Ruben Razzante

Ai confini della Rete

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Regole e responsabilità nell’editoria online

Internet e legge 7 marzo 2001, n. 62
Il confronto dottrinale sull’equiparazione tra l’editoria cartacea e quella on-line resta molto acceso, come risulta evidenziato nel testo di Ruben Razzante “Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione”, giunto alla sua quinta edizione. Sono passati ormai dieci anni dall’emanazione della legge 7 marzo 2001, n.62 intitolata “Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla legge 5 agosto 1981, n. 416”, che primariamente include, nella definizione di prodotto editoriale, anche l’informazione sviluppata su Internet.
Le testate giornalistiche on-line devono obbligatoriamente essere registrate nei tribunali e avere un direttore responsabile, un editore e uno stampatore-provider, proprio come le testate cartacee e radiotelevisive, quando hanno una regolare periodicità, un logo identificativo del prodotto, quando prevedono di conseguire ricavi, quando puntano a ottenere dallo Stato un sostegno finanziario (benefici, agevolazioni e provvidenze) e anche quando in organico hanno redattori giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti. Il senso di tali conclusioni è peraltro il medesimo di una sentenza della seconda sezione civile del Tribunale di Milano, la n. 6127 del 10-16 maggio 2002, che sul tema così si esprime: «Alla luce della complessiva normativa in tema di pubblicazioni diffuse sulla rete Internet, risulta ormai acquisito all’ordinamento giuridico il principio della totale assimilazione della pubblicazione cartacea a quella diffusa in via elettronica, secondo quanto stabilito esplicitamente dall’art. 1 della legge 62/2001. Tale definizione incide e amplia quella contenuta nel r.dlg. 561/1946 secondo cui non si può procedere al sequestro delle edizioni dei giornali, di pubblicazioni o stampati – contemplati nell’editto della stampa 26 marzo 1848, n. 695 – se non in virtù di una sentenza irrevocabile».
Infatti, per espressa previsione dell’art. 1 della l. 62/2001, il prodotto editoriale è, «ai fini della presente legge», quello «realizzato su supporto cartaceo, ivi compreso il libro, o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva, con esclusione dei prodotti discografici o cinematografici». Si parla quindi di pubblicazione o diffusione di informazioni, in entrambi i casi, per connotare tutti quei sistemi di esternalizzazione di messaggi e notizie altrimenti destinati al ristretto ambito di chi li produce.
Nella precisazione «ai fini della presente legge», l’intento del legislatore era, dunque, quello di circoscrivere la portata della norma, cioè di qualificare l’informazione on-line come prodotto editoriale, solo in riferimento alla possibilità di godere dei contributi previsti dalla legge, erogati da un apposito fondo, oppure alla possibilità di beneficiare del credito d’imposta a vantaggio delle imprese editoriali che effettuano investimenti e programmi di ristrutturazione.
Esplicitamente, poi, il comma 3 dell’art. 1 dispone che «al prodotto editoriale si applicano le disposizioni di cui all’art. 2 della legge 8 febbraio 1948, n. 47» e che «il prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata, costituente elemento identificativo del prodotto, è sottoposto, altresì, agli obblighi previsti dall’art. 5 della medesima legge n. 47 del 1948».
Risulta perciò chiaro che solo l’identificazione del prodotto editoriale con la testata fa scattare l’obbligo di registrazione. Un sito o un nome di dominio non necessitano di registrazione. Peraltro l’obbligo potrebbe non incombere su chi volesse aprire un sito per fare commercio elettronico o consulenza on-line. In altre parole, un primo criterio discretivo tra prodotti editoriali obbligati alla registrazione e prodotti esenti da tale obbligo può considerarsi il carattere prevalente o esclusivo, informativo o non informativo. Nessuno può chiedere la registrazione di un portale on-line, mentre diviene obbligatoria la registrazione della sezione di quel portale che diffonde informazioni presso il pubblico legate all’attualità e contraddistinte da una periodicità regolare e da una testata costituente elemento identificativo del prodotto (sempre che sussista, come detto, il requisito dell’accesso ai finanziamenti statali). Quindi, i siti a carattere commerciale e promozionale delle aziende sono esclusi dall’ambito applicativo della legge 62/2001 ed esenti dall’osservanza delle disposizioni sulla stampa.
Ma se la nuova disciplina dell’editoria elettronica schiude per le testate on-line il sentiero dell’applicazione della legge sulla stampa 47/48, con obblighi di registrazione, di indicazione del direttore responsabile, dell’editore e dello stampatore, di osservanza della disciplina delle risposte e delle rettifiche (art. 8 l. 47/48) e di osservanza della disciplina della pubblicazione obbligatoria delle sentenze (art. 9),
diversa è la questione relativa alle sanzioni per il mancato rispetto di suddette disposizioni. Infatti, il divieto di analogia previsto per le norme penali impedisce che all’informazione on-line si possa applicare l’art. 16 della legge 47/48, che punisce la stampa clandestina e la pubblicazione non registrata. Pertanto, ai reati commessi attraverso informazioni trasmesse per via telematica si potranno applicare solo le sanzioni civili o amministrative.
La legge 62/2001 è stata resa applicabile e operativa dalla delibera n. 236, adottata il 30 maggio 2001, emanata dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Tale delibera ha peraltro stabilito che nel Registro degli operatori della comunicazione (Roc) finiscano solo gli editori che pubblicano testate giornalistiche, anche telematiche, caratterizzate dalla regolare periodicità, che prevedono di conseguire ricavi dalla loro attività, che puntano a ottenere dallo Stato benefici, agevolazioni e provvidenze e che utilizzano nelle redazioni giornalisti assunti a tempo pieno.
L’orientamento dell’Autorità garante è stato peraltro confermato dalla legge comunitaria 2001, la n. 39 dell’1 marzo 2002, che all’art. 31, lettera a), impegna il governo a emanare un decreto legislativo con il seguente principio e criterio direttivo: «Rendere esplicito che l’obbligo di registrazione della testata editoriale telematica si applica esclusivamente alle attività per le quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle provvidenze previste dalla legge 7 marzo 2001, n. 62, o che comunque ne facciano specifica richiesta». Quel decreto legislativo è arrivato un anno dopo (d.lgs. 9 aprile 2003, n.70) e all’art.7 comma 3 contiene analoga previsione: «La registrazione della testata editoriale telematica è obbligatoria esclusivamente per le attività per le quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle provvidenze previste dalla legge 7 marzo 2001, n. 62».
Prima dell’emanazione della legge 7 marzo 2001, n.62, la giurisprudenza sembrava già orientata verso una sostanziale equiparazione di trattamento giuridico tra informazione tradizionale e informazione on-line.
Il 6 novembre 1997, il tribunale di Roma ha ritenuto che un periodico telematico (nel caso specifico la testata Interlex) dovesse essere registrato ai sensi dell’art. 5 della legge sulla stampa. In quell’occasione, la sezione per la stampa e l’informazione del Tribunale di Roma si è espressa per la fruibilità, da parte di quel periodico telematico, del beneficio della tutela rappresentata dalla registrazione, in quanto esso «possiede sia il requisito ontologico, sia quello finalistico relativo alla diffusione delle notizie, pur con una tecnica di diffusione diversa dalla stampa».
Anche altre sentenze relative alla portata del mezzo telematico hanno dimostrato di avallare tale impostazione. Il 30 dicembre 1999 il Tribunale di Voghera ha contribuito a consolidare tale indirizzo giurisprudenziale, riconoscendo piena cittadinanza nel mondo multimediale ai periodici e ai quotidiani diffusi tramite la rete Internet. Con un’ordinanza motivata, il presidente di quel tribunale ha disposto la registrazione di una testata giornalistica settimanale diffusa tramite il sistema telematico Internet presso la cancelleria del tribunale medesimo, sulla base dell’assunto che «il luogo di trasmissione debba essere equiparato al luogo di pubblicazione» e valutato l’intendimento, manifestato dalla Suprema Corte di Cassazione, «di ampliare la tradizionale nozione di periodico onde adeguarla alle forme di diffusione più moderna».
Analoghe argomentazioni hanno indotto il Tribunale di Salerno, il 16 marzo 2001, a ordinare l’iscrizione nel registro della stampa periodica del sito www.oltresalerno.it, giornale telematico con periodicità settimanale.
Il 7 giugno 2001, con un’ordinanza emessa ex art. 321 del codice di procedura penale, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Latina, ha disposto il primo sequestro di un sito web dopo l’entrata in vigore della l. 62/01.
Sul sito oggetto di sequestro era possibile visionare immagini che, secondo le valutazioni del giudice, vilipendevano le persone che professano la religione cattolica e i ministri del culto cattolico.
Interessante notare come il gip individui il locus commissi delicti in Latina, «luogo di immissione dei dati da parte del gestore del sito e titolare del dominio Internet, essendo irrilevante il luogo concreto di percezione, potenzialmente esteso a qualsiasi punto della superficie terrestre dal quale è possibile collegarsi in rete».
Nella sentenza n.10535 del 10 marzo 2009, la terza sezione penale della Cassazione ha chiarito che i siti on-line nei quali si svolgono i forum di discussione non godono delle stesse tutele previste per la stampa. Per questa ragione ha confermato la legittimità del sequestro di alcune pagine web del sito dell’Associazione per i diritti degli utenti e consumatori (Aduc), nel quale erano contenuti messaggi dei partecipanti a un forum di discussione sulla religione cattolica, che la magistratura di Catania aveva ritenuto offensivi verso il comune sentimento religioso per i loro contenuti sullo scandalo dei preti pedofili. Nella sentenza, la Corte ha precisato che i nuovi mezzi di espressione del pensiero come newsletter, blog, forum, newsgroup, mailing list, chat, ecc., «non possono essere qualificati come un prodotto editoriale o come un giornale on-line, o come una testata giornalistica informatica» ().
Il Tribunale di Modica, l’8 maggio 2008 (sentenza n.194/08) ha condannato per violazione dell’art.5 della legge sulla stampa 47/48 (obbligo di registrazione della testata) Carlo Ruta, curatore del blog www.accadeinsicilia.net, noto come blog antimafia in cui lo scrittore-giornalista, in oltre duemila documenti pubblicati, ha condensato il suo lavoro di inchiesta e di ricostruzione storica di fatti di cronaca. Quel blog è stato chiuso dall’autorità giudiziaria perché considerato stampa clandestina, ai sensi dell’art.16 della legge sulla stampa n.47/48. La decisione del Tribunale di Modica si basa sull’equiparazione tra carta stampata ed editoria on-line, in considerazione della regolare periodicità delle notizie pubblicate in quel blog, peraltro contraddistinto da una testata e quindi, secondo i giudici siciliani, prodotto editoriale a tutti gli effetti ex l.n.62/01. Tale sentenza mostra, però, di non tener conto della corretta interpretazione della legge n.62/01 che richiede, come si è detto, ai fini dell’assimilabilità dei prodotti on-line ai prodotti cartacei, altri requisiti come quello dell’accesso ai finanziamenti pubblici.
Esplicito su questo punto è stato il Tribunale di Como che, il 9 agosto 2010, ha disposto l’immediato dissequestro del portale www.nadirpress.net, sottoposto a quel provvedimento «per aver intrapreso la pubblicazione di un giornale quotidiano (da considerarsi prodotto editoriale) senza eseguire la registrazione prescritta dall’articolo 5 della legge 8 febbraio 1948» e, richiamando il d.lgs.n.70/2003 («la registrazione della testata editoriale telematica è obbligatoria esclusivamente per le attività per le quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle provvidenze previste dalla legge 7 marzo 2001, n.62»), ha precisato che un sito Internet dalle caratteristiche di un quotidiano on-line non ha obbligo di registrazione in tribunale se non intende avvalersi dei contributi pubblici .
Tra i problemi interpretativi e applicativi più spinosi in materia di informazione on-line, vanno menzionati quelli relativi all’identificazione del luogo della pubblicazione, che, ex art.2 l.47/48, va obbligatoriamente indicato sullo stampato, e all’indicazione del nome e del domicilio dello stampatore .

La diffamazione on-line
Il dilagare dell’utilizzazione di Internet e il carattere tendenzialmente ubiquo e deterritorializzato dell’ambiente virtuale (non a caso Borges definisce la rete «una sfera infinita, il cui centro sta dappertutto e la cui circonferenza in nessun luogo») pongono crescenti problemi di regolamentazione giuridica. Urgono strumenti adeguati per governare il mare di informazioni che l’“archivio del sapere globale” tende a diffondere in modo potenzialmente illimitato.
Nell’informazione on-line, la questione del bilanciamento tra esercizio del diritto di cronaca e tutela dei diritti della personalità dei singoli si pone in maniera ancora più vischiosa, stanti le difficoltà di delimitare i confini del primo e di individuare gli strumenti per un’efficace tutela dei secondi.
Le ipotesi di equiparazione tra regole vigenti per la stampa e regole da applicare al giornalismo in Internet richiamano la necessità di assicurare criteri di individuazione molto puntuali per quanto riguarda
i reati commissibili in rete, in particolare per ciò che attiene alla determinazione del tempus e del locus commissi delicti, in relazione alle modalità della condotta ritenuta lesiva dell’onore e della reputazione dei soggetti coinvolti.
La caratterizzazione transnazionale di Internet rende, infatti, problematica la collocazione spazio-temporale del fatto penalmente illecito. Per quanto riguarda la diffamazione, al fine di stabilire il tribunale competente a giudicare dell’ipotesi di reato, occorre rifarsi ai più recenti orientamenti giurisprudenziali.
La Corte di Cassazione, per quanto attiene alla diffamazione a mezzo stampa, ritiene che sia competente, alternativamente, «il giudice del luogo ove il quotidiano è stampato e dove la notizia diviene per la prima volta pubblica e perciò idonea a pregiudicare l’altrui diritto (forum commissi delicti), ovvero il giudice del luogo ove il danneggiante ha la residenza o il domicilio (forum destinatae solutionis), essendo l’obbligazione da fatto illecito un debito di valore il cui adempimento, come si è visto, va effettuato al domicilio che il debitore aveva al tempo della scadenza» .
Quanto alla diffamazione radiotelevisiva, «con riferimento al forum commissi delicti (luogo in cui è sorta l’obbligazione risarcitoria), a norma dell’art. 20 del c.p.c., viene ritenuto competente il giudice della località dove sono situati gli studi televisivi nei quali è stato realizzato e diffuso il programma televisivo, poiché è in tale luogo e in tale momento che la notizia diviene pubblica e perciò idonea a pregiudicare l’altrui diritto, e si concretizza così l’illecito nella sua interezza (Cassazione, sentenza 9369/ 2000)» .
E in materia di diffamazione on-line , a quali conclusioni è sino a oggi giunta la giurisprudenza?
Già l’11 dicembre 1997, con un’ordinanza, il Tribunale di Teramo emanò un provvedimento cautelare con il quale accoglieva la richiesta del Monte dei Paschi di Siena di inibire, in via d’urgenza, l’ulteriore diffusione su un sito Internet di notizie lesive dell’onore, del decoro e della reputazione della banca. Il Tribunale, in quella circostanza, rilevò il fatto che sul sito Internet erano state diffuse notizie incomplete riguardanti l’accertamento giudiziario di una truffa contestata alla banca. «In particolare, spiega l’avv. Annarita Gili, esperta di diritto delle nuove tecnologie, le notizie, gli stralci di articoli o i titoli di quotidiani riguardanti la vicenda, secondo il Tribunale, erano stati organizzati e accostati in modo suggestivo, anche grazie all’uso di accorgimenti grafici ed espositivi, per dimostrare che la banca, avvalendosi dei suoi funzionari, aveva operato una truffa ai danni dell’utente di Internet autore delle inserzioni sul sito. Al tempo stesso, però, venivano omesse le notizie relative all’avvenuta emissione di tre decreti di archiviazione del procedimento avviato nei confronti della banca» .
La parte resistente sosteneva, invece, che quanto divulgato rientrasse nel diritto costituzionale di libera manifestazione del pensiero. Il Tribunale di Teramo affermò che la verità dei fatti era stata alterata e che era stato commesso un abuso del diritto di manifestare il proprio pensiero e del diritto di cronaca, tale da compromettere gravemente la reputazione della banca ricorrente. Pertanto, era configurabile il delitto di diffamazione, tutelabile separatamente in sede penale.
Nell’ordinanza, il Tribunale di Teramo sottolineò che l’abuso del diritto di cronaca era sanzionabile anche se commesso con il mezzo Internet, dal momento che il mezzo utilizzato non modificava l’essenza dell’illecito commesso.
«Ancora una volta, perciò – scrive la Gili – è stato affermato il principio secondo il quale le questioni giuridiche riguardanti Internet devono essere regolate applicando il diritto vigente in settori analoghi, premessi, se necessari, gli opportuni adattamenti alle peculiarità della Rete. Pertanto, anche su Internet valgono le regole codificate dalla giurisprudenza per delimitare l’ambito di legittimità del diritto di cronaca, superato il quale si integrano gli estremi del delitto di diffamazione: la notizia diffusa deve essere vera o, almeno, seriamente accertata; deve esistere un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti diffusi, da valutare in relazione alla rilevanza degli stessi per la collettività e per la formazione dell’opinione pubblica.
L’esposizione dei fatti e la loro valutazione, infine, deve avvenire con “forma civile”, senza eccedere rispetto allo scopo informativo perseguito e mantenendo obiettività; vanno, quindi, evitati i sottintesi e le mezze frasi, i toni offensivi, così come quelli sproporzionatamente scandalizzati o sdegnati, gli attacchi personali, ecc.» .
Il 2 maggio 1998 il Tribunale di Vicenza ha trattato un caso di diffamazione a mezzo Internet come se si trattasse di un reato a mezzo stampa, trasmettendo gli atti alla magistratura di Bologna, città dove opera il server che ha diffuso la notizia incriminata e che nel ’98 era stato anche sequestrato dalla Procura vicentina.
Imputato nel procedimento era un cittadino vicentino, attivista di Spartakus, movimento di estrema sinistra, che tramite Internet aveva invitato a boicottare il turismo in Turchia per protestare contro la persecuzione dell’opposizione curda e turca. In particolare, il messaggio di posta elettronica, inviato dal personal computer di Carta e pubblicato dal server bolognese, attaccava un tour operator turco, Turban, collegandolo al nome dell’ex premier Tansu Ciller, citata come «ispiratrice degli squadroni della morte che hanno provocato la morte di centinaia di oppositori, kurdi e turchi».
L’autore del messaggio aveva invitato anche a boicottare le agenzie di viaggi che offrivano i tour della “TurbanItalia”, società giuridicamente distinta dalla Turban e costituitasi in giudizio per tutelare la propria immagine.
Ma, come detto, l’orientamento della magistratura non è sempre stato univoco. Ad esempio, il giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Oristano, nella sentenza del 6 giugno 2000, ha escluso l’estensibilità per via analogica a Internet delle norme sulla diffamazione a mezzo stampa. Nelle considerazioni dei giudici sardi, si sottolineano gli elementi di specificità dell’informazione on-line, a partire dalla definizione di stampato, contenuta all’art. 1 della l. 47/48, considerata del tutto incompatibile «con la modalità di diffusione delle pubblicazioni a mezzo Internet, che avvengono, com’è noto, attraverso la collocazione di dati e informazioni trasmessi per via telematica tramite l’utilizzo della rete telefonica, al server di un cosiddetto provider o webmaster, accessibile a migliaia di utenti contemporaneamente, presso il quale le informazioni restano a disposizione nei diversi siti in modo tale che ciascun interessato può leggerle e conservarle mediante il proprio computer».
Il Tribunale di Oristano ha considerato pertanto inapplicabili al caso di specie sia l’art. 13 della legge 47/48, riguardante la diffamazione a mezzo stampa, sia l’art. 30 comma 4 della legge 223/90, che estende il regime sanzionatorio previsto dall’art. 13 l. 47/48 ai soggetti indicati nel comma 1 dello stesso art. 30 della legge 223/90, vale a dire concessionari pubblici e privati e loro delegati. La conseguenza di ciò è stata l’espunzione dai capi d’imputazione dei riferimenti agli artt. 13 l. 47/48 e 30, l. 223/90 e la qualificazione del fatto in questione come diffamazione aggravata, poiché recata con un mezzo di pubblicità assimilato alla diffamazione a mezzo stampa dall’art. 595 c.p. terzo comma.
La sentenza, ed è qui l’aspetto curioso della vicenda, afferma a chiare lettere che Internet rientra negli «altri mezzi di pubblicità» cui si riferisce il terzo comma dell’art. 595 c.p. e che, perciò, tale aggravante è pienamente applicabile all’universo telematico.
«Da ciò – scrive l’avv. Daniele Minotti, esperto di diritto penale dell’informatica, – consegue che l’esclusione dello speciale regime della diffamazione a mezzo stampa non comporta, automaticamente, il venir meno di altre responsabilità (penali, nel nostro caso) in capo all’autore di un brano diffamatorio» . La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza, sez. III civ., dell’8 maggio 2002, n. 6591, emessa all’esito di un procedimento di regolamento di competenza, ha stabilito che è competente il giudice del luogo in cui ha il domicilio la parte che assume di aver subito danni patrimoniali e morali (in altre parole la parte offesa), così risolvendo (almeno nomofilicamente) il problema del giudice competente in tema di diffamazione on-line .
Se l’inapplicabilità per via analogica a Internet delle norme sulla diffamazione a mezzo stampa viene considerata da molti studiosi un principio indiscutibile , c’è anche chi ritiene che le forme di pubblicazione di notizie via Internet non debbano sottrarsi al regime sanzionatorio della l. 47/48 e che «la rete non può essere non considerata elemento qualificante di comunicazione, al pari del giornale scritto o dei media radio-televisivi», perché altrimenti si creerebbe «una impunità inaccettabile», visto e considerato che il mezzo Internet «per quanto diverso dagli altri media, per la propria evoluzione tecnologica, può venir tranquillamente assimilato a tutti gli altri» .
Sulla configurazione giuridica dei reati comuni come la diffamazione, quando essi trovino nella rete il luogo o lo strumento di comunicazione, la giurisprudenza sembra comunque costantemente in evoluzione. Provano a mettere ordine nella materia Giovanni Comandè e Salvatore Sica: «L’ipotesi di reato, di cui all’art. 595 c.p., è astrattamente configurabile anche rispetto a Internet; del pari, possono ricorrere le distinte tipologie del comma 1, art. cit. (offesa arrecata “comunicando con più persone”) e del comma 3 (offesa realizzata “con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”). Invero, la prima è integrata dalla messa in circolazione di materiale offensivo tramite e-mail, mailing list o chat room; la seconda dalla diffusione tramite web o newsgroup (). All’argomento non è estraneo il profilo dell’estensione al mezzo telematico della disciplina sulla stampa. (…). L’orientamento di fondo, salva l’analisi del contenuto in questa sede non attuabile, è nel senso di ricomprendere nell’art. 596 c.p. “ogni altro mezzo di diffusione” dell’offesa, incluse le “trasmissioni informatiche o telematiche”. Del resto, il Garante per la protezione dei dati personali, con provvedimento del 30 ottobre 2000, ha precisato che, al di là della disciplina sulla privacy, per le offese via web occorre far ricorso alle disposizioni ordinarie per la tutela penale e civile dell’onore, della reputazione e così via» .
Il provvedimento del Garante per la privacy al quale fanno riferimento i due studiosi riguarda il caso di un uomo che aveva lamentato la diffusione, su un sito Internet, di un comunicato a lui dedicato, comprensivo di notizie ritenute non veritiere o offensive, e che coinvolgeva anche altre persone estranee alla sua sfera professionale. L’interessato aveva chiesto di bloccare la diffusione delle informazioni, ma il Garante ha sottolineato che la normativa sulla privacy e il Codice di deontologia per l’attività giornalistica, che tutelano la riservatezza, l’identità e la dignità personale, si riferiscono al trattamento lecito e corretto dei dati, e che pertanto non è possibile «il ricorso alla legge sulla privacy rispetto alla diffusione di informazioni puramente denigratorie o diffamatorie, per le quali sono comunque previste altre forme di tutela dal codice civile e da quello penale» .
Quanto alla competenza nelle cause per diffamazione via Internet, vanno segnalate due sentenze, entrambe del 2000, che hanno tentato di fare chiarezza su questo punto. La prima, quella pronunciata dalla seconda sezione civile del Tribunale di Lecce il 16 novembre 2000, ha stabilito che la competenza territoriale spetta al giudice civile del luogo dove si trova il server presso il quale vengono scaricate le pagine che compongono il sito contenente le dichiarazioni diffamanti. Questo il passaggio chiave della sentenza: «Anche se la diffusività e la pervasività di Internet sono lontanamente paragonabili a quella della stampa ovvero delle trasmissioni radiotelevisive, non ci si può discostare dal riferimento al “criterio oggettivo unico” (analogo al luogo di stampa del quotidiano o dello stabilimento della produzione televisiva); e allora il giudice del luogo ove la notizia diviene per la prima volta pubblica e perciò idonea a pregiudicare l’altrui diritto (forum commissi delicti) si identifica nel luogo dove si trova il server sul quale sono caricate le pagine che compongono il sito contenente le dichiarazioni diffamanti. (…). Per quanto sussista una forte presunzione che il news server sia allocato in Roma, presso la sede della Pantheon, in assenza di prove certe al riguardo, non rimane che radicare la competenza presso il forum destinatae solutionis, id est il foro del luogo di residenza del danneggiante, unico luogo certo e ben individuabile a priori» ().
Tale criterio di individuazione del foro competente è apparso ragionevole, tenuto conto che la notizia diviene pubblica per la prima volta nel luogo dove si trova il server, senza peraltro sottacere «le difficoltà, anche pratiche, di determinazione della collocazione territoriale del server e del frequente utilizzo di supporti informatici esteri». Peraltro, occorre tenere altresì in debita considerazione le ripercussioni del messaggio denigratorio e quindi il profilo del danno. «Se nella responsabilità aquiliana – scrive Sacchettini – l’obbligazione sorge nel luogo in cui il fatto produttivo di danno si verifica, e nella nozione di fatto rientra, oltre al comportamento illecito, anche l’evento dannoso che ne deriva, qualora i due luoghi non coincidano, il forum delicti ex art. 20 del c.p.c. deve essere identificato con riguardo al luogo in cui è avvenuto l’evento dannoso (Cassazione, sentenze nn. 2648/69, 570/76, 9635/87 e 5625/89): proprio su tali basi tale luogo è stato ritenuto coincidere con la sede dell’impresa che lamentava una contrazione delle proprie vendite come conseguenza di denigrazione del suo prodotto avvenuta nel corso di una trasmissione televisiva effettuata in una diversa località (Cassazione, sentenza n. 6381/91)».
In un’altra sentenza, la n. 4741 del 27 dicembre 2000, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha allargato le possibilità di intervento su Internet del magistrato italiano anche al caso in cui l’immissione nel web di immagini o frasi lesive della dignità e dell’onore di un cittadino italiano avvenga all’estero.
Nel campo della giurisprudenza telematica e in particolare dell’ “e-diffamazione”, cioè della lesione della dignità di un individuo attraverso Internet, vista la carenza di normative specifiche, il margine di discrezionalità del magistrato rimane comunque ampio.
Nel caso specifico, sia il Giudice per le indagini preliminari che il Tribunale per il riesame non avevano ritenuto di poter confermare il sequestro preventivo di alcuni siti stranieri, disposto dal Pubblico ministero di Genova, contenenti scritti offensivi e immagini denigratorie ai danni di un cittadino genovese.
I magistrati di merito avevano considerato il reato di diffamazione un reato di condotta e pertanto ne avevano dedotto che, nel caso di diffamazione a mezzo Internet, se la diffusione dell’informazione lesiva della dignità di un soggetto era avvenuta fuori dai confini dello Stato italiano, anche la consumazione del reato doveva ritenersi avvenuta all’estero. Sulla base di tale ordine concettuale, se l’immissione in rete dei dati diffamatori si verifica in un paese straniero, il reato si perfeziona proprio in quel paese e proprio in quel paese può essere avviata l’azione legale. In questo modo, viene negata l’esistenza di una potestà punitiva dello Stato italiano.
Ma la Cassazione, nella sentenza n. 4741 non ha condiviso tale impostazione, anzi l’ha sostanzialmente ribaltata. Anzitutto ha considerato la diffamazione on-line un reato di evento, e non di condotta. In particolare, ha sottolineato l’importanza dell’evento psicologico, consistente nella percezione, da parte del terzo, della espressione offensiva e, di conseguenza, ha individuato il momento consumativo del reato, non nella diffusione del messaggio diffamatorio, ma nella sua percezione da parte dei terzi.
Se un soggetto diverso dall’agente o dalla persona offesa clicca sul sito incriminato e visualizza il contenuto diffamatorio, si realizza l’evento psicologico del reato. Ed è sulla base di quest’assunto che i magistrati della Cassazione hanno ritenuto applicabile, al caso di specie, il secondo comma dell’art. 6 del codice penale, in base al quale il reato si considera commesso nel territorio italiano, non solo «quando su di esso si sia verificata, in tutto o in parte, l’azione o l’omissione», ma pure quando su di esso si realizzi «l’evento che ne è conseguenza». Esiste, in altri termini, la possibilità, per la magistratura italiana, di perseguire i delitti contro l’onore, anche quando l’iter criminis sia iniziato all’estero per mezzo di un sito Internet straniero, ma poi si sia concluso (con l’evento) nel nostro Paese.
Riassumendo, secondo i giudici di merito, che avevano inquadrato l’“e-diffamazione” come reato di condotta, «se la diffusione è avvenuta fuori dai confini dello Stato italiano, anche la consumazione deve ritenersi avvenuta all’estero, perché la diffamazione si consuma (…) nel momento in cui si verifica la diffusione della manifestazione offensiva diretta a più persone e, in caso di manifestazione separata, alla seconda persona».
Nelle valutazioni della Cassazione, invece, «la diffamazione è un reato di evento, inteso quest’ultimo come avvenimento esterno all’agente e causalmente collegato al comportamento di costui» e tale reato «si consuma non al momento della diffusione del messaggio offensivo, ma al momento della percezione dello stesso da parte di soggetti che siano “terzi” rispetto all’agente e alla persona offesa».
Tale posizione della Corte di Cassazione, peraltro sostanzialmente confermata nella sentenza della quinta sezione penale n.25875 del 25 luglio 2006, è apparsa a taluno più «un tentativo di porre rimedio alla situazione di sostanziale anarchia, particolarmente evidente in ambito penalistico, del cosiddetto cyberspazio», tanto che per il futuro potrebbe sembrare opportuno «introdurre una norma che, analogamente a quanto stabilito per i reati commessi via etere dall’art. 30, comma 5, l. 6.8.1990, n. 223, radichi la competenza con riferimento al foro di residenza della persona offesa» .
In un’altra sentenza, la n. 6591 dell’8 maggio 2002, la terza sezione civile della Cassazione ha dettato le regole sui danni, morali e patrimoniali, della diffamazione on-line e ha stabilito che su questi, provocati da un’offesa lanciata in rete, deve decidere il giudice del luogo in cui la vittima è domiciliata. Pertanto, «in tema di risarcimento del danno extracontrattuale, patrimoniale e morale, per lesione del diritto alla reputazione di una persona giuridica, compiuta mediante l’inserimento nella rete telematica (Internet), attraverso un newsgroup, di frasi offensive, il forum commissi delicti, ai fini dell’individuazione del giudice territorialmente competente a decidere la causa a norma dell’art. 20 c.p.c., va individuato nel luogo di verificazione dei lamentati danni in conseguenza dell’evento diffamatorio, e quindi coincide con il luogo in cui il soggetto offeso ha il proprio domicilio, atteso che, essendo il domicilio la sede principale degli affari e degli interessi, esso rappresenta il luogo in cui si realizzano le ricadute negative dell’offesa alla reputazione».
Anche la sentenza n.49437 del 29 settembre-23 dicembre 2009 della terza sezione penale della Cassazione ha affermato la rilevanza del luogo di percezione dell’offesa.
Su un altro versante, quello del trattamento da riservare all’editoria on-line, la conferma di un orientamento giurisprudenziale non univoco si può agevolmente ricavare da una sentenza della Corte d’Appello di Roma, che l’11 gennaio 2001 si è pronunciata su un caso di diffamazione via Internet, negando la possibilità di estendere in malam partem all’edizione telematica del quotidiano “La Repubblica” le responsabilità previste dalla legge penale per il direttore responsabile dell’edizione cartacea. Si legge, infatti, nel provvedimento, che è «impossibile estendere la qualifica di direttore responsabile del quotidiano “La Repubblica” anche al notiziario telematico “La Repubblica.it”, perché non costituente stampato e non assoggettato a registrazione» ().
Ma per completezza di trattazione, va annoverata anche l’ipotesi in cui in Italia si registrino gli effetti negativi di una condotta non costituente reato nello Stato in cui si è realizzata. In questi casi, come si può punire un soggetto che ha agito nel pieno rispetto delle leggi vigenti nel suo Paese, pur avendo la sua condotta arrecato un danno a un cittadino di un altro Stato?
Dalla giurisprudenza nostrana non ci arriva alcuna illuminazione. Bisogna fare invece riferimento alle decisioni prese dai giudici d’oltreconfine, soprattutto quelli americani.
«Attualmente – scrive Paolo Galdieri – il criterio più utilizzato dalle Corti americane è quello del minimum contact, ossia del contatto telematico minimo idoneo a radicare la giurisdizione di uno Stato su una condotta realizzata all’estero da un soggetto ivi residente. Tale criterio, utilizzato talvolta in modi differenti, si è venuto via via uniformando al punto da richiedere per la sua sussistenza la verifica dei seguenti requisiti: 1) quantità dei contatti del soggetto agente; 2) natura e qualità dei contatti medesimi; 3) connessione tra la causa dell’azione e i contatti; 4) interessi dello Stato nell’affermare il foro di competenza; 5) convenienza delle parti.
Altro criterio sperimentale elaborato dalle Corti suddette è quello del the most significant interest, secondo cui, per affermare la giurisdizione di uno Stato sulla condotta realizzata all’estero occorre verificare la prevalenza dell’interesse a prevenire un dato reato rispetto all’interesse del Paese da cui si muove il soggetto agente a mantenere standard meno severi di valutazione rispetto al medesimo comportamento. Prescindendo da valutazioni di ordine giuridico sull’operatività di tali principi nel nostro Paese, valutazioni che ci porterebbero ad affrontare tematiche eccessivamente complesse, è agevole, comunque, rilevare come tali criteri possano essere considerati iniqui, visto che determinano l’affermazione di una responsabilità penale da parte di un soggetto che ha rispettato la propria legge.
D’altra parte, la natura stessa delle reti telematiche produce altre situazioni paradossali, quale, ad es., quella che si verifica quando un reato commesso in rete determina eventi antigiuridici simultaneamente in più Paesi dotati di legislazioni penali differenti. In casi come questi, non vigendo il principio del ne bis in idem in ambito internazionale, lo stesso soggetto potrebbe essere chiamato a rispondere del medesimo reato di fronte ad autorità giudiziarie appartenenti a Stati diversi» .
Tra le decisioni delle corti americane, dobbiamo altresì annoverare quella di un tribunale della California, che ha dichiarato un legittimo diritto quello di esprimere le proprie opinioni nelle chat-room, anche se si tratta di giudizi negativi. Tale principio discende dal primo emendamento della Costituzione americana ed è stato ribadito dai giudici californiani il 23 febbraio 2001. Nel caso di specie, due investitori telematici erano stati citati in giudizio dalla “Global Telemedia International”, un’azienda di software, per aver espresso, in una chat-room, commenti molto negativi sull’azienda, tanto da essere stati accusati di diffamazione. Ma i giudici californiani hanno dichiarato non colpevoli i due investitori poiché essi, nell’esprimere le loro opinioni, seppur negative, avevano esercitato un loro legittimo diritto. Il tribunale ha inoltre negato che quelle dichiarazioni potessero integrare gli estremi del reato di diffamazione, poiché tra l’azienda e i due uomini non c’era un rapporto di competizione, e perché i pareri negativi, espressi sull’azienda da due investitori in un contesto libero come quello delle chat-room, rappresentavano opinioni personali e non costituivano una divulgazione di informazioni false.
Questi riferimenti alla giurisprudenza delle corti statunitensi dilatano ulteriormente i confini della nostra analisi, ponendo sul tappeto la necessità di uniformare per quanto possibile le legislazioni dei diversi Stati in materia di reati informatici, o, addirittura, di dar vita a un codice penale internazionale di Internet osservato da tutta la comunità delle nazioni, proprio al fine di evitare macroscopiche diversità di trattamento, direttamente incidenti sul godimento dei diritti di libertà, in particolare di quello di manifestare liberamente il proprio pensiero anche attraverso il mezzo telematico.
Un importante elemento di riflessione giunge infine da una sentenza del Tribunale di Parigi, del 6 dicembre 2000, relativa ai tempi di prescrizione del reato di diffamazione on-line. In base a tale decisione, chiunque può querelare via Internet anche a distanza di anni, mentre la prescrizione del reato di diffamazione su carta stampata per legge scatta dopo tre mesi.
Secondo i giudici francesi, la pubblicazione di testi in rete è “un atto continuo”, come se ogni giorno quei testi venissero ripubblicati, rendendo in questo modo gli autori teoricamente perseguibili in qualsiasi momento dal punto di vista penale. La pronuncia del Tribunale di Parigi è intervenuta a seguito di una querela sporta da Carl Lang, esponente del Fronte Nazionale francese, che ha citato in giudizio per diffamazione l’associazione “Réseau Voltaire”, colpevole di aver pubblicato su Internet un articolo contenente accuse diffamatorie sul suo conto.
Nonostante la querela avesse superato il termine di presentazione di tre mesi, il giudice ha dato ragione a Lang. La sentenza è stata salutata con preoccupazione dai giornalisti del web, che ora rischiano una pioggia di querele a loro carico e temono di vedersi querelati fra dieci anni per un articolo apparso su Internet oggi. In altre parole, il giudice transalpino ha di fatto creato la figura del reato di diffamazione imprescrittibile in funzione del mezzo (Internet) con il quale è stato commesso.
Nel segno di una completa equiparazione tra informazione fatta sui tradizionali mezzi di stampa (radio, tv e carta stampata) e Internet, la Corte Suprema dello Stato di New York (giudice Paula Omansky), ha statuito che la tutela giuridica del giornalismo on-line è da considerare alla stregua di quella radiotelevisiva e della stampa. La sentenza in questione, del dicembre 2001, riguarda il caso National Bank of Mexico (Banamex)-Al Giordano, direttore di Narconews.com. Quest’ultimo, seguendo un’inchiesta della Dea, collegava alcuni canali finanziari del narcotraffico sudamericano a Banamex. L’ufficio legale di quella banca lo citava in giudizio per diffamazione. Secondo la sentenza, il direttore di Narconews.com, alla stregua di qualsiasi altro giornalista, non può essere incriminato per diffamazione, a meno che non si rintracci nel suo operato un’esplicita volontà di ledere il buon nome di alcuno.
Tornando all’Italia, è significativa l’evoluzione giurisprudenziale in materia di diffamazione mediante blog.
Con la sentenza n. 553, pronunciata il 26 maggio 2006, il Tribunale di Aosta, condannò per diffamazione e per omesso controllo Roberto Mancini, un giornalista che gestisce un blog. Il titolare di un diario via Internet, secondo quei giudici di primo grado, è equiparabile giuridicamente al direttore responsabile di una testata giornalistica in quanto soggetto che ha in disponibilità la gestione del medium.
Il giudice monocratico di Aosta sostenne che la posizione del direttore responsabile di una testata cartacea e quella di chi gestisce un blog (e che può cancellare messaggi) è – mutatis mutandis – identica, anche se la coincidenza di figure non viene formalizzata abitualmente dal punto di vista semantico. Va da sé che il gestore di un web log ha il totale controllo di quanto viene postato e, allo stesso modo di un direttore responsabile, ha il dovere di eliminare gli interventi offensivi, anche se pubblicati in forma anonima, altrimenti ne risponde in sede legale. Questa sentenza è stata riformata, il 23 aprile 2010, dalla Corte d’appello di Torino, che ha negato l’equiparabilità della figura del gestore di un blog a quella del direttore di un giornale cartaceo e ha condannato Mancini alla pena pecuniaria di mille euro per diffamazione, sollevandolo dall’accusa di omesso controllo, poiché tutti i post che non sono scritti dal gestore del blog devono essere considerati anonimi.
Responsabile di omesso controllo ex art.57 c.p. è stato dichiarato il direttore responsabile del sito www.fiorentina.it, nel quale erano comparsi commenti ritenuti diffamatori nei confronti dell’allora sindaco di Firenze, Leonardo Domenici. Si legge nella sentenza n.982 del 13 febbraio 2009 del Tribunale di Firenze: «Se il direttore responsabile, la cui attività consiste in una supervisione per impedire che vengano commessi reati, avesse esaminato o controllato e verificato i fatti oggetto della narrazione, avrebbe potuto evitare la diffamazione: è pacifico che fra i compiti propri del direttore responsabile di un periodico, anche se on-line, si annovera, innanzitutto, quello di verificare la certezza della notizia e, quindi, di impartire disposizioni affinchè sia accertata la sua attendibilità».
La sentenza n.35511 del 16 luglio 2010 della quinta sezione penale della Cassazione ha chiaramente escluso l’applicabilità ai giornali telematici (nel caso di specie al giornale “Merate on-line”)del dettato dell’art.57 c.p., che punisce il direttore del giornale che colposamente non impedisca che vengano commessi reati “con il mezzo della pubblicazione”. Tuttavia, qualcuno, nel commentare quella sentenza, non ha mancato di rilevare che «il direttore (Carlo Brambilla, n.d.r.) non è stato assolto dal reato di omesso controllo su quanto scritto sul sito da un giornalista nel contesto dell’attività editoriale, ma solo dall’omesso controllo e (si suppone) censura nei confronti di un lettore che aveva mandato una lettera alla testata (ritenuta diffamatoria nei confronti dell’ex ministro della Giustizia, Roberto Castelli, n.d.r.), lettera poi pubblicata dalla testata telematica e che avrebbe avuto carattere diffamatorio e in questo senso la Cassazione ha equiparato il direttore della testata a un blogger o al moderatore di un forum che non interviene sui commenti postati da terzi e non può esserne considerato responsabile» (). La quinta sezione penale della Cassazione, nella sentenza n.35511 si spinge anche oltre e dichiara altresì che «non sono responsabili dei reati commessi in rete gli access provider, i service provider e gli hosting provider, a meno che non fossero al corrente del contenuto criminoso del messaggio diramato» .
A ricordare che ai siti Internet e ai blog non è applicabile in via di analogia la disciplina giuridica sulla stampa aveva provveduto anche la quinta sezione penale della Cassazione nella sentenza n.24018 del 15 maggio-12 giugno 2008, stabilendo che «se a un articolo pubblicato on-line viene aggiunto un titolo e sottotitolo di contenuto diffamatorio, spetta all’autrice del singolo articolo dimostrare che tale aggiunta è stata apposta da terzi    ».
Nella sentenza n.31392 del 25 luglio 2008, la quinta sezione penale della Cassazione ha invece asserito che i requisiti della rilevanza sociale, verità obiettiva e continenza della forma espositiva, dettati dalla sentenza-decalogo n.5259 del 18 ottobre 1984, devono essere rispettati anche da chi diffonde informazioni tramite Internet. In quell’occasione, gli Ermellini hanno ricordato che la diffamazione on-line è certamente un’ipotesi di diffamazione aggravata ex art.595 c.p., comma terzo, perché commessa con altro mezzo di pubblicità rispetto alla stampa e hanno definito il giornale telematico un tertium genus tra la stampa e gli altri mezzi di pubblicità.
Nella sentenza n.17401 del 29 aprile 2008, la quinta sezione penale della Cassazione ha dichiarato lecito il sequestro preventivo (mediante oscuramento) di un sito che ospitava un attacco giudicato denigratorio, al fine di evitare conseguenze più gravi sul piano della diffamazione.
E in materia di editoria on‑line, con la sentenza n. 7155 del 24 febbraio 2011, la quinta sezione penale della Cassazione apre un nuovo fronte di riflessione, ammettendo la possibilità di sequestrare in via preventiva un articolo pubblicato sul blog di un sito Internet in caso di sospetta diffamazione. Nel caso di specie, secondo i giudici del Palazzaccio, in ragione della permanenza in Rete dell’articolo si sarebbe verificato l’aggravamento delle conseguenze del reato. La misura cautelare del sequestro preventivo on‑line si giustificherebbe, dunque, nell’ottica di un bilanciamento tra libertà d’espressione e altri diritti di uguale dignità costituzionale.
Il primo caso di condanna per diffamazione a mezzo Facebook, noto social network, è stato affrontato dal Tribunale di Monza nella sentenza n.770 del 2 marzo 2010 .
Quanto, infine, all’identificazione del colpevole di diffamazione on-line, una recente sentenza della quinta sezione penale della Cassazione (n. 8824 del 7 marzo 2011) ha chiarito che essa può avvenire senza dubbi attraverso l’indirizzo IP, che ha un po’ la stessa funzione delle impronte digitali. Nel caso di specie, è stato condannato un politico locale che si serviva di un nickname su un forum on-line per rivolgere insulti e invettive contro una famiglia del posto.

3. La responsabilità dell’Internet service provider (Isp): il panorama internazionale
Le considerazioni sin qui svolte a proposito dell’editoria on-line evidenziano le difficoltà innegabili che gli studiosi del diritto incontrano nell’individuare e differenziare le responsabilità di coloro che agiscono in rete.
La varietà dei ruoli e la diversità delle categorie di soggetti che operano sulla rete non ha sin qui trovato una formalizzazione giuridica puntuale e riconducibile alla tipizzazione di condotte come “distribuire”, “divulgare”, “pubblicizzare”, “detenere”, “procurare ad altri”, “confezionare”, “elaborare” informazioni.
«Non è chiaro, infatti – spiega il prof. Sergio Seminara, ordinario di diritto penale presso la facoltà di giurisprudenza di Pavia, – se come responsabili della distribuzione, divulgazione, pubblicizzazione, detenzione o cessione a terzi debbano intendersi esclusivamente gli autori materiali della immissione in rete dei dati illeciti (c.d. content providers o produttori di contenuti sotto forma di testi, immagini o suoni), ovvero anche i proprietari di infrastrutture di telecomunicazione (c.d. network providers), i fornitori di accessi (c.d. access providers, i quali offrono l’accesso in rete e la facoltà di utilizzare funzioni come il web e l’e-mail) e i fornitori di servizi (c.d. service providers, i quali si rivolgono all’utente finale consentendogli il collegamento a
Internet e a suoi ulteriori servizi come ad esempio i news-servers). (…). Come si vede, la tranquillizzante e ricorrente affermazione secondo cui ciò che è illegale off-line lo è anche on-line – onde un reato non cessa di essere tale se commesso su Internet e dunque la rete delle reti non è uno spazio libero dal diritto – risulta provvista di una portata esplicativa assai modesta: anche senza indugiare sulla difficoltà di individuare la giurisdizione nazionale competente ad agire, quell’affermazione concerne infatti esclusivamente la punibilità del c.d. produttore di contenuti, mentre tace del tutto rispetto alla posizione degli altri soggetti operanti su Internet».
Le enormi potenzialità diffusive di Internet, strumento che consente di inviare messaggi, immagini, filmati e ogni altro tipo di comunicazione all’interno di pagine web, chat line, mailing lists, newsgroups, ecc., ampliano la gamma dei possibili illeciti fino a ricomprendere fattispecie assai diverse tra loro. Si spazia, infatti, dalla violazione delle norme sul diritto d’autore alla lesione dei diritti della personalità, in primo luogo l’onore e la reputazione (reato di diffamazione); dalla violazione delle norme sull’ordine pubblico alla violazione delle norme sul buon costume e contro lo sfruttamento sessuale dei minori; dalla violazione della privacy alla concorrenza sleale, senza dimenticare la violazione delle norme sulla protezione dei marchi e dei brevetti.
Un esame approfondito di tutte queste fattispecie ci farebbe debordare dai confini della nostra analisi, che invece si volgerà prevalentemente alla configurabilità, in via generale, di una responsabilità dell’Isp (acronimo di Internet service provider).
Diciamo subito che la responsabilità dell’Isp può essere riconducibile a tre figure: quella della responsabilità come autore del reato; quella della responsabilità concorsuale e quella dell’omissione del controllo finalizzato all’impedimento di eventi illeciti.
Siamo nella prima figura quando l’Isp divulga in rete i contenuti illeciti, mettendo a disposizione degli utenti del servizio i dati che manipola come moderatore di un newsgroup o di una mailing list.
La responsabilità concorsuale si ha invece quando sia dimostrabile che l’Isp abbia consapevolmente fornito l’accesso a dati illeciti da altri immessi in rete, rendendosi quindi complice di un reato commesso per via telematica.
Infine, siamo nella terza figura, quella della responsabilità a titolo di colpa per omesso controllo, tutte le volte che l’Isp non impedisce l’evento illecito, poiché non controlla la liceità dei contenuti immessi dall’esterno sul server da lui gestito. Questa terza figura è simile a quella ricavabile dall’art. 57 c.p. (responsabilità del direttore o vicedirettore responsabile di uno stampato periodico).
Ma prima di delimitare i confini della responsabilità dell’Isp occorre focalizzare gli scopi di tale tentativo: da una parte, quello di individuare un soggetto responsabile delle violazioni commesse da un qualsiasi utente sul suo server; dall’altra, quello di ancorare il giudizio di responsabilità all’accertamento di una colpa dell’autore dell’illecito.
«Da un lato – scrive l’avv. e docente di diritto commerciale L. Bugiolacchi – la diffusività del mezzo comunicativo e la sua facile accessibilità rendono agevole la produzione, anche frequente, di lesioni molto gravi delle altrui situazioni protette ed esigono pertanto l’apprestamento di garanzie idonee a evitare che la rete si trasformi in uno spazio senza regole ove tutto è possibile in quanto è agevole restare impuniti (ed è evidente che tali esigenze facciano propendere per regimi di responsabilità che consentano agevolmente di individuare il responsabile e al tempo stesso garantiscano il risarcimento al danneggiato: responsabilità oggettiva o, comunque, aggravata dell’Isp). Dall’altro, è pure evidente che l’attribuzione agli Isp di un regime troppo gravoso di responsabilità finirebbe per inibirne o, quanto meno, ridurne l’attività con conseguenze facilmente prevedibili sullo sviluppo della rete e sulle enormi possibilità che la stessa comunque fornisce sia nel campo dei rapporti economici che in quello dello sviluppo della personalità e della libertà di manifestazione del pensiero».
Per valutare con attenzione gli ultimi orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia, è opportuno tracciare un breve quadro giuridico comparato, analizzando sia le soluzioni prospettate dagli ordinamenti di common law, sia quelle emergenti dagli ordinamenti di civil law.
USA. Partiamo dalla “culla” di Internet, vale a dire la realtà statunitense.
Negli Stati Uniti esistono tre figure di responsabilità: a) quella diretta di un soggetto, conseguente alla violazione compiuta per fatto proprio (direct liability), assimilabile all’ipotesi prevista dall’art. 2043 del codice civile italiano; b) quella indiretta o vicaria di un soggetto che dispone di poteri di controllo sull’attività posta in essere dall’autore materiale della condotta produttiva di danno (vicarious liability), assimilabile all’ipotesi prevista dall’art. 2049 del codice civile italiano (responsabilità del padrone o del committente); c) quella da concorso colposo (contributory liability), che si ha quando il soggetto responsabile, pur non essendo il diretto esecutore della violazione, contribuisce in qualche modo alla sua realizzazione o ne è a conoscenza o comunque ha motivo di esserlo. Questa terza figura di responsabilità può essere assimilata a quella del concorso nella produzione dell’evento dannoso di cui all’art. 2055 del codice civile italiano.
Per quanto riguarda l’applicabilità all’Isp delle suesposte figure, l’orientamento dei giudici Usa muove nella duplice direzione di responsabilizzare sempre più l’Isp una volta che sia venuto a conoscenza dell’illecito, ma di escludere ogni obbligo di sorveglianza da parte dell’Isp sui contenuti delle informazioni registrate sul suo server. Tre decisioni delle corti americane fotografano molto efficacemente tale punto di vista. La prima (caso Cubby v. “Compuserve”, 1991) riguardava l’invio di messaggi diffamatori registrati sul server di “Compuserve” da parte di un utente.
Secondo il diritto statunitense, chiunque riproduca o pubblichi messaggi diffamatori va considerato responsabile al pari di chi li ha inizialmente espressi, ma da tale responsabilità sono esenti coloro che distribuiscono tale materiale, per esempio i giornalai o le librerie, che fungono da semplici rivenditori e non da strutture editoriali. La corte statunitense considerò “Compuserve” alla stregua di un’edicola e quindi non responsabile per la pubblicazione del materiale diffamatorio, dal momento che “Compuserve” non eseguiva alcun tipo di controllo sul materiale pubblicato in rete dai propri utenti e quindi si comportava da mero punto di distribuzione del materiale.
La seconda decisione (caso Stratton Oakmont, Inc. v. “Prodigy Services Co”, 1995) riguardava “Prodigy”, uno dei provider più importanti del mondo, che si trovò a rispondere dell’invio di materiale diffamatorio da parte di uno dei suoi utenti. “Prodigy” eseguiva diverse forme di controllo sul contenuto dei messaggi, attraverso un sistema automatico di filtraggio, affidato a Board Leaders, che avevano il compito precipuo di monitorare costantemente tutti i messaggi inviati. “Prodigy” in questa circostanza fu riconosciuto responsabile insieme ai suoi Board Leaders, al pari di un responsabile editoriale di una testata giornalistica che risponde insieme ai suoi redattori.
Infine, va segnalata la sentenza sul caso Zeran v. “American On Line” del 1997, che ha escluso la responsabilità dell’Isp per la presenza, sul proprio server, di materiale diffamatorio inviato da un utente, nonostante che l’Isp ne fosse stato informato e che gli fosse stato richiesto di eliminare il messaggio. In questa circostanza la corte statunitense sostenne che “American On Line” svolgeva il compito di distributore di informazioni e, come tale, non poteva essere considerato responsabile del carattere diffamatorio del materiale inviato, anche se ne era a conoscenza. La ratio di tale pronuncia risiedeva in una modifica del Telecommunications Act, intervenuta nel 1996, in base alla quale un Isp di un sistema interattivo non può essere considerato responsabile, al pari di un editore, delle informazioni fornite e comunicate da terzi.
Gran Bretagna. La Gran Bretagna è il paese che per primo ha definito con legge la responsabilità dell’Isp, almeno per ciò che attiene ai casi di diffamazione in rete. Nel sistema inglese si configura la responsabilità diretta per fatto proprio dell’Isp, che si atteggi come content provider.
L’Isp risponde, cioè, per le conseguenze lesive di informazioni, messaggi, contenuti in genere che non solo abbia consentito tecnicamente di diffondere, ma che abbia egli stesso immesso. Nei casi di violazione del copyright e delle norme poste a tutela dei diritti di proprietà intellettuale, si applica l’UK Copyright, Designs and Patents Act, che disciplina esplicitamente le comunicazioni televisive, ma che è stato esteso anche alle comunicazioni su rete telematica ed è stato novellato nel 1988. Il Defamation Act del 1996 disciplina invece i casi di lesione dei diritti della personalità e prende in considerazione direttamente la figura dell’Isp, che viene considerato responsabile per materiale offensivo prodotto da terzi, nel solo caso in cui esegua una qualche forma di controllo o di monitoraggio sulle comunicazioni dei propri utenti, ovvero quando si comporti come un responsabile editoriale del server di cui è titolare. In tal caso, infatti, l’ignoranza dei contenuti lesivi dipenderebbe esclusivamente da sua negligenza. Un fornitore di informazioni non può essere considerato responsabile per il contenuto di ciò che vende o diffonde se prova che, oltre a non aver partecipato alla creazione del materiale lesivo, non era a conoscenza del contenuto di detto materiale né avrebbe potuto conoscerlo tenendo un comportamento diligente. Il par. 1 del Defamation Act stabilisce, inoltre, a proposito del responsabile di un sistema informatico, che un soggetto non può essere considerato né autore né editore né responsabile editoriale se viene coinvolto nella semplice trasmissione in formato elettronico del materiale lesivo o nella gestione del sistema elettronico attraverso il quale detto materiale viene cercato, copiato, distribuito o comunque reso accessibile agli utenti.
In questi casi, l’Isp può ricorrere alla difesa della innocence dissemination, che lo equipara a un semplice fornitore di informazioni.
Germania. I tedeschi sono stati i primi a dotarsi di una disciplina organica della responsabilità degli operatori di Internet. Essa fa riferimento alla legge federale del 2 luglio 1997 sui servizi di informazione e comunicazione, entrata in vigore l’1 agosto 1997, nella quale si afferma, al paragrafo 5, che i fornitori dei servizi «sono responsabili dei materiali altrui da essi resi disponibili solo se hanno conoscenza dei loro contenuti e sia tecnicamente possibile ed esigibile impedirne la disponibilità ».
Pertanto, «il service provider può incorrere in responsabilità ricorrendo le seguenti tre situazioni: a) che sia a conoscenza della diffusione del materiale illecito mediante il proprio server; b) che abbia a disposizione gli strumenti tecnici per evitare che tale materiale venga ulteriormente diffuso; c) che ci si possa ragionevolmente attendere un suo intervento affinché la diffusione del materiale illecito venga impedita» .
Questa normativa trae spunto da una pronuncia della Corte Federale di Stoccarda, che nel 1996 sostenne l’impossibilità di far gravare sull’Isp un obbligo di controllo sul materiale inviato dai propri utenti e la configurabilità di una responsabilità dell’Isp solo nel caso in cui lo stesso fosse stato a conoscenza o avesse potuto conoscere l’esistenza del materiale lesivo.
Sulla scia della legge federale del luglio 1997 si colloca anche un decreto di archiviazione emesso il 13 febbraio 1998 dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione tedesca, relativamente a un procedimento penale che vedeva imputati numerosi Isp, accusati di agevolazione in istigazione e apologia di reati. Nel decreto di archiviazione si legge che in capo all’Isp grava un onere di controllo sulla fonte del pericolo: «Nel momento in cui i providers consentono l’accesso alla rete, essi devono essere considerati come destinatari di determinati “doveri per la sicurezza del traffico”». Tuttavia, «un concreto obbligo di agire è ipotizzabile solo quando l’agente sia consapevole delle circostanze che determinano l’insorgenza di tale obbligo ed egli abbia la possibilità di impedire la verificazione dell’evento attraverso una condotta esigibile: così, mentre un generale dovere di controllo non risulterebbe né possibile né esigibile, l’obbligo di impedire l’accesso ai materiali illeciti sussiste quando il provider abbia conoscenza che determinati contenuti punibili sono disponibili in rete».
Infine, una sentenza storica in materia è quella pronunciata il 27 maggio 1998 dal Tribunale di Monaco di Baviera, che ha condannato a due anni di carcere (con la condizionale) Felix Somm, residente in Svizzera ed ex direttore della filiale tedesca del provider americano “Compuserve”. Secondo i giudici tedeschi, in quella circostanza l’Isp aveva la possibilità tecnica per filtrare e censurare il materiale pornografico riguardante bambini e animali, e, di conseguenza, il dovere di negare l’accesso ai siti che lo contenevano .
Olanda. Esiste una norma, nel codice penale olandese, che, nei casi di diffamazione, esclude la responsabilità dell’editore se questi non ha alcun controllo sul materiale pubblicato. A partire da tale norma, la giurisprudenza olandese è orientata a limitare la responsabilità del provider, nei casi di diffamazione commessa su rete telematica, alla sola partecipazione diretta alla fattispecie criminosa.
Vanno comunque citate due sentenze storiche in materia di copyright, che investono direttamente la posizione dell’Isp. Nella prima (1995, Tribunale di Rotterdam) il provider fu riconosciuto responsabile in quanto aveva consapevolmente modificato il proprio server, consentendo il caricamento e la riproduzione di file dal proprio sito Internet. L’Isp fu riconosciuto direttamente responsabile della violazione per negligenza, in quanto avrebbe potuto e dovuto prevedere un comportamento illecito da parte dei suoi utenti.
Nella seconda (1996, Tribunale dell’Aja) si esaminò la violazione del copyright riguardante materiale appartenente alla Chiesa di Scientology, compiuta attraverso il trasferimento di file su un newsgroup. La Corte sostenne che l’Isp si era limitato a fornire agli utenti uno spazio di discussione (newsgroup), e che nessun obbligo di controllo sul materiale in rete potesse essere riconosciuto in capo al provider. Tuttavia, essa precisò che l’Isp sarebbe stato responsabile nel caso in cui si fosse trovato di fronte a una violazione “inequivocabilmente chiara” e che tale violazione fosse stata verosimilmente conosciuta dal provider stesso. Pertanto l’Isp avrebbe avuto l’obbligo di intervenire e porre in essere tutte quelle cautele necessarie affinché la violazione potesse cessare.
Francia. Il 10 febbraio 1999, per la prima volta la Corte d’Appello di Parigi ha sancito una responsabilità extracontrattuale dell’Isp per il contenuto illecito di materiali immessi nei siti da lui ospitati. Nel caso di specie, si era verificata la pubblicazione, su un sito ospitato gratuitamente e anonimamente dall’Isp, di alcune fotografie che ritraevano la nuora di una famosa rockstar francese completamente o parzialmente nuda. La danneggiata aveva chiesto la rimozione immediata delle immagini diffuse senza autorizzazione e la condanna dell’Isp al risarcimento dei danni subiti. La Corte d’Appello della capitale francese ha ritenuto responsabile l’Isp poiché «offrendo, come in questo caso, di ospitare e ospitando anonimamente nello spazio Altern.org che ha creato e che gestisce, qualsiasi persona che, con qualsiasi appellativo faccia richiesta al fine di mettere a disposizione del pubblico, segni, segnali, scritti, immagini, suoni o messaggi di qualsiasi natura che non siano corrispondenze private, eccede evidentemente il ruolo tecnico di un semplice trasmettitore di informazione e deve obbligatoriamente assumersi, nei confronti dei terzi dei quali si sarebbero violati i diritti in tali circostanze, le conseguenze di un’attività che ha deliberatamente intrapreso nelle condizioni sopra indicate e che è fonte di profitto».
In altre parole, i giudici parigini, pur non riconoscendo un obbligo di controllo dell’Isp sul contenuto dei siti, ne hanno affermato comunque una responsabilità, attribuendo valore decisivo al consenso da lui prestato al mantenimento dell’anonimato da parte dei fornitori di contenuti. L’Isp è stato perciò considerato qualcosa in più del mero trasmettitore di informazioni provenienti da altri, proprio perché l’anonimato avrebbe generato la sua responsabilità.
Successivamente, l’8 dicembre 1999, il Tribunale di Nanterre in una sentenza ha chiarito le condizioni che fanno scattare la responsabilità dell’Isp e in particolare ha disegnato i confini di tale responsabilità entro il recinto dell’obbligo generale di prudenza e diligenza. «La pronuncia merita apprezzamento – scrive Bugiolacchi – anche per il tentativo di delimitare gli esatti confini della così individuata obbligazione generale di diligenza dei provider, fornendo agli stessi operatori paradigmi cui ispirare la propria condotta. Il più generale obbligo di diligenza viene, infatti, specificato in quelli di: informazione, vigilanza e azione e il giudizio di responsabilità del provider viene a essere subordinato alla verifica del rispetto di ciascuna di tali categorie di obblighi. L’obbligo di informazione consiste nel rendere edotti i creatori dei contenuti circa l’esigenza di rispetto dei diritti dei terzi e in particolare di quelli della personalità. L’obbligo di vigilanza, lungi dal consistere in un improponibile obbligo di porre in essere una sorveglianza minuziosa e approfondita sul contenuto dei siti, viene individuato nell’apprestamento dei mezzi esigibili da un professionista diligente per eliminare dal proprio server i siti il cui carattere illecito è di tutta apparenza. (…). Con obbligo di azione deve poi intendersi, secondo la sentenza, quello di bloccare l’accesso al sito non appena pervenga la segnalazione di una lesione. (…). Con questa pronuncia, come è stato osservato dalla dottrina francese, si è passati da una fase di pericolosa irresponsabilità dei provider (precedente alla Corte di Appello di Parigi) a una di responsabilità securisante, che tenta di raggiungere un difficile equilibrio tra l’esigenza di assicurare l’individuazione di un responsabile e quella di non fra gravare sui provider obblighi effettivamente inesigibili che finirebbero per comportare in capo a essi una oggettivazione della responsabilità assolutamente non giustificabile».
Italia. Nel sistema italiano, sembra ormai acquisito il principio in base al quale non sussiste un obbligo di vigilanza del provider sui contenuti veicolati tramite i suoi siti, dal che ne consegue che l’Isp non è responsabile dei contenuti illeciti che ha solo tecnicamente permesso di far transitare in rete. L’attribuzione agli Isp di una culpa in vigilando ignorerebbe, infatti, la circostanza della tecnica impossibilità, da parte loro, di controllare il contenuto dei messaggi da diffondere attraverso i siti, visto che tale contenuto è continuamente modificabile dall’utente senza necessità di alcun apporto da parte degli stessi Isp.
Tuttavia, il percorso giurisprudenziale che ha condotto a tali conclusioni è stato tutt’altro che lineare. Gli studiosi tendono a indicare in una pronuncia del Tribunale di Roma, datata 4 luglio 1998, lo spartiacque tra una linea di attribuzione all’Isp della responsabilità per il controllo sui contenuti immessi da altri soggetti nei suoi siti, coltivata fino ad allora, e una linea di esonero dell’Isp da un obbligo di controllo sui contenuti stessi.
L’8 agosto 1996, il Tribunale di Napoli con un’ordinanza affermò la responsabilità dell’Isp «per aver autorizzato, consentito, o comunque agevolato il comportamento illecito» dell’utente creatore dei contenuti illeciti. Nel caso di specie, il giudice napoletano individuò un’ipotesi di illecito di concorrenza sleale del quale ritenne responsabile, a titolo di compartecipazione colposa, il provider, e ordinò la chiusura del sito gestito dall’Isp, sulla base della seguente argomentazione: «(…) il proprietario di un canale di comunicazione destinato a un pubblico di lettori – al quale va equiparato quale organo di stampa un sito Internet – ha l’obbligo di vigilare sul compimento di atti di concorrenza sleale eventualmente perpetrati attraverso la pubblicazione di messaggi pubblicitari di cui deve verificare la natura palese, veritiera e corretta, concorrendo, in difetto, e a titolo di responsabilità aquiliana nell’illecito di concorrenza sleale».
Nell’agosto 1997, lo stesso tribunale, in un’altra pronuncia, confermò tale orientamento, equiparando la rete Internet a un organo di stampa e riconoscendo in capo al proprietario di un canale di comunicazione o gestore di siti Internet «obblighi precisi di vigilanza sul compimento di atti di concorrenza sleale eventualmente perpetrati attraverso la pubblicazione dei messaggi pubblicitari». Anche in tale decisione, pertanto, la responsabilità non venne attribuita all’Isp a titolo diretto ed esclusivo, bensì, come nella precedente pronuncia del tribunale napoletano, a titolo di concorso nell’illecito concorrenziale posto in essere dall’utente fornitore di contenuti.
Se si trascura una sentenza del Tribunale di Teramo dell’11 dicembre 1997, nella quale si conferma l’equiparazione tra sito Internet e organo di stampa, in quanto «(…) il mezzo non modifica l’essenza del fatto», si giunge ad un’ordinanza del Tribunale di Cuneo del 23 giugno 1997, che rileva ai fini della nostra analisi, perché esclude ogni responsabilità in capo all’Isp per la violazione del diritto d’autore commessa mediante il suo sito.
Nel caso di specie, l’Isp si era limitato a concedere l’accesso alla rete, oltre che lo spazio per la pubblicazione dei servizi informativi realizzati dall’utente, svolgendo un ruolo «(…) che con una certa approssimazione può assimilarsi a quello di un centro commerciale che abbia concesso in locazione la bancarella sulla quale l’autore ha esposto i prodotti incriminati».
Ma tale pronuncia del Tribunale di Cuneo, nella quale l’Isp risultava esonerato da ogni responsabilità per il caso in cui si fosse limitato a veicolare, mediante il sito da lui gestito, il materiale immesso da altri soggetti, fu contraddetta da altre successive pronunce. Il primo luglio 1998, infatti, la Procura della Repubblica presso la Pretura Circondariale di Venezia ordinò il sequestro del sito “Isole nella rete”, nel quale erano stati inviati messaggi di boicottaggio penalizzanti nei confronti di un’agenzia specializzata in viaggi in Turchia, e considerò gli Isp responsabili per i contenuti illeciti immessi dagli utenti.
Solo con la “storica” sentenza del Tribunale di Roma del 4 luglio 1998 la giurisprudenza invertì la rotta, escludendo in maniera chiara la responsabilità dell’Isp che si limiti a mettere a disposizione degli utenti lo spazio virtuale del sito. All’Isp non venne attribuito alcun potere di controllo e di vigilanza sui contenuti immessi in un newsgroup, dei quali un soggetto avesse denunciato il carattere diffamatorio.
Da allora, la giurisprudenza non ha mutato sostanzialmente orientamento e tende a esonerare da responsabilità il mero gestore del sito. Tuttavia, il 22 marzo 1999, il Tribunale di Roma ha precisato che non «può escludersi la sua colpa se le comunicazioni necessariamente date allo stesso provider al fine di ottenere il collegamento configurino esse stesse all’evidenza un illecito». In altre parole «se dalle circostanze nelle quali si è concretizzato il rapporto tra operatore neutro e utente fornitore di contenuto risulta palese (“all’evidenza”) che quest’ultimo intende utilizzare il sito per la commissione di un illecito, la responsabilità del provider deve essere affermata a titolo concorsuale».
In questo modo risulta applicata la figura della responsabilità concorsuale (art. 2055 c.c.) all’Isp, la cui condotta abbia dato un apporto causale alla realizzazione dell’illecito, in presenza dell’elemento psicologico del dolo o della colpa .
Vista la transnazionalità di Internet e la diversità di trattamento riservato agli Isp (e agli altri operatori telematici) dagli ordinamenti dei singoli stati europei, un’armonizzazione su scala europea dei principi di responsabilità per il traffico di informazioni in rete resta un nobile obiettivo che non potrà non essere perseguito.
Un passo decisivo in questo senso è rappresentato dal d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, che recepisce nel nostro ordinamento la direttiva 2000/31/CE dell’8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico.
Il d.lgs. 70/2003 dedica gli articoli 14, 15, 16 e 17 alla responsabilità dei prestatori di servizi della società dell’informazione. In sostanza, dice il testo, i fornitori di servizi, tra i quali vanno senz’altro annoverati gli Isp, sono esonerati da ogni responsabilità nella misura in cui limitino il loro ruolo a quello di trasmettitori tecnici e allorquando, venuti al corrente di illeciti, si attivino per rimuovere le informazioni o per disabilitare l’accesso alle medesime. Tuttavia, la formulazione delle norme è tale da ingenerare non poche perplessità in relazione alla natura degli interventi dei fornitori di servizi, poiché, com’è noto, le attività di trasmissione ed instradamento delle informazioni comportano sempre, in genere, qualche forma di “intervento” che potrebbe rientrare tra le cause di non esenzione da responsabilità .
Peraltro, la quarta sezione civile del Tribunale di Catania, nella sentenza 25-29 giugno 2004, n. 2286, ha precisato che il provider, se sceglie in prima persona i contenuti da pubblicare on-line, non può diffondere materiale senza il consenso dell’autore. Il Tribunale catanese ha condannato un provider per violazione del diritto d’autore on-line, per la pubblicazione di un’opera, su un sito realizzato e gestito per conto di un Comune, senza il benestare dell’autore. Il giudice ha applicato il regime di responsabilità del «content provider, al quale incombe l’obbligo previo di controllare e verificare ogni ulteriore profilo di lesività dei contenuti resi ostensibili nel sito dallo stesso creato, organizzato e gestito». La sentenza dichiara anche che la «responsabilità del provider si configura alla stregua di una responsabilità soggettiva: colposa, allorché il fornitore del servizio, consapevole della presenza sul sito di materiale sospetto, si astenga dall’accertarne l’illiceità e, al tempo stesso, dal rimuoverlo; dolosa, quando egli sia consapevole anche della antigiuridicità della condotta dell’utente e, ancora una volta, ometta di intervenire». Nulla, dunque, che accomuni la posizione del provider a quella dell’editore o del direttore responsabile. La responsabilità del provider è subordinata alla «circostanza che questi sappia della illiceità dell’attività o dell’informazione o anche, semplicemente, della esistenza dell’attività o dell’informazione» ().
La sentenza Google-Vividown, pronunciata dal Tribunale di Milano, ha avuto un grande clamore mediatico per alcuni suoi elementi di novità in maniera di privacy e ha ribadito che i provider non hanno l’obbligo di selezionare il materiale di volta in volta proposto dagli utenti. Non hanno un generale obbligo di sorveglianza sui contenuti, anche perché esiste un’impossibilità materiale e tecnica, per loro, di effettuare un monitoraggio continuo sulle informazioni che circolano nel mondo virtuale. Pertanto, i tre vertici di Google sono stati condannati solo per violazione della privacy e non per diffamazione. Si legge, infatti, nella sentenza n.1972 del 24 febbraio 2010: «Non esiste un obbligo di legge codificato che imponga agli Internet provider un controllo preventivo delle innumerevoli serie di dati che passano ogni secondo nelle maglie dei gestori o proprietari dei siti web, e non appare possibile ricavarlo aliunde superando d’un balzo il divieto di analogia in malam partem e dunque, pur non essendovi dubbio che costoro a maggior ragione se qualificabili come content provider- possano e debbano essere ritenuti potenzialmente responsabili delle violazioni della disciplina in tema di privacy, non appare conforme alle situazioni di fatto e di diritto finora esistenti, renderli per ciò solo corresponsabili di altro reato di diffamazione (ma non solo) derivabile dal contenuto del materiale caricato».
Il Tribunale di Milano, in un’ordinanza del 24 marzo 2011, ha dato ragione a un imprenditore che si sentiva leso dal fatto che il motore di ricerca Google associasse al suo nome le parole truffa e truffatore, innegabilmente foriere di danni al suo onore, alla sua persona e alla sua professionalità, stante la notoria frequenza e diffusione dell’impiego del motore di ricerca. Tale associazione, operata dal motore di ricerca attraverso il servizio web search denominato Suggest/Autocomplete, secondo i giudici milanesi è diffamatoria. Ecco perché a Google è stato fatto obbligo di rimuovere dal proprio software Suggest/Autocomplete quell’accostamento, intervenendo sull’algoritmo. L’imprenditore non ha chiesto filtri preventivi per impedire un abbinamento di parole sgradito. Tuttavia, ha lamentato che Google non l’avesse eliminato dopo la sua segnalazione. Si fa dunque riferimento alle norme europee sugli hosting provider, responsabili delle informazioni fornite agli utenti solo se non intervengono per rimuoverle dopo essere stati messi al corrente di un illecito.

La tutela del diritto d’autore in Internet
«I contenuti digitali sono un elemento chiave per lo sviluppo del mercato unico europeo: la diffusione dell’accesso ad Internet a banda larga e lo sviluppo di reti mobili avanzate, unitamente alla possibilità di trasformare in formato digitale ogni tipo di contenuto, determinano continuamente nuove prospettive culturali per i consumatori e nuove opportunità di business per l’industria. A livello comunitario, il mercato unico digitale viene considerato come la “quinta libertà” e, come tale, il suo sviluppo viene considerato prioritario. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha espresso l’opinione che sottovalutare le potenzialità del mercato digitale significa perdere una irripetibile occasione di sviluppo economico e sociale. Tra gli stimoli alla diffusione dell’economia digitale gioca un ruolo importante l’esistenza di norme sul diritto d’autore adeguate allo sviluppo tecnologico e alle mutate modalità di fruizione dei contenuti da parte degli utenti. La criticità dell’attuale impianto normativo sul diritto d’autore nasce dal fatto che la possibilità di distribuire e scambiare contenuti attraverso canali digitali di fatto permette che il contenuto venga distribuito senza che i legittimi titolari siano in condizione di esercitare un effettivo controllo e di percepirne l’adeguata remunerazione, con grave pregiudizio per lo sviluppo della creatività e, quindi, per le scelte a disposizione del pubblico dei consumatori/utenti. La disciplina del diritto d’autore dovrebbe, infatti, da un lato, tutelare la libertà di espressione e l’equa remunerazione dell’autore e, dall’altro, garantire il diritto alla privacy e l’accesso dei cittadini alla cultura e a Internet. Questo ultimo aspetto corrisponde, oltretutto, a un principio fondamentale dell’ordinamento comunitario delle comunicazioni elettroniche .
Un passaggio di una delibera della Autorità per le garanzie nelle comunicazioni qui riportato ci introduce efficacemente nelle problematiche da affrontare quando si parla di tutela del diritto d’autore nell’ambito della Rete.
Da una parte esiste la possibilità di distribuire e scambiare agevolmente contenuti grazie ai sempre nuovi canali digitali; dall’altra, esiste il rischio che questi scambi avvengano a discapito dei titolari dei diritti su quei contenuti.
«L’intersezione fra questi divergenti interessi dà luogo sempre più di frequente a contrasti fra il diritto d’autore e altri istituti fondamentali del nostro ordinamento, in particolare – come detto - la libertà di espressione o la privacy e il diritto di accesso ad Internet. Gli interessi economici tutelati attraverso il diritto d’autore devono essere contemperati con la soddisfazione di altri interessi, in particolare quelli collettivi alla circolazione della cultura e dell’informazione e alla libertà di ricerca, rispetto ai quali la Corte Suprema statunitense ha affermato più volte che il copyright funge da mezzo a fine» .
È quindi chiaro che il contemperamento di opposti interessi di autori e utenti costituisce, anche nella Rete, il principio cui deve ispirarsi la normativa in tema di diritto d’autore. Essa, proprio in conseguenza di questa rivoluzione digitale, è stata rivista e integrata soprattutto a partire dagli anni ’80, in concomitanza con la diffusione di nuove tecnologie di elaborazione, riproduzione e diffusione delle opere.
Tale risposta normativa si snoda attraverso nuovi accordi internazionali e, a livello comunitario, attraverso l’opera di armonizzazione.
La tendenza è quella a inserire nuove tipologie di opere nel novero di quelle protette, di rafforzare i diritti di esclusiva, di creare nuovi strumenti di tutela e, in taluni casi, di restringere le prerogative riservate agli utenti.
La direttiva comunitaria 2001/29/CE sull’armonizzazione di alcuni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, è finalizzata a incoraggiare lo sviluppo dell’Information Technology, e a contribuire alla regolamentazione del fenomeno Internet, dando vita a un quadro normativo tendenzialmente uniforme nell’ambito degli Stati membri.
Tale direttiva introduce quello che è già stato ribattezzato “copyright telematico” e che negli Usa era già stato introdotto alla fine del 1998 con il Digital millennium copyright act.
Presupposto della direttiva europea è che gli autori, gli interpreti e i produttori di opere dell’ingegno diffuse on-line devono avere il diritto di sfruttarne in esclusiva le possibilità economiche e quello di ricevere un compenso per l’opera creata, indipendentemente dallo strumento con cui essa viene poi diffusa. In altre parole, tali soggetti hanno il diritto di autorizzare o vietare la comunicazione al pubblico delle loro opere originali o delle copie (principio di comunicazione al pubblico); agli autori dev’essere obbligatoriamente versato un equo indennizzo quando sia effettuata una copia dell’opera.
La direttiva contiene però, all’art. 5, anche un’eccezione obbligatoria, che tutti gli Stati sono tenuti a rispettare, e che riguarda le cosiddette copie cache. Si tratta di “copie tecniche”, che gli Internet provider tengono in memoria per facilitare l’accesso da parte degli utenti; tali copie sono riproduzioni temporanee dei files sul computer, eseguite automaticamente dalla macchina mentre si naviga in Internet e che servono solo a facilitare l’accesso al servizio, senza alcuna finalità commerciale: pertanto, in questo caso, il copyright del creatore del sito non scatterà.
«Secondo la direttiva 2001/29/CE gli Stati membri devono assicurarsi che i titolari dei diritti possano chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti degli intermediari i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare un diritto d’autore o diritti connessi (art. 8, par. 3). Per quanto riguarda le violazioni attraverso Internet, i servizi degli intermediari possono infatti essere sempre più utilizzati da terzi per attività illecite e, in molti casi, sono proprio gli intermediari i più idonei a porre fine a dette attività illecite. Pertanto, fatte salve le altre sanzioni e i mezzi di tutela a disposizione, i titolari dei diritti dovrebbero avere la possibilità di chiedere un provvedimento inibitorio contro un intermediario che consenta violazioni in rete da parte di un terzo contro opere o altri materiali protetti. Le condizioni e modalità relative a tale provvedimento ingiuntivo dovrebbero essere stabilite dal diritto nazionale degli Stati membri (considerando 59). Tuttavia, con riguardo alla responsabilità del prestatore intermediario (provider) per le attività di semplice trasporto (mere conduit), memorizzazione temporanea (catching) e hosting, occorre ricordare anche la direttiva sul commercio elettronico (direttiva 2000/31/CE) che agli artt. 12, 13 e 14 esclude espressamente la responsabilità dei provider, seppur entro certi limiti, mentre rimane impregiudicata la facoltà degli Stati membri di adottare normative nazionali che attribuiscano all’autorità giudiziaria o amministrativa il potere di esigere, attraverso un provvedimento inibitorio, che il provider ponga fine a una violazione o la impedisca, nonché di definire procedure per la rimozione delle informazioni o la disabilitazione dell’accesso alle medesime. Allo stesso tempo, tuttavia, è esclusa la possibilità di imporre ai provider obblighi generali di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano, o di ricerca attiva di fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. Un recente studio della Commissione Europea ha evidenziato i problemi di coordinamento che l’attuazione della direttiva sul commercio elettronico pone in rapporto alle forme di tutela previste dalla direttiva 2000/31/CE, soprattutto per quanto riguarda il ruolo degli Isp. In attesa di futuri sviluppi in ambito europeo, gli Stati membri hanno recepito l’articolo 8 della direttiva 2000/31/CE in maniera differenziata, adattandolo agli specifici sistemi di responsabilità civile vigenti negli ordinamenti nazionali».
Il quadro della normativa comunitaria relativa alla protezione del diritto d’autore in Rete è poi integrato dalla direttiva 2004/48/CE che ha a oggetto gli aspetti sanzionatori e i rimedi giurisdizionali in tema di tutela dei diritti di proprietà intellettuale. Essa ha l’espressa finalità di armonizzare le normative nazionali dei Paesi comunitari con riferimento alla tutela giudiziaria, nell’ottica di un rafforzamento della protezione dei diritti di proprietà intellettuale e industriale all’interno della Comunità europea ().
Alla normativa comunitaria citata, che si sostanzia, come detto, nelle direttive europee 2000/31, 2001/29 e 2004/48, recepite a volte in modo nettamente differenziato negli ordinamenti degli Stati membri, si è aggiunto il c.d. Telecom Package, ovvero la direttiva 2009/140/CE del Novembre 2009 sull’utilizzo delle reti telematiche.
Il Telecom Package prevede interventi in tre tappe verso gli utenti che abusivamente scaricano files protetti dal diritto d’autore.
La prima tappa si sostanzia nell’invio di un messaggio di posta elettronica di avviso all’utente. A fronte di una persistente violazione delle norme sul diritto d’autore, viene inviata allo stesso una raccomandata cartacea. L’utente, se per la terza volta, nonostante le intimazioni precedenti, scarica abusivamente contenuti protetti dal diritto d’autore, viene invitato a comparire davanti a un giudice, il quale deciderà se comminargli una multa o la sanzione della disconnessione dalla Rete.
In Inghilterra, solo per citare un esempio, sono gli Internet service provider che devono intimare agli utenti delle piattaforme peer to peer di interrompere la loro attività, mentre è l’Authority delle comunicazioni che eventualmente decide se sospendere le connessioni.
Descritto il sistema normativo a livello europeo, risulta ora interessante vedere come il nostro ordinamento nazionale si sta muovendo in materia di diritto d’autore e sua protezione nella Rete.
Con una serie di interventi normativi succedutisi nel tempo, il nostro legislatore ha identificato nella Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, istituita con legge 31 luglio 1997 n. 249, il soggetto più competente cui assegnare un’azione tecnico-operativa di prevenzione e accertamento delle violazioni della disciplina del diritto d’autore, al fine di contemperare gli interessi degli autori stessi, da un lato, e quelli dei consumatori/utenti, dall’altro, oltre che di garantire la corretta fruizione dei contenuti sulle reti di comunicazione elettronica.
«Le prime tracce normative concernenti la competenza dell’Autorità in materia di diritto d’autore risalgono all’originaria Autorità di garanzia del settore audiovisivo (il Garante per la radiodiffusione e l’editoria), cui era affidato anche il compito della vigilanza sull’osservanza, da parte della concessionaria pubblica e dei concessionari privati per la radiodiffusione, delle leggi e delle convenzioni internazionali in materia di telecomunicazioni e di utilizzazione delle opere dell’ingegno (articolo 15, comma 8, legge n.223/90, poi abrogato e sostituito dall’art. 54 del d. lgs. n. 177/2005, cd. Testo Unico della Radiotelevisione). A partire da quel primitivo elemento normativo si è registrato, a misura che si aggravava la problematica
in esame, un crescendo di attribuzioni di competenze specifiche a questa Autorità» ().
L’art. 11 della legge 18 agosto 2000, n.248 ha introdotto nella legge n. 633/1941 l’art. 182-bis, che ha attribuito all’Agcom, al fine di prevenire e accertare eventuali violazioni in materia di diritto d’autore, funzioni di vigilanza su molteplici attività che si identificano sommariamente nella riproduzione, duplicazione, proiezione, distribuzione, vendita, noleggio, ecc. di opere dell’ingegno oppure nella fabbricazione, importazione, distribuzione di apparecchi e supporti atti a riprodurre, duplicare, ecc. opere dell’ingegno ().
Secondo questa previsione normativa, tale attività dell’Agcom deve essere svolta in coordinamento con la Società Italiana degli Autori ed Editori (S.I.A.E.), pur nell’ambito delle rispettive competenze previste dalla legge. Per tale motivo l’Agcom e la S.I.A.E. hanno sottoscritto il 6 Luglio 2001 un primo accordo di coordinamento per le loro attività, accordo poi integrato da una nuova convenzione siglata il 10 maggio 2007.
Con tale ultima convenzione «i due enti si sono impegnati a pianificare congiuntamente e a coordinare attività ispettive ad hoc, cooperando altresì al costante ed efficace interscambio di dati e di informazioni utili ai fini dell’attività di prevenzione e repressione degli illeciti amministrativi e penali in tema di diritto di autore, anche avvalendosi del personale dei nuclei speciali delle Forze di Polizia e della Guardia di Finanza. L’accordo prevede lo svolgimento di una attività congiunta di studio e di ricerca nelle materie di comune interesse, con particolare riferimento ai servizi e contenuti audiovisivi (fonogrammi e videogrammi) nelle varie forme di fruizione, anche alla luce dell’evoluzione tecnologica del settore (art.4), nonché l’istituzione di un Comitato permanente, composto in forma paritetica da rappresentati dell’Agcom e della S.I.A.E., competente alla risoluzione dei problemi che dovessero eventualmente sorgere relativamente ai profili applicativi dell’accordo stesso, e alla verifica dell’attività svolta in conseguenza dell’accordo (art. 5)».
I contenuti e i limiti delle responsabilità degli Internet service provider (Isp) sono stati ancor meglio definiti, sul piano operativo, con il d.lgs. 9 aprile 2003 n. 70, che ha recepito nel nostro ordinamento la già citata direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico.
«Per quel che qui rileva, gli artt. 14 comma 3, 15 comma 2 e 16 comma 3 prevedono la possibilità per l’autorità “amministrativa avente funzioni di vigilanza”, al pari di quella giudiziaria, di esigere che il prestatore di servizi “impedisca o ponga fine alle violazioni commesse”. Inoltre, l’art. 17, comma 1, del d.lgs n. 70/03, se da un lato esclude la sussistenza in capo agli Isp di un generalizzato obbligo di vigilanza sulle informazioni trasmesse o memorizzate sulla propria rete, dall’altro, però, precisa che “tale disposizione non riguarda gli obblighi di sorveglianza in casi specifici e, in particolare, lascia impregiudicate le ordinanze emesse dalle autorità nazionali secondo le rispettive legislazioni” (cfr. considerando n. 47 della Direttiva). L’Autorità, in quanto autorità amministrativa “dotata di poteri di vigilanza”, ritiene pertanto di essere legittimata, impregiudicato l’intervento dell’autorità giudiziaria, a intervenire, in un tempo ragionevole, nei riguardi dei gestori dei siti Internet sui quali dovessero essere ospitati contenuti digitali coperti da copyright, senza l’autorizzazione del titolare» .
Più recentemente il ruolo dell’Agcom nella protezione del diritto d’autore è stato ridefinito dal decreto Romani (d.lgs. 15 marzo 2010, n. 44 recante “Attuazione della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive”), che ha inserito nel Testo Unico dei Servizi di media audiovisivi e radiofonici l’art. 32-bis (“Protezione dei diritti d’autore”). Agcom ritiene che la disposizione testé citata intervenga a integrare la propria competenza generale in materia già tracciata dall’art. 182-bis della legge 633/41 (sia pure nei limiti delle attribuzioni che le sono proprie).
«La competenza dell’Autorità in materia di copyright non sembra soffrire sensibili limitazioni dall’esclusione operata dall’art. 2, comma 1, lettera a) per i “siti Internet privati e i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di contenuti audiovisivi generati da privati ai fini di condivisione o di scambio nell’ambito di comunità d’interesse”. La ratio di tale esclusione sembra decisamente infatti quella di salvaguardare una delle principali caratteristiche della rete Internet, vale a dire quella di fungere da straordinario veicolo di scambio dei files “generati da privati”.
L’Autorità, del resto, è ben consapevole che un’attività di scambio sulla rete Internet che abbia a oggetto file realizzati da soggetti privati costituisce la manifestazione di valori costituzionalmente tutelati come la libertà di espressione e la libera manifestazione del pensiero e in quanto tale va tutelata e incoraggiata. Per converso, però, per i siti gestiti da privati, ma intesi a favorire l’accesso non autorizzato di materiale protetto da copyright, soccorre la generale competenza dell’Autorità in fatto di prevenzione e accertamento delle violazioni posta dall’art. 182-bis della legge 633/41, e ciò anche a prescindere dal possesso del titolo autorizzatorio per la fornitura di servizi di media audiovisivi».
Occorre infine un accenno al documento che il Consiglio dell’Agcom ha approvato nel dicembre 2010, con cui la stessa Autorità si prepara a divenire di fatto un controllore sempre più penetrante della violazione del diritto d’autore in Italia sulle reti digitali.
Il testo, dal titolo “Lineamenti di Provvedimento concernente l’esercizio delle competenze dell’Autorità nell’attività di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica” (Allegato B alla delibera n.668/10/CONS del 17 dicembre 2010), delinea un quadro molto severo in materia di violazioni del diritto d’autore su Internet.
I provvedimenti contenuti nel documento a tutela del diritto d’autore riguardano soprattutto il gestore del sito e non il singolo utente. Sono previsti: la richiesta di rimozione dei contenuti al gestore del sito o al fornitore del servizio di media audiovisivi da parte del titolare del diritto o copyright; la segnalazione all’Autorità della mancata rimozione dei contenuti decorse 48 ore dall’inoltro della richiesta; la verifica da parte dell’Autorità, attraverso un breve contradditorio con le parti; l’ordine di rimozione qualora risulti l’illegittima pubblicazione di contenuti coperti da copyright.
Oltre ad azioni sanzionatorie si prevedono iniziative positive per favorire la diffusione di una cultura del diritto d’autore, quali la promozione di un’ampia offerta di contenuti audiovisivi sul mercato, attività di informazione e di educazione alla legalità per far conoscere agli utenti i rischi generati dalla pirateria, impulso alla diffusione di licenze collettive estese e istituzione presso l’Agcom stessa di un apposito Tavolo tecnico tra tutti i soggetti interessati, avente il compito di approfondire le problematiche applicative per una efficace adozione delle misure ipotizzate.
Vediamo ora alcuni casi recenti che hanno riguardato proprio le contrapposte esigenze di tutelare la libertà della Rete e la titolarità dei contenuti, garantendo altresì il diritto dei cittadini alla privacy e l’accesso alla cultura e a Internet, con i relativi orientamenti che la giurisprudenza ha di volta in volta assunto.
Uno dei più significativi è il “caso Peppermint”: la società discografica Peppermint aveva citato in via d’urgenza Telecom Italia chiedendo la comunicazione dei dati necessari all’identificazione di coloro che avevano fruito di brani musicali, evadendo il diritto d’autore. Per ben cinque volte () il Tribunale di Roma dà ragione a Peppermint sostenendo, molto sommariamente, che il titolare del diritto d’autore può ottenere in via d’urgenza dal provider, ai sensi dell’art. 156-bis della legge sul diritto d’autore, la comunicazione dei dati anagrafici degli assegnatari di indirizzi IP che appaiono autori di condotte illecite attraverso piattaforme peer to peer e che tale diritto non è precluso dalla disciplina in materia di privacy e trattamento dei dati personali, essendo applicabile in tal caso l’art. 24 del Codice privacy, che consente il trattamento dei dati personali senza il consenso dell’interessato quando sia necessario per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
Telecom Italia avrebbe dovuto fornire 3.636 nominativi contro i quali Peppermint avrebbe agito inviando una diffida e richiedendo la cancellazione dei files e i danni conseguenti.
Mentre il procedimento era avviato, il Garante privacy si costituì in giudizio, con l’intento di verificare se nella vicenda fossero stati veramente rispettati tutti i diritti legati alla protezione dei dati personali. In seguito a ciò, il Tribunale di Roma, con ordinanza del 14 luglio 2007, ha accolto le istanze del Garante e ha deciso che il titolare del diritto d’autore non ha diritto all’applicazione dell’art. 156-bis della legge 633/41, e quindi non può ottenere in via d’urgenza dal provider la comunicazione dei dati anagrafici degli assegnatari di indirizzi IP che appaiono autori di condotte illecite attraverso piattaforme peer to peer. Inoltre, ha stabilito che tale diritto è precluso dalla disciplina in materia di privacy e trattamento dei dati personali e che quindi non è applicabile in tal caso l’art. 24 del Codice privacy (d.lgs. 30 giugno 2003, n.196).
In una pronuncia successiva () lo stesso Tribunale ha sancito con ancora maggiore fermezza che la tutela della privacy è un valore fondamentale, prevalente sugli altri, compreso il diritto d’autore, e che i dati personali possono essere trattati senza consenso degli altri solo per azioni giudiziarie penali.
Il caso Peppermint «coinvolge la privacy, la difesa dei diritti di proprietà intellettuale, il controllo della Rete e, tutto sommato, il nostro vivere quotidiano. Se prevalesse il principio che qualcuno ha il diritto di monitorare il nostro navigare in Rete, anche per il legittimo motivo di verificare se i suoi assunti diritti sono da noi violati, si varcherebbe il delicato confine della libertà personale. Vita reale e vita virtuale sono ormai due aspetti della vita dell’uomo nel mondo tecnologico. Non accetteremmo, in uno stato di diritto così faticosamente conquistato, di essere controllati, ripresi e monitorati da inesorabili telecamere dall’alba al tramonto, e oltre, nel nostro vivere quotidiano e nelle nostre attività. Perché mai, dunque, dovremmo accettare supinamente un identico inesorabile controllo quando ci sediamo al computer, ed entriamo in Rete?».
Anche la Corte di giustizia delle Comunità europee si è pronunciata su un caso simile.
L’associazione spagnola senza scopo di lucro Promusicae aveva chiesto alla Telefonica de Espana di rilevare identità e indirizzo fisico di alcuni utenti cui forniva il servizio di accesso a Internet, utenti che stavano utilizzando brani musicali eludendo i rispettivi diritti patrimoniali.
A seguito del rifiuto di Telefonica di fornire tali dati, Promusicae presenta il 28 novembre 2005 istanza innanzi al Tribunale di Madrid contro Telefonica stessa, colpevole, si legge nell’atto, di consentire agli utilizzatori atti di concorrenza sleale a violazione dei diritti di proprietà intellettuale, e chiede di poter esercitare azioni civili contro le persone coinvolte.
Il 21 dicembre 2005 il Tribunale spagnolo accoglie tale istanza ma Telefonica si oppone sostenendo che la trasmissione dei dati a Promusicae poteva essere autorizzata solo nell’ambito di un’indagine penale o per la tutela della pubblica sicurezza e difesa nazionale, e non nel contesto di un procedimento civile.
Il Tribunale di Madrid il 13 giugno 2006 sospende il procedimento e sottopone alla Corte di giustizia delle Comunità Europee una questione pregiudiziale a tal proposito.
La Corte, con un’articolata decisione datata 29 gennaio 2008, in cui vengono prese in considerazione tutte le normative europee riguardanti le questioni oggetto del presente paragrafo, in sostanza decide che tali normative, valutate congiuntamente, «non impongono agli Stati membri, in una situazione come quella oggetto della causa principale, di istituire un obbligo di comunicare dati personali per garantire l’effettiva tutela del diritto d’autore nel contesto di un procedimento civile».
«La decisione della Corte di giustizia europea relativa al caso Promusicae vs Telefonica de Espana nel dispositivo ha anche delegato agli Stati membri la cura di operare – all’atto del recepimento delle direttive – una oculata trasposizione delle norme tale da prevenire i possibili conflitti tra diritti fondamentali e gli stessi principi generali del diritto comunitario».
La nostra Cassazione penale, nella sentenza n. 49437 del 29 settembre 2009, si è occupata della possibilità di sequestro del sito Pirate Bay, esponendo in sentenza una analitica ricostruzione dei meccanismi di funzionamento dei software peer to peer. In sintesi, i giudici hanno ritenuto i gestori del sito come “concorrenti” nel reato di violazione del diritto d’autore, posto in essere dall’utente finale che realizza il downloading. «Ne deriva – si legge nella sentenza l’applicabilità dell’art. 6 del codice penale, sulla determinazione del giudice nazionale, potendosi considerare una parte dell’azione delittuosa, appunto lo scaricamento dei files, come realizzata sul territorio dello Stato da uno dei concorrenti nel reato, ciò che abilita a ritenere sussistente la giurisdizione anche nei confronti di chi – il gestore del sito –, pur limitandosi a tenere i suoi server su territorio straniero, concorre, appunto, nel reato».
Differenti accenti presenta un altro caso, quello dell’ordinanza del Tribunale di Roma del 15 dicembre 2009 con la quale è stata accolta la richiesta cautelare di Mediaset s.p.a. di oscuramento dei contenuti pubblicati su You Tube relativi alla trasmissione televisiva “Grande Fratello”. Uno dei temi contestati era appunto, anche qui, la sussistenza o meno della giurisdizione e della competenza del giudice italiano. Il magistrato ha ritenuto di poter attrarre a sé la competenza a decidere, valorizzando stavolta l’elemento del luogo in cui si verifica il danno, cioè del luogo in cui si trova colui che subisce il pregiudizio (Italia) e non quello in cui le immagini vengono caricate sui server (estero). Il magistrato ha così ordinato alle resistenti l’immediata rimozione dai propri server e la conseguente immediata disabilitazione all’accesso di tutti i contenuti riproducenti sequenze del “Grande Fratello”.
Diametralmente opposta, invece, la decisione del tribunale federale di Madrid del 22 settembre 2010 che, in una causa dalle stesse origini e dalle identiche motivazioni, ha dato ragione a You Tube sostenendo che non ha violato la legge sulla proprietà intellettuale con la pubblicazione sul suo sito di estratti di video non autorizzati di programmi di Tele Cinco. Il tribunale spagnolo ha sostenuto che il sito è solo intermediario, quindi non tenuto a bloccare preventivamente i contenuti protetti. Il giudice ha respinto la richiesta del broadcaster che fa capo a Mediaset, facendo notare che You Tube offre ai titolari dei diritti gli strumenti per rimuovere i contenuti in violazione del copyright e che quindi è responsabilità del soggetto titolare dei diritti – e non di You Tube – identificare e segnalare al sito la presenza sulla piattaforma di contenuti protetti.
In materia di pirateria on-line e di responsabilità di un motore di ricerca nel rendere disponibile l’accesso ai siti che immettono in Rete film “piratati”, sprovvisti di ogni tipo di autorizzazione da parte dei detentori dei diritti, si segnala un’innovativa ordinanza cautelare della nona sezione del Tribunale di Roma, del 24 marzo 2011. Con quella decisione è stato inibita a Yahoo la prosecuzione e la ripetizione della violazione dei diritti di sfruttamento economico sul film “About Elly” mediante il collegamento ai siti riproducenti in tutto o in parte l’opera, diversi dal sito ufficiale del film. La casa cinematografica Pfa Films ha lamentato la violazione dei diritti di sfruttamento economico di quel film da parte di Yahoo. Il Tribunale di Roma ha riconosciuto l’imputabilità di Yahoo, che, in quanto gestore del servizio di ricerca sul web, avrebbe dovuto disabilitare il sito pirata una volta venuto a conoscenza del suo contenuto illecito.
Risulta anche interessante citare il provvedimento A420 del 22 dicembre 2010 con il quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) o Antitrust ha chiuso il procedimento A420 avviato contro Google per abuso di posizione dominante nell’uso di news di altri editori e nei rapporti con i clienti in materia pubblicitaria, cioé per presunte violazioni dell’art. 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
Dopo una delicatissima quanto complicata istruttoria, avviata anche alla luce di una denuncia della Federazione italiana degli editori di giornali (Fieg), l’Antitrust ha deciso di accettare, rendendoli vincolanti, gli impegni presi da Google per un periodo di almeno 3 anni. Nei dettagli, il motore di ricerca si impegna a consentire agli editori di «rimuovere o selezionare i contenuti presenti in Google News - Italia», a rendere note agli editori le quote di ripartizione dei ricavi che determinano la remunerazione degli spazi pubblicitari e a rimuovere il divieto di rilevazione dei click da parte delle imprese che veicolano pubblicità con la sua piattaforma. Google «assicura il mantenimento di un software separato per Google News che dà agli editori la possibilità di decidere quali contenuti giornalistici rendere utilizzabili su Google News, senza pregiudicarne l’indicizzazione sul motore di ricerca Google Web Search».
L’Antitrust ha giudicato gli impegni presentati «idonei a rispondere alle preoccupazioni concorrenziali espresse in sede di avvio dell’istruttoria». L’Autorità ha tuttavia ritenuto opportuno, contestualmente alla chiusura del procedimento nei confronti di Google, porre al Governo e al Parlamento il tema del diritto d’autore. «È necessario tutelare diversamente il diritto d’autore in tutti i settori. Per questo motivo – si legge nella nota dell’Antitrust – occorre una legge nazionale che definisca un sistema di diritti di proprietà intellettuale in grado di incoraggiare su Internet forme di cooperazione virtuosa tra i titolari di diritti di esclusiva sui contenuti editoriali (editori) e i fornitori di servizi innovativi che riproducono ed elaborano i contenuti protetti da tali diritti. È necessario, in una prospettiva pro concorrenziale, superare l’oggettivo squilibrio tra il valore che la produzione di contenuti editoriali genera per il sistema di Internet nel suo complesso e i ricavi che gli editori on-line sono in grado di percepire dalla propria attività. Si tratta di un’esigenza che, vista la dimensione sopranazionale del fenomeno Internet, deve anche essere promossa dalle istituzioni italiane anche presso le opportune sedi internazionali».
Vi è infine da affrontare il problema del foro competente nel caso di illeciti posti in essere on-line.
Il problema nasce dalla natura stessa della Rete, che non è ancorata a spazi fisici predeterminati.
«Di tutte le tesi prospettate in dottrina e giurisprudenza, quella che appare preferibile è stata esposta dalla Corte di Cassazione a Sezioni unite nell’ordinanza n. 6591 dell’8 giugno 2002. Secondo i giudici della Suprema Corte, la competenza spetta al giudice del foro in cui il danneggiato ha la propria sede, la propria residenza o il proprio domicilio. Si considera cioè come locus commissi delicti quello dove il fatto illecito genera realmente il danno economico. Una simile scelta ermeneutica, che peraltro rispetta l’opzione accolta dal legislatore in materia di contratti dei consumatori stipulati a distanza, e quindi anche attraverso la rete telematica, appare rendere giustizia alla singolarità e alle peculiarità della Rete stessa come strumento particolarmente adatto al compimento di attività dannose. Inoltre, in un’ottica di law and economics, l’opzione si rivela funzionale al riequilibrio del rapporto fra il gestore del sito e gli utenti, altrimenti tutto sbilanciato a favore del primo, il quale gode di un vantaggio, se non sempre tecnologico quanto meno logistico, rispetto all’utente, parte debole delle relazioni on-line».

Rete e diritto all’oblio
La categoria del diritto all’oblio è di costruzione essenzialmente dottrinaria e giurisprudenziale, e si caratterizza come «lo strumento di difesa per chi è stato protagonista di un fatto che all’epoca in cui si era verificato poteva essere ricompreso nel diritto di cronaca, ma che non può assurgere a fatto emblematico (ed essere quindi continuamente riproposto) di tutti gli episodi successivi del medesimo tenore». Il Garante per la privacy, nel marzo 2005, ha ammesso che il diritto all’oblio può essere invocato anche per le notizie che viaggiano in Rete. In quella circostanza, diede ragione a un operatore pubblicitario che si era lamentato di una sorta di “perpetua gogna elettronica”. È legittimo che una sanzione, una condanna, un precedente giudiziario assai lontano nel tempo restino sempre disponibili a chiunque navighi in Internet, oppure un individuo ha diritto, dopo un congruo periodo di tempo, di uscire dallo spazio virtuale perché taluni documenti ufficiali che lo riguardano non hanno più attinenza con l’attualità? Il ricorrente lamentava il fatto che chiunque effettuasse in Rete una normale ricerca nominativa a nome suo e della sua società, tramite un qualsiasi motore di ricerca, ricevesse sempre e in primo luogo notizie riguardanti due provvedimenti con i quali gli erano state a suo tempo comminate due sanzioni amministrative, risalenti al 1996 e al 2002. Ciò, a detta dell’interessato, pregiudicava l’immagine che la clientela poteva farsi dell’attività da lui svolta.
Il Garante ha dato solo in parte ragione all’operatore pubblicitario e ha disposto che l’ente pubblico che aveva erogato quelle sanzioni continuasse a pubblicare sul proprio sito web le proprie decisioni, anche a distanza di tempo, dovendo ottemperare a inderogabili obblighi di pubblicità, ma predisponendo, sempre nel proprio sito, entro un trimestre, una sezione per i vecchi provvedimenti, consultabile da tutti tramite il sito, ma attraverso l’indirizzo dell’ente, anziché mediante una domanda a tappeto tramite i motori esterni di ricerca. Inoltre il Garante ha posto l’attenzione sulla necessità di una precisa quantificazione del tempo oltre il quale si deve garantire un ragionevole oblio. Tale decisione ha rappresentato un primo passo verso una matura delimitazione dei confini tra trasparenza e diritto all’oblio anche in rete. L’Autorità, in una decisione successiva (marzo 2006), ha invitato i motori di ricerca ad aggiornare periodicamente i dati in Rete, al fine di evitare la “gogna perpetua”. In quel caso, l’Autorità ha deciso di interpellare il motore di ricerca Google Inc. con sede in California (dopo aver appurato che la filiale nazionale italiana di Google non aveva la possibilità di intervenire su quei dati), al fine di trovare una soluzione al problema della persistenza in rete di informazioni personali che restano accessibili da qualunque utente sebbene superate o non più aderenti alla realtà attuale dei fatti. In questo caso, il Garante si è mosso in seguito alle lamentele di una cittadina italiana che aveva riscontrato, navigando in Google, come venissero ancora offerte in consultazione pagine a lei riferite in cui si faceva menzione di un procedimento penale avviato nei suoi confronti, ma non della circostanza che, nel frattempo, lei era stata assolta da ogni addebito. La richiesta del nostro Garante è stata chiara: tutelare maggiormente gli utenti italiani, attraverso un più facile aggiornamento delle informazioni che li riguardano e che sono presenti nel motore di ricerca.
Nel dicembre 2008, il Garante è intervenuto a seguito di alcuni ricorsi presentati nei confronti di un editore che aveva reso fruibili ai più comuni motori di ricerca parte dell’archivio storico del proprio quotidiano. I ricorrenti lamentavano il fatto che, digitando il proprio nome su un comune motore di ricerca, ottenevano come risultato notizie pubblicate anche quindici anni prima. In un caso, il ricorrente era stato completamente assolto dai reati citati nell’articolo, ma ciò non emergeva dai risultati della ricerca. In altri casi, gli interessati, pur avendo negli anni cambiato vita e avviato una diversa attività professionale, continuavano a essere associati a vicende ormai lontane. L’Autorità ha imposto alla società editrice di adottare le opportune misure tecniche per evitare che i motori di ricerca possano estrarre in automatico dagli archivi dei giornali tutti i dati personali che vi sono contenuti, anche quelli non più attuali o incompleti e che possano ledere la riservatezza delle persone e il diritto all’oblio.
In un provvedimento del 22 maggio 2009, il Garante ha dichiarato infondato il ricorso di un politico candidato alle elezioni europee, volto a ottenere il blocco dei dati personali, pubblicati sul sito di un quotidiano on-line, e relativi alla sua passata attività politica a livello locale e nazionale. In quell’occasione, l’Autorità ha ricordato che «rispetto a persone note, i mezzi di informazione beneficiano di margini più ampi nella pubblicazione di dati e notizie, in particolare nella misura in cui la loro conoscenza assuma un rilievo sul loro ruolo e sulla loro vita pubblica».
Contro la diffusione indifferenziata e a tempo indeterminato di files audio e video sulla Rete si è dichiarato il Garante a proposito del ricorso presentato il primo luglio 2009 da Elisabetta Tulliani, compagna del leader politico Gianfranco Fini, la quale, lamentando che sulla rete web risultavano reperibili notizie e immagini attinenti a sue vicende personali piuttosto risalenti nel tempo e, più in particolare, un video-intervista con lei e Luciano Gaucci, ex patron del Perugia calcio, relativo alla loro relazione sentimentale risalente a circa 10 anni prima, aveva chiesto l’adozione di misure atte a impedire l’ulteriore accessibilità a quei materiali tramite i comuni motori di ricerca e, quindi, il riconoscimento del diritto all’oblio. A fondamento di tale richiesta, inoltrata al Garante attraverso i suoi legali, la Tulliani evidenziava il fatto che il predetto video atteneva a fatti di vita personale appartenenti al passato e che la sua perdurante riproposizione attraverso Internet per effetto della sola digitazione del nome della reclamante, non era giustificata da alcun interesse pubblico attuale. In una nota del 24 dicembre 2009, il Garante ha disposto che il video sopra citato non fosse più indicizzabile attraverso l’uso dei comuni motori di ricerca e ha precisato che tale istanza di opposizione al trattamento dei dati in questione (le informazioni e le immagini contenute nel video Gaucci-Tulliani) poteva essere rivolta direttamente ai titolari dei siti web di volta in volta individuati dall’interessata. In questo modo, l’Autorità ha ritenuto di realizzare un bilanciamento tra esigenze di completezza dell’informazione e di ricerca su tali fatti ed esigenze di salvaguardia dei diritti fondamentali della persona. Questo punto di vista era peraltro già stato espresso dal Garante in una decisione dell’8 aprile 2009.

*professore di diritto dell’informazione e della comunicazione, università cattolica del Sacro Cuore di Milano

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01/01/2012