Cristina Di Lucente e Anacleto Flori

Noir d’Appennino

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Dal piccolo mondo di Pàvana, paese di montagna dove ora vive, Francesco Guccini continua a far giungere la sua voce attraverso le pagine dei suoi libri e le suggestioni liriche delle sue canzoni

Cantautore e scrittore, l’ultimo dei riconoscimenti che gli è stato tributato è la laurea honoris causa in scienze umanistiche dall’American University of Rome, a sottolineare come i suoi versi siano entrati a far parte della moderna poesia italiana, alternando il linguaggio lirico a quello diretto e coraggioso di chi esprime le proprie idee in piena libertà. Quando si parla di Francesco Guccini viene subito in mente un pezzo di storia della canzone d’autore in Italia. Ama definirsi “non un artista, al limite un semplice artigiano”; per noi rimane uno “chansonnier d’Appennino”, anche se alla musica affianca ormai da molti anni la scrittura di gialli; molto presto tornerà ad esibirsi dal vivo per un motivo di solidarietà, sarà infatti testimonial di “Emilia live” insieme ad altri colleghi corregionali per aiutare le vittime del sisma che sta martoriando la sua terra.

In questi giorni sei impegnato a presentare il tuo ultimo libro, Dizionario delle cose perdute. Sfogliarlo è come andare alla riscoperta di un mondo scomparso: giochi, oggetti addirittura parole ormai dimenticate. Dentro le pagine c’è poesia, ironia ma anche nostalgia per il tempo andato. Cosa ha fatto scattare la molla per scriverlo?
Non c’è nostalgia, perché parlo di cose che erano anche scomode da usare: il fatto è che quando si va indietro nel tempo, i ricordi assumono inevitabilmente una certa dolcezza. Così sono venute fuori tutte queste citazioni una dopo l’altra. Scrivendo questo libro mi sono soprattutto divertito a rivisitare un periodo della vita che torna in mente a chi ha passato una certa età , quello della propria gioventù.

A proposito di passato, con i romanzi che hanno come protagonista il maresciallo Santovito hai raccontato una parte della storia nazionale che precede la Seconda guerra mondiale e gli inizi degli Anni ’60. Quanto è cambiata l’Italia da allora?
È cambiata molto. Il primo romanzo, Macaronì scritto assieme a Loriano Machiavelli, è ambientato a cavallo tra il 1939 e il 1940 e poi, per sottolineare i cambiamenti abbiamo “trasportato” il protagonista nel 1960: basti pensare che al posto della vecchia osteria c’era un moderno ristobar. Poi, nel 1970, Santovito è stato testimone del cambiamento dei tempi con la contestazione studentesca vissuta sulla sua pelle e su quella delle persone che lo circondavano. I nostri gialli si svolgono in un paesino di montagna, quindi il protagonista è necessariamente un maresciallo dei carabinieri. Invece nell’ultimo romanzo, Malastagione, Santovito non c’è più perché non è un personaggio senza età e oggi sarebbe stato troppo vecchio, sicuramente in pensione, così abbiamo scelto un ispettore della forestale che va bene con il nostro ambiente, con l’Appennino tosco-emiliano e con i piccoli paesi.

Come nascono i vostri libri a quattro mani?
Io ho l’idea iniziale, di partenza. In realtà il vero giallista di noi due è Loriano. Le mie pagine sono quelle più di colore. Poi lavoriamo assieme naturalmente: ciascuno interviene sul materiale dell’altro, lo cambia. Anche scrivendo un giallo uno deve trovare il piacere della scrittura, deve partecipare all’invenzione, divertirsi a creare personaggi, figure, ambienti.

Tornando al tema del maresciallo, della figura del detective: questo confronto che hai con il crimine, in senso letterario, ha cambiato in qualche modo il tuo modo di vedere la divisa?
No, direi… Scrivere non ha cambiato direttamente il mio modo di vedere le cose, che è sempre quello. Io fin da piccolo volevo scrivere, sono riuscito a farlo e questo mi fa piacere. Alla divisa però è legato un episodio molto particolare della mia infanzia relativo al primo incontro con gli americani, nell’ottobre del 1944. Ero un bambino di quattro anni. Arrivò un camion di soldati che tiravano ogni ben di Dio. Mi fecero conoscere il chewing gum. Non sapevo cosa fosse. Masticavo, masticavo ma quella caramella non si scioglieva; e, allora, l’ingoiai.
Mi avevano dato i gradi da sergente sulla manica della camicia e andavo a mangiare alla cucina da campo. E loro venivano a mangiare polenta fritta da mia nonna, che aveva un mulino, e a giocare a tombola. Quando sono andati via ho pianto.

Forse uno sfondo metropolitano si presterebbe maggiormente all’ambientazione di un noir, voi invece avete preferito l’Appennino tosco-emiliano, una scelta controcorrente che si discosta da quello a cui ci hanno abituato gli autori di questo genere letterario…
Beh, già questa potrebbe essere una novità, un filone non dico nuovo ma una bella invenzione. Sia io che Loriano veniamo da paesini dell’Appennino abbastanza vicini, quindi conosciamo l’ambiente montanaro, i boschi, le piante che fanno da sfondo ai nostri racconti. Per questo motivo ci è venuto spontaneo scegliere le nostre montagne; non è solo la città, ahimè, che si presta a intrecci criminali. Il primo giallo è una storia tratta da un fatto vero accaduto a Pàvana (il paese dove ora vive, ndr) negli Anni ’20. Ne ho parlato con Loriano e da lì siamo partiti; scritto il primo ci è venuto naturale usare sempre lo stesso scenario e lo stesso protagonista.

Ogni città ha un autore noir di riferimento, con un ispettore, un investigatore che in qualche modo la rappresenta. Qual è il personaggio di carta o di celluloide che ti piace di più?
Sono un grande lettore di gialli e una volta mi piaceva molto l’investigatore americano Nero Wolf di Rex Stout. Da ragazzo leggevo soprattutto polizieschi d’oltreoceano, allora era impensabile averne uno all’italiana. Mi piacciono molto Lucarelli, Montalban e Camilleri ma non c’è un autore a cui mi ispiro in particolare. E poi non dimentichiamo lo stesso Machiavelli con l’ispettore Sarti…

Passando alla tua attività di cantautore: negli ultimi tre anni hai pubblicato molti libri mentre l’ultimo disco risale al 2004. Per caso sei stanco, parafrasando una tua canzone, di far parte dell’”eletta schiera dei colleghi cantautori”?
Ho già qualche canzone nel cassetto, qualche altra la sto scrivendo e può darsi che in autunno o nei primi mesi del prossimo anno, prenda la decisione per fare il disco, però non si può continuare a fare il cantautore tutta la vita. Ormai siamo agli sgoccioli, scrivere invece si può ancora. Quindi farò questo disco e poi chissà... adesso però mi riposo, così mi posso godere il mal di gola senza dover fare concerti.

A proposito di canzoni: cosa ti spinge a scriverle, da dove trai l’ispirazione?
Dipende… un fatto che mi colpisce, un personaggio che mi torna in mente prepotentemente, oppure un pensiero. Queste idee devono sposarsi con la voglia di mettersi lì con la chitarra e unire le linee musicali alle parole. Poi fatta la prima strofa il resto viene quasi da sé, cercando di essere concisi perché la canzone, anche se si tratta di versi molto lunghi, deve essere limitata nel tempo. Non è come la pagina in cui uno può spaziare di più. Ecco forse perché ultimamente scrivo più racconti che canzoni.

È un caso che hai scritto una serie di “canzoni di notte”? È un momento in cui ti riesce più facile scrivere?
No, forse perché si riesce a lavorare meglio. La notte ha il fascino del silenzio, del buio, quindi è un momento in cui si è più concentrati. Fino a qualche anno fa facevo una vita notturna più intensa, adesso tutto sommato sono diventato uno che va a letto abbastanza presto.

Hai sempre detto che “a canzoni non si fanno rivoluzioni né poesia”, però la musica è sempre stato uno strumento privilegiato per dare voce ai bisogni e alle speranze dei ragazzi ed oggi, nonostante la situazione di disagio giovanile, delle canzoni di protesta, almeno tra i cantautori, non c’è quasi più traccia. Come lo spieghi?
È vero, i rapper fanno delle buone cose da questo punto di vista, per il resto si va a periodi tutto sommato; la produzione dei cantautori si è un po’ arenata, almeno parlo di quelli storici. Quelli più giovani credo siano più orientati sulle canzoni d’amore, quindi si è perso un po’ il filone del dire, dell’esprimere le proprie opinioni. È strano perché adesso il momento sarebbe quello di scrivere più canzoni di un certo tipo, si vede che le voci si stanno affievolendo.

Tu che non sei un rapper e non hai un grande feeling con le tecnologie, come fai a piacere così tanto ai giovani?
Ah, questo non lo so… (ridendo, ndr). Io penso che siano le canzoni, anche quelle scritte più di 40 anni fa abbiano ancora qualcosa da dire, non sono state fazzolettini di carta usa e getta ma qualcosa che può durare nel tempo. E poi sarà anche l’atteggiamento che ho sempre avuto, il modo di comportarmi. Non è una scelta astuta, di immagine ma sono fatto così e quindi penso che questo abbia contato.

Nelle tue canzoni c’è sempre una dimensione spazio-temporale, come quella che troviamo in “America”, “Argentina” e “Asia”, che si affianca a quella più intimista che racconta la vita di provincia. Come riesci a far convivere questi due aspetti apparentemente contrastanti?
Perché fanno parte della mia vita, di chi ha vissuto tutte e due le situazioni. Quella del girare un po’ per il mondo e quella attuale, dello stare in piccoli posti, a contatto con gente di paese.

Parlando dei personaggi, ci sono quelli che fanno parte della quotidianità, ma anche quelli illustri come Che Guevara o Don Chisciotte; a quale tipologia sei più legato? Ti senti più attratto dalla scelta eroica o dalla durezza del vivere in provincia?
Non è tanto questo, è il fatto che molta parte del mio vivere si basa su delle letture. Io sono un viaggiatore della carta stampata, quindi saltano fuori questi personaggi, queste immagini. Si vive quindi da una parte il discorso dell’“allargamento”, dell’America, dell’Argentina, allo stesso tempo c’è il discorso quotidiano della piccola città. Mi piacciono i personaggi più modesti, le cose familiari, che mi legano alle persone con cui ho vissuto, che ho conosciuto e che mi sono particolarmente care. Quello a cui mi sento più legato è Amerigo, un mio prozio, minatore negli Stati Uniti, e Van Loon, canzone dedicata a mio padre.

Pensi che iniziative come il concerto della legalità, organizzato dalla Polizia di Stato per coinvolgere i giovani e catturare la loro attenzione portandola su temi legati ai valori, siano efficaci?
La musica è un buon mezzo per raggiungere le persone. Ognuno di noi ha avuto a che fare con delle canzoni, certi momenti della nostra vita sono legati a certe canzoni. Il concerto che organizzate è una cosa che può sempre servire, i ragazzi vengono affascinati da questi momenti di partecipazione, poi magari vanno in giro per il mondo e cambiano anche idea… Ma in questo momento storico la legalità è davvero rivoluzionaria.

01/06/2012