Cristiano Morabito
Verso la meta
Sven Valsecchi, allenatore del XV della Polizia di Stato non fa mistero delle proprie ambizioni e punta forte sulla promozione dei suoi ragazzi nella massina serie
La stagione della Serie A1 del rugby è arrivata al giro di boa con la chiusura del girone di andata che coincide, quasi ogni anno, con l’inizio del Sei Nazioni, il torneo della palla ovale tra Italia, Inghilterra, Scozia, Francia, Irlanda e Galles. Ed il primo risultato per il XV della Polizia di Stato è già stato raggiunto: campioni d’inverno.
Il team in maglia cremisi, guidato dagli allenatori Sven Valsecchi e Rocco Salvan, ha chiuso il girone di andata in testa alla classifica con una sola sconfitta in undici partite; un ruolino di marcia di tutto rispetto che si è confermato anche nelle prime tre giornate del girone di ritorno in cui le Fiamme oro hanno riportato altrettante vittorie. Ma l’unica sconfitta non è il solo record vantato dai “mitici cremisi”, infatti il team della polizia può contare anche sul miglior attacco del campionato, con 470 punti fatti, e sulla miglior difesa, con solo 189 punti subiti.
Dunque, Fiamme oro che puntano dirette alla promozione nella massima serie, l’Eccellenza, sfiorata lo scorso anno e non raggiunta a causa di una brutta defaillance nel girone di ritorno. «Lo scorso anno avremmo potuto raggiungere i playoff e lottare per la promozione – ha detto l’allenatore Sven Valsecchi, da quattro anni al timone della squadra – ma le ultime prestazioni non proprio esaltanti non ce l’hanno permesso. Devo dire, comunque, che probabilmente questo può essere stato un bene per noi, perché non eravamo pronti ad affrontare la categoria superiore, non tanto dal punto di vista fisico e dei giocatori, quanto da quello psicologico. Ma quest’anno è diverso: non ne faccio un mistero né una questione scaramantica – continua Valsecchi – ma mi sento di dire che stavolta puntiamo a vincere il campionato di A1 e ad arrivare nella massima serie».
E tutto sembra pronto per affrontare la categoria superiore, sia dal punto di vista dell’ampia rosa di giocatori (38, cui sicuramente se ne aggiungeranno altri dopo il prossimo concorso dedicato al GS Fiamme oro), sia da quello societario.
«Quattro anni fa – conferma il vice presidente esecutivo e direttore dell’Ufficio ordine pubblico, Armando Forgione – questa società era letteralmente azzerata. I vertici della Polizia di Stato mi lanciarono una sfida, chiedendomi di riportare questo settore delle Fiamme oro ai gloriosi livelli cui era arrivato nel passato. La sfida era difficile – continua Forgione – ma, grazie all’apporto di uno staff che ho contattato e scelto personalmente, oggi posso dire di aver vinto quella scommessa. Manca veramente poco per arrivare al Top. Noi tutti ci crediamo fermamente e vogliamo raggiungerlo, anche a costo di moltiplicare gli sforzi, nella consapevolezza di essere seguiti da tutti gli appartenenti alla nostra amministrazione ed in modo particolare dal capo della Polizia Antonio Manganelli, che non manca mai di farci pervenire il suo personale plauso, dal direttore dell’Ufficio affari generali della Polizia di Stato, il prefetto Luigi Mone, e dal presidente del Groppo sportivo Fiamme oro, Francesco Montini».
Uno staff, dunque, che ha portato la squadra in quattro anni dal purgatorio della Serie B, a disputare il campionato di A e che nel 2012 ha festeggiato la centesima presenza in campionato. «Avevamo programmato di arrivare in Serie A in quattro anni – dice il direttore generale del team, Bruno Pighetti – e il fatto di esserci arrivati con un anno di anticipo fa capire che il lavoro impostato all’inizio è stato fatto bene, sia dal punto di vista tecnico che da quello organizzativo. Abbiamo cercato di dare a questa società un’impostazione altamente professionale, avvalendoci di figure qualificate in tutti i campi: dalla squadra, in cui militano anche giocatori che pur di far parte di questo gruppo hanno deciso di scendere di categoria, allo staff tecnico, con allenatori di primo livello, a quello organizzativo, dotandoci di un capo ufficio stampa, di un team manager e di un marketing manager, fondamentali per poter fare il salto di qualità nel mondo del professionismo sportivo. Senza dimenticare il prezioso lavoro di raccordo della nostra segreteria».
Ma le Fiamme oro rugby non sono solo la prima squadra che milita in Serie A. Altro punto di forza, quasi inesistente prima del riassetto societario di cui ha parlato il presidente Forgione, è quello dei settori giovanili che, a oggi, contano più di 160 iscritti, dai sei anni in su. «Sono loro – dice Massimiliano Bizzozero, ex giocatore e oggi responsabile dei settori giovanili – la grande forza di questa società e per noi è un orgoglio poter far avvicinare tanti giovani ad un’Istituzione come la Polizia di Stato. Ed è importante che si sappia che qui i ragazzi trovano un ambiente sano, pulito, in cui si impara non solo uno sport, ma una vera e propria disciplina di vita. Perché essere rugbysti significa esserlo dentro, ma soprattutto fuori dal rettangolo di gioco». Ed il fatto che la Federazione italiana rugby abbia deciso di insediare all’interno della struttura di Ponte Galeria l’Accademia nazionale under 18 è un’ulteriore dimostrazione dell’attenzione che viene data dalla società ai giovani.
Mancano, dunque, otto giornate al termine della regular season, poi sarà la volta dei playoff per la promozione nella massima serie, l’Eccellenza. Le maglie cremisi sono pronte, i presupposti ci sono tutti. Forza Fiamme!
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Il Sei Nazioni al via
di Andrea Cimbrico*
La gente normale dice che il mondo è bello perché è vario, in ambiente rugbistico internazionale ogni anno, più o meno di questi tempi, la frase fatta per eccellenza è “il Torneo è bello perché è magico”. Il Torneo con la T maiuscola è il Sei Nazioni e, ad onor del vero, magico ed incerto lo è sul serio, anno dopo anno. Del resto, se va avanti da 129 edizioni qualcosa di speciale il Sei Nazioni deve averlo per forza.
Mai uguale, mai scontato, sempre apertissimo il torneo versione 2012 che comincia il 4 febbraio a Parigi – con l’Italia chiamata a difendere il Trofeo Garibaldi (un torneo nel torneo assegnato alla vincente dello scontro diretto Italia-Francia) dalla voglia di rivalsa dei francesi vice-campioni del mondo – si preannuncia quanto mai incerto ed equilibrato, come sempre dopo l’anno dei Mondiali.
La Francia, sfiorata la vittoria iridata in casa degli All Blacks e con il nuovo commissario tecnico Saint-Andrè sulla panchina, è forse la squadra meglio attrezzata del momento ma è indubbio che il Galles di Warren Gatland dopo lo sfortunato quarto posto ai Mondiali neozelandesi, sia oggi la squadra in grado di produrre il miglior rugby. L’Irlanda, priva del suo capitano coraggioso O’Driscoll, è l’incognita di sempre: non giovane, data spesso per finita, è la squadra in grado di sovvertire ogni pronostico. Attesa al varco dall’opinione pubblica, l’Inghilterra del coach ad interim Stuart Lancaster chiamato al non semplice compito di far dimenticare un Mondiale fallimentare, con problemi di alcol ed episodi imbarazzanti fuori e prove mediocri dentro il campo a segnare la campagna iridata del XV della Rosa.
La Scozia, forte di una brillante stagione di Edinburgh in Europa, è forse la miglior formazione highlander degli ultimi anni ma, allo stesso tempo, appare capace di vincere e perdere contro ogni avversario.
E poi c’è l’Italia, affidata al neo-ct Brunel deciso ad innovare, a dare spazio ai giovani, a trovare finalmente equilibrio tra il gioco della mischia azzurra – una delle più forti al mondo – e quello dei trequarti, troppo spesso lasciati nel dimenticatoio. Come la Scozia, Azzurra non parte per vincere il Torneo «ma tra due, tre anni, voglio essere ai nastri di partenza per provarci» ha detto Brunel, ma può essere protagonista contro chiunque. Francia, Irlanda, Scozia e Galles sono state battute almeno una volta. Manca lo scalpo dell’Inghilterra, unica europea mai domata da Parisse e compagni: l’11 febbraio, in un Olimpico che viaggia verso uno storico sold-out, perché non far cadere l’ultimo tabù?
*media manager Federazione italiana rugby
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Io, Mirco e il rugby
(Intervista a Mauro Bergamasco)
«Quando ho debuttato in nazionale (nel 1999 in Coppa del mondo) dopo pochi minuti, in seguito ad un placcaggio, mi sono rotto le costole, solo perché avevo tardato a rialzarmi ed un avversario mi è saltato addosso. E lì ho imparato che dopo un placcaggio, come diciamo noi rugbysti, bisogna essere come l’erba che, una volta calpestata, si rialza subito. E per me è una metafora della vita».
Chi parla è Mauro Bergamasco, per tutti gli appassionati “Bergamauro”, flanker della Nazionale italiana e degli Aironi di Viadana, classe 1979 e padovano di nascita. Uno che il rugby ce l’ha nel Dna familiare. Lui e suo fratello Mirco sono diventati due simboli della palla ovale italiana nel mondo.
«Ho iniziato a giocare a cinque anni. Quando nacque mio fratello Mirco, mio padre, anche lui rugbysta, smise di giocare e si dedicò ad allenare le giovanili di un piccolo club di provincia, il Selvazzano Rugby. Tornava alle cinque dal lavoro, passava a prendermi a scuola e mi portava al campo. Così ho cominciato e…non mi sono più fermato».
Cos’è il rugby per Mauro Bergamasco?
Oltre al mio sport e al mio lavoro, è soprattutto uno stile di vita e di comportamento, perché quando questo sport inizia a diventare una parte costante della tua vita. Bisogna viverci all’interno di questa realtà per capirla a fondo e i valori che questo sport ti trasmette, alla fine, anche se non te ne accorgi, entrano a far parte della tua vita e ne condizionano, positivamente, l’andamento. Si è rugbysti in campo, ma soprattutto fuori. Per me non esiste la differenza.
Cosa vuol dire avere un fratello come compagno di squadra?
Non è data a tutti la possibilità di poter accedere ai più alti livelli di uno sport ed avere l’occasione e l’onore di giocare con il proprio fratello. In famiglia siamo molto uniti e la condivisione di questa esperienza ci ha uniti ancora di più. Per me è come avere un sedicesimo giocatore in campo.
Nel rugby è fondamentale la figura del coach, soprattutto per i più giovani…
Bisogna fare una distinzione, perché, a livello giovanile, non lo chiamerei allenatore ma, piuttosto, educatore. Deve insegnare ai bambini a muoversi, a conoscere il proprio corpo e deve saper utilizzare il rugby come veicolo anche dal punto di vista sociale: il rugby è rispetto dell’avversario, rispetto delle regole, è disciplina. Caratteristiche che troviamo anche e soprattutto nella vita di tutti i giorni.
Pensi sia importante, nel panorama nazionale della palla ovale, un team che rappresenti un’Istituzione come la Polizia di Stato?
Credo veramente che lo sia, perché un po’ come l’arbitro nel rugby così la polizia nella vita di tutti i giorni vigila sul rispetto delle regole. Che la polizia abbia un gruppo sportivo è importante, non solo per quanto riguarda, nello specifico, il rugby, ma per tutto il movimento sportivo italiano. Può contribuire, sicuramente, ad avvicinare di più il cittadino all’Istituzione e far passare attraverso lo sport i messaggi che vuole lanciare.
Cristiano Morabito