Gianni Sarrocco

Camaleonti del terrore

CONDIVIDI

Killer della porta accanto e fanatici indottrinati attraverso il Web rappresentano la nuova minaccia del terrorismo internazionale. Con basi insospettabili anche in Italia

Pericolosi e temuti come i basilischi della mitologia greca e romana (serpentelli per metà uccelli dallo sguardo velenoso e dal soffio mortale), discreti e potenti come i basilischi del XX secolo appartenenti alla quinta mafia italiana (quei picciotti che hanno mutuato il nome dal famoso film della Wertmüller girato fra i Sassi di Matera in Lucania). Stiamo parlando dei trasformisti del terrorismo decisi a colpire in ogni ambito, lesti nell’approfittare di tutte le tensioni nazionali e internazionali pur di avere ad ogni costo il loro criminale e scellerato momento di gloria infausta. Sia il terrorismo internazionale che quello nazionale oggi fanno affidamento sui camaleonti, sui killer della porta accanto, sui fanatici indottrinati grazie al Web, sui violenti per temperamento o per credo religioso che non esitano a infiltrarsi anche nelle proteste di piazza pur di portare terrore e morte. Oggi abbiamo di fronte un’eversione dalle molteplici facce, non importa se siano filibustieri somali a caccia di navi da abbordare per finanziare Al Qaeda oppure guerriglieri maoisti che sequestrano turisti in India o meglio jihadisti dell’Africa sub sahariana o della Nigeria specializzati nel rapire a scopo di riscatto volontari della cooperazione internazionale e tecnici occidentali o meglio ancora lupi solitari non più votati al martirio ma solo a portare morte come a Tolosa per vendicare i bambini palestinesi. E infine i guerriglieri taleban che in Afghanistan periodicamente mietono vittime tra i nostri militari impegnati in una difficile missione di pace. 50 morti in 10 anni.

La situazione in Italia
Sul fronte interno non ci facciamo mancare nulla in quanto a terroristi. In Italia, infatti, abbiamo gli emuli della Jihad islamica come il marocchino di Niardo (Brescia) pedinato sulla Rete e arrestato poche settimane fa mentre stava preparando un assalto alla sinagoga di Milano, il gruppo di turchi presi a febbraio a Terni in quanto accusati di aprire kebab per finanziare gruppi terroristici della Turchia e i 5 militanti curdi del Pkk arrestati nei giorni scorsi a Venezia con l’accusa di estorsione con finalità terroristiche. Operazioni, coordinate dalla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione ed effettuate dalle Digos locali, a dimostrazione che anche da noi cova del fuoco sotto la cenere. Come se non bastassero i falchi anarco-insurrezionalisti che escono dall’ombra e dalle gabbie in contesti particolari (vedi i pacchi bomba a Equitalia e alcuni incidenti No-Tav in Val di Susa). E nel prossimo futuro c’è già chi soffia sul fuoco del mondo del lavoro promettendo un Vietnam per l’articolo 18. Il terrorismo oggi cambia spesso pelle assumendo aspetti diversi, si mimetizza, si nasconde nella normalità a pochi passi da noi. E al momento opportuno ci mette un attimo a entrare in azione con un mordi-e-fuggi che ricorda vecchie regole delle Brigate rosse, di Prima linea o dei neofascisti dei Nar. Il mondo è pieno di palestre e di covi ed è fatica ardua fronteggiare questa minaccia globale vero cancro mortale del secondo Millennio. Potrebbero essere ovunque i terroristi e perciò si combatte a 360 gradi in un contesto di cooperazione internazionale per tentare di contrastare o estirpare questo male che ha radici lontane, agli inizi degli anni Settanta. Per di più la galassia del terrore è ricca e multiforme, attiva o in sonno a seconda delle loro necessità tattiche; e poi non conosce confini e tesse alleanze strategiche, non importa con chi e dove.
In Italia negli ultimi 43 anni abbiamo già pagato molto in termini di vite spezzate: 444 morti, oltre 2 mila feriti e 14.615 attentati dal terrificante scoppio di piazza Fontana a Milano nel dicembre del 1969, la madre di tutte le stragi con 17 vittime. Ma la guardia in questi anni non è stata mai abbassata, anzi il contrario. Anche perché (come evidenziato nell’ultima relazione dei servizi di sicurezza inviata al Parlamento) abbiamo in casa magrebini collegati a gruppi salafiti potenzialmente pericolosi. Secondo gli 007 «sottotraccia e in ambiti estremamente circoscritti» si muovono personaggi della filiera radicale del Nord Africa ancora in contatto con elementi jihadisti nascosti nei Paesi d’origine per approfittare dei rivolgimenti popolari al fine di reislamizzare quelle contrade. Nella relazione viene messo in evidenza il grosso rischio del cosiddetto lupo solitario, come quello di Tolosa autore di una strage di bambini e dell’uccisione di tre paracadutisti. Secondo i servizi segreti la minaccia potrebbe arrivare da attacchi low cost con mezzi improvvisati, ad opera di singoli, stimolati dai crescenti appelli sul Web alla jihad fai-da-te.
Indubbiamente, e non solo in Italia, le forze dell’ordine e gli apparati di sicurezza non stanno a guardare. Gli uomini dell’antiterrorismo affinano continuamente le loro tecniche, approfondiscono le loro conoscenze nell’ambito di una cooperazione internazionale sempre più serrata con frequenti scambi di esperienze e di informazioni. Soprattutto di questo si è parlato recentemente alla Scuola superiore di Polizia nel corso dell’incontro con i frequentatori del Programme on terrorism and security studies (Ptss) organizzato a Roma dal Marshall Centre, l’istituto preposto a promuovere il consolidamento della sicurezza e della democrazia nella regione euroasiatica e ubicato a Garmisch-Partenkirchen in Germania. Organizzazione che effettua vari corsi per militari e civili provenienti da oltre 100 Paesi, uno dei quali è dedicato al terrorismo. È toccato al direttore centrale della polizia di prevenzione Stefano Berrettoni fare una disamina dell’evolversi del terrorismo in Italia dalla fine degli anni Sessanta a oggi. «Dopo l’attentato di Nassjrya c’è stata la svolta con l’affrontare il fenomeno del terrorismo con un maggiore coordinamento tra le varie forze di polizia – ha sottolineato il prefetto Berrettoni – Il terrorismo evolve continuamente per cui gli strumenti vanno adeguati spesso. Oggi con il terrorismo fai-da-te abbiamo una polverizzazione della minaccia per cui la sfida degli apparati di sicurezza è ardua, non c’è una ricetta risolutiva ma è possibile individuare dei punti fermi. Nella catena della sicurezza ci devono essere tanti attori istituzionali ma anche elementi della società civile, delle comunità di immigrati, dei servizi sociali e delle strutture educative. Ma questa collaborazione non basta – ha concluso Berrettoni – Bisogna uscire dagli uffici e cercare informatori sul territorio. Occorre coniugare sapientemente il vecchio e il nuovo, usare mezzi tradizionali e innovativi per stanare anche i lupi solitari, piazzare fonti informative, seguire sul Web quelli che si indottrinano e imparano a usare gli esplosivi. Ma oltre il Web ci devono essere anche i metodi della vecchia polizia. Oggi si tende a privilegiare lo strumento tecnologico sacrificando investigazioni, interrogatori intelligenti, pedinamenti».

L’antiterrorismo italiano
Nel corso della visita in Italia dei frequentatori del Marshall Centre (c’è stata anche una presentazione dei Nocs) Claudio Galzerano, funzionario della polizia di prevenzione ha illustrato l’esperienza investigativa della Polizia di Stato nel contrasto al terrorismo di matrice religiosa mentre il primo dirigente della Polizia di Stato Nicola Falvella si è soffermato sulla cooperazione e relazioni internazionali nell’attività antiterrorismo sia a livello strategico che operativo. Numerose in ambito internazionale le iniziative di approfondimento di fenomenologie potenzialmente pericolose in quanto la libertà di movimento e quella di culto possono essere consapevole o inconsapevole veicolo di trasmissione di idee radicali e di messaggi estremistici. Per cui sono necessarie misure di protezione e di prevenzione della radicalizzazione delle comunità islamiche. Quindi i Paesi Ue hanno bisogno di continuare il monitoraggio del movimento, mantenendo e sviluppando un’alta capacità di analisi del fenomeno. Nell’ambito della cooperazione multilaterale – ha sottolineato Falvella – è da citare il Global counter terrorism forum (Gctf) nato per accrescere le capacità di risposta al terrorismo sviluppando la cooperazione con i Paesi arabi impegnati in tal senso e predisponendo strumenti internazionali per rafforzare le strutture antiterrorismo nei Paesi meno preparati con campi di azione nel Sahel, Corno d’Africa, Sud Est asiatico. Poi c’è tutta l’attività svolta in ambito Europol e Interpol con continui scambi di informazioni. E ci sono anche contatti diretti con omologhi servizi antiterrorismo di numerosi Paesi.

Parla il direttore del Ptss del Marshall Center
La trasferta in Italia dei frequentatori del corso del Marshall Center è voluta essere anche un riconoscimento del lavoro svolto dalle forze antiterrorismo italiane in lunghi anni di impegno nazionale e internazionale. Ne parliamo con il professor Nick Pratt, colonnello delle “Special Forces”dei Marines, in pensione nonché direttore del corso Ptss del Marshall Center.

Qual è il valore aggiunto che l’esperienza italiana può dare nella lotta al terrorismo?
L’Italia rappresenta, al momento, l’unica democrazia ad aver sconfitto la violenta campagna terroristica scatenata nel corso degli anni contro le sue Istituzioni, senza aver compromesso i suoi valori o violato il suo sistema legale. Questa situazione potrebbe cambiare in futuro con la fine dell’Eta; comunque Francia e Spagna hanno ancora molta strada da fare. La sconfitta del Sendero luminoso peruviano ha effettivamente causato un collasso della democrazia di questo Paese non diversamente dalla soppressione del terrorismo Tupamaros in Uruguay. L’Italia invece costituisce un importantissimo “case study”per la lotta a tutte le forme di terrorismo, includendo anche quello di matrice separatista, con attentati compiuti in Alto Adige alla fine degli Anni ’50. Ecco la ragione della nostra visita alle strutture Antiterrorismo: per ascoltare direttamente dai responsabili operativi come l’Italia sia stata in grado di sconfiggere le Brigate rosse e come sta affrontando il problema del movimento terroristico globale della Jihad che rappresenta una minaccia planetaria.

Il “modello Italia” è esportabile? In quali ambiti?
In primo luogo ogni Paese deve esaminare e capire le minacce che lo riguardano; è necessaria una valutazione del rischio senza pregiudizi in base alla quale lo Stato deve sviluppare le proprie peculiari risposte di Governo a tutti i livelli. Proteggere i cittadini è sempre la prima responsabilità di ciascun Governo e richiede un’opportuna strategia. Questo è il passo più importante da compiere. Ciò che impariamo dagli altri Paesi è cosa ha funzionato, cosa non ha funzionato e perché. Le altre nazioni potrebbero sviluppare un programma sui pentiti simile a quello italiano? Dipende dal sistema legale di ciascun Paese, ciò che abbiamo appreso è che questo ha funzionato nella lotta italiana contro le Brigate rosse e gli altri Paesi dovrebbero esaminare questa tecnica legale che può migliorare la raccolta di informazioni da parte del Governo.

Da dove vengono oggi i maggiori rischi? I cambiamenti globali e repentini che avvengono in alcuni paesi del Nord Africa e Medio Oriente costituiscono un ostacolo per la completa conoscenza e comparazione del terrorismo internazionale?
I terroristi di una volta stanno scomparendo, così come i gruppi terroristici rivoluzionari marxisti leninisti della sinistra sociale, come le Brigate rosse e la banda Bader-Meinhof e i separatisti nazionalisti come i gruppi Pira e Eta, in particolar modo dal crollo dell’Unione Sovietica. Come nel caso di molti gruppi terroristici europei durante la Guerra fredda negli Anni ’70 studenti estremisti come Renato Curcio, Alberto Franceschini e Mara Cagol hanno fondato le Brigate rosse. Le azioni terroristiche erano inizialmente di basso livello, fondamentalmente sabotaggi di industrie e furti. La situazione cambiò quando le Brigate rosse cominciarono ad ottenere gli aiuti direttamente dall’Unione Sovietica e dal Patto di Varsavia per mezzo della Cecoslovacchia. Nel 1974 le Brigate rosse hanno commesso il loro primo omicidio diventando un’organizzazione terroristica a copertura totale. In genere, gli aiuti ufficiali di uno Stato aumentano il livello di pericolosità di un gruppo terroristico; possiamo osservarlo nel caso delle operazioni supportate dall’Iran del gruppo terroristico libanese Hezbollah. Attualmente le minacce più pericolose provengono da gruppi terroristici di tipo religioso e, in particolare, dalla rete terroristica globale della Jihad. Basta un rapido esame dei massacri compiuti dal gruppo della Jihad islamica (Hezbollah) ad Al Gama al Islamiyya e a Luxor; o al massacro di Beslan rivendicato dal terrorista jihadista radicale ceceno Shamil Basayev; o agli attentati dell’11 settembre, dell’11 marzo e del 7 luglio. È una lunga lista. Se si paragona l’estensione della rete terroristica jihadista globale ad un gruppo come le Brigate rosse la risposta alla domanda risulta ovvia: la pericolosità aumenta in base all’estensione, agli appoggi esterni e all’ideologia.

Durante gli anni di piombo si sono avuti contatti tra frange estremiste italiane e ambienti palestinesi, giapponesi e tedeschi. C’è la possibilità che gli anarcoinsurrezionalisti ricevano aiuti da gruppi al di fuori del territorio nazionale?
I gruppi e gli Stati possono offrire asilo oppure un supporto di tipo morale, politico o materiale. Le vostre cellule di anarcoinsurrezionalisti ricevono tutt’al più un supporto morale attraverso la Rete. La mia impressione è che questi, da entrambe le sponde dell’Atlantico esercitano azioni di disturbo più che rappresentare una vera minaccia terroristica.

Quali sono oggi le fonti di finanziamento a livello internazionale e interno?
Reperire fondi per l’attività terroristica rappresenta una disciplina a sé che necessiterebbe di giorni per essere spiegata. Il denaro è fondamentale per i gruppi terroristici, non solo permette loro di portare a buon fine gli attacchi ma è necessario anche per finanziare il reclutamento, l’addestramento, i viaggi, la propaganda, le armi e gli esplosivi e persino per le pensioni e le “emergenze di famiglia”. Le donazioni di simpatizzanti religiosi hanno costituito la base principale del supporto finanziario per Osama Bin Laden nella sua ultima fase e gli attacchi dell’11 settembre. La maggior parte di questi vili donatori hanno avuto paura di impegnarsi nella Jihad “della spada” e si sono rifugiati nella Jihad “del denaro”. L’estorsione è un mezzo molto utilizzato dai terroristi per ottenere il finanziamento. Questo metodo è ampiamente diffuso in tutta Europa ed è la tecnica preferita da molti gruppi come Pkk e Ltte. A volte, gruppi come Al-Qaida possono dirottare i fondi destinati alle agenzie ed organizzazioni a scopo benefico. Ciò può essere raggiunto o attraverso la presenza di un infiltrato all’interno dell’organizzazione a scopi benefici o creandone di fittizie. Alcuni membri si trovano all’estero ed elargiscono fondi per la causa. Hezbollah e Ltte utilizzano questa modalità in qualsiasi Paese dove sono presenti queste comunità.
Tra le attività principali dei gruppi come il Farc colombiano, i Talebani dell’Afghanistan e il Pkk turco vi è il traffico di sostanze stupefacenti, attività che fornisce ampi proventi finanziari. Quando lavoravo in Cisgiordania, nel 2008, l’organizzazione di Hamas ha ricevuto oltre 100 milioni di dollari. Attualmente gli iraniani finanziano Hezbollah ma, con l’inasprirsi delle sanzioni è finito, per loro, il tempo delle vacche grasse. Molti gruppi utilizzano semplicemente una combinazione di tutti questi metodi per reperire fondi, come il gruppo di Abu Sayyaf.

Pensa che la cooperazione internazionale diventerà l’arma più efficace nel contrasto al terrorismo? Come ottenere i risultati migliori?
L’arma più efficace contro il terrorismo, sia a livello globale che locale, è la volontà politica. Ogni Paese deve effettuare una valutazione dei propri rischi, perfezionare i propri strumenti ed elaborare le proprie strategie. È necessario creare istituzioni efficaci di contrasto al terrorismo, utilizzare un approccio di collaborazione tra le istituzioni, rispettare le istanze etiche ed essere in grado di valutare i successi e i fallimenti.
L’importante passo successivo è quello di unire le nazioni di tutto il mondo che perseguono gli stessi obiettivi per costituire una rete vivente per contrastare questa piaga di portata globale rappresentata dal terrorismo.
Non saremo mai completamente d’accordo con tutto ciò che gli altri Paesi fanno o non fanno, tuttavia è necessario venirci incontro e sviluppare punti programmatici comuni per comprendersi e aiutarsi l’un l’altro ogni volta che è possibile.

01/04/2012