pieni di edifici in costruzione. I bambini giocano tra rifiuti bruciati o spaccano pietre per passare il tempo. Il caldo qui è asfissiante, l’aria si taglia con un coltello, è pesante, come la terra rossa bruciata dal sole». Qualsiasi aspetto della vita è emergenza: acqua, cibo, igiene. È quasi superfluo parlare dell’istruzione. Spesso i bambini sono lontani dalla scuola, ma tra mille difficoltà cercano comunque di raggiungerla: «Quando sono insieme sorridono tutti, giocano tra di loro e i più grandi si prendono cura dei più piccoli. Ci sono pochi strumenti: le lavagne passano a rotazione di aula in aula, le classi fanno lezione a turno nella tenda o fuori, sul terreno. Quando piove si accalcano tutti all’interno ed entrano a stento, mancano sedie e banchi. Ma quello che mi colpisce sono gli sguardi: i loro sorrisi candidi ci dicono ciò che non sanno esprimere a parole».

01/12/2012