Anna Lisa Spitaletta
Uno e… centomila
Il numero uno dell’arte della trasformazione racconta di sé e del suo mondo magico in un’ intervista senza trucchi e senza inganni. I sogni e le illusioni di Arturo Brachetti nel teatro dei suoi 80 personaggi e 350 costumi di scena
Arturo Brachetti, 54 anni, torinese e artista, funambolo e trasformista dalle tavole del teatro alle pellicole del cinema, e ora “tutto nudo” anche alla radio. L’uomo dai mille volti nel più breve tempo possibile ha appena portato in Italia il suo ultimo spettacolo “Ciak si gira!”, dopo mesi di tutto esaurito alle Folies Bergère di Parigi. È l’italiano che in Francia ha ricevuto il premio Molière, uno dei più ambiti per il teatro. Al cinema dedica oggi il suo one-man show da 80 trasformazioni attraverso i personaggi che lo hanno incantato dal piccolo al grande schermo. Zorro e Mary Poppins, Crudelia De Mon e King Kong assieme al cinema dei musical e dei telefoni bianchi hollywoodiani. Charlie Chaplin e Federico Fellini i punti cardinali di quest’universo di celluloide. Ha firmato come regista spettacoli teatrali in Germania, show musicali e comici per Aldo Giovanni e Giacomo. E inoltre la fiaba musicale “Pierino e il lupo” di Sergej Prokof’ev che grazie alla sua magia artistica è diventata un evento mediatico televisivo, con l’orchestra sinfonica della Rai.
Chi ti ha iniziato all’arte del teatro e della magia?
Tutto iniziò in un seminario religioso. Fu lì che avvenne la mia prima trasformazione da promettente prete ad artista di successo. Essendo molto timido a undici anni entrai in seminario perché pensavano fossi più adatto a quel tipo di vita, mite e riservata. Invece proprio lì conobbi un prete prestigiatore e illusionista, don Silvio Mantelli. Nella sua stanza piena di giochi di prestigio ho trascorso tutta la mia adolescenza. Così mentre mio padre mi proiettava in una vita religiosa io mi iniziavo all’arte della magia. Poi ho studiato tutte le biografie di Leopoldo Fregoli, il più grande trasformista degli anni 20, e da lì è iniziato il mio sogno di diventare come lui.
Il tuo trasformismo nasce quindi dal mondo dell’infanzia?
Direi nell’età dell’adolescenza, offrendomi un modo di essere per presentarmi e relazionarmi con gli altri. Questo mi ha aiutato nella crescita a superare la timidezza con i miei coetanei, mi rifacevo su di loro sorprendendoli con i giochi di prestigio. Diventavo interessante ai loro occhi usando lo strumento del travestimento da indiano, cinese, o come un presentatore coi baffi che a quindici anni è molto naif.
A Parigi hai raggiunto il successo, come conservi oggi la tua unicità nel genere?
Nel ’79 sono partito per Parigi e lì ho capito che dopo Fregoli non c’era nessun altro trasformista come me. Oggi porto in scena 80 personaggi e il mio baule conta fino a 350 costumi. Certo è che con Internet e i video su You Tube c’è ora una facile diffusione degli show al di fuori dei teatri. Ai giovani non serve più studiare i grandi attori, basta copiarli. Ho molti imitatori ma faccio di tutto per conservare l’originalità dei miei numeri di magia e dei personaggi che interpreto.
Che sensazioni dà la maschera?
È la forza che viene dalla maschera! Dietro ci si sente protetti, si ha più coraggio. Ci sono travestimenti anche nella vita di tutti i giorni con abiti o accessori che “vestono” alcune professioni completandone in un certo senso i ruoli. Ad esempio la cravatta del bancario, la tonaca del prete, le divise dei poliziotti. Come dire che l’abito fa il monaco quando ti dà l’autorità di interpretare quel ruolo.
Nella vita frenetica e materialistica del consumismo di oggi, quanto spazio resta per la fantasia?
Tantissimo, per via proprio dei tempi grigi che si è costretti a vivere che amplificano la voglia di evadere. Però i bambini oggi sono svantaggiati rispetto a 20/30 anni fa perché con i videogiochi tutto è già visibile e pronto all’uso e non lascia spazio alla fantasia.
Oggi come può essere preservata la creatività dei più piccoli?
Lasciandoli giocare con poche cose semplici senza troppi arricchimenti né sofisticazioni tecnologiche. Se al bambino gli dai un oggetto come un bastone di legno, lui è capace, grazie proprio alla creatività, di farlo diventare una spada o mille altre cose. Gli si offre la possibilità di sprigionare la fantasia.
Dal tuo osservatorio privilegiato, avendo calcato i palcoscenici di tutto il mondo, quanta disponibilità trovi nel pubblico al sorriso e all’emozione?
È la necessità dell’illusione che il pubblico soddisfa a teatro. Quella realtà immaginata che ci rende più felici inventando bugie fin da piccoli. Proiettandoci da adulti in forme di vite parallele con una gamma di mistificazioni che va dall’età anagrafica ai conti bancari gonfiati per la circostanza. Lo scopo a teatro è di creare un sogno con i trucchi e le finzioni per far vivere le “sane illusioni”.
In una scala di valori da uno a dieci che posto assegneresti all’arte?
Senz’altro dieci. L’arte e la fantasia sono ciò che ci distinguono anche dagli animali più evoluti. La storia dell’ingegno di un popolo passa anche attraverso il segno artistico che lascia in ricordo. Perciò quando sono all’estero sono fiero di essere italiano sapendo di venire da un Paese che possiede un quinto delle bellezze mondiali.
Hai appena finito di cimentarti con il programma radiofonico “tutto nudo a radio 2”, come cambia la comunicazione dal linguaggio dei gesti a quello parlato, restando fermo per tutto il tempo, anzi in ammollo dentro una vera vasca da bagno?
All’inizio ho avuto difficoltà ad essere da solo davanti al microfono senza avere un interlocutore o il pubblico che mi facesse rimbalzare. Un pò alla volta ho trovato una nuova dimensione, originale e arricchente. Oggi sono pronto a ripeterla per il pubblico della radio che non si vede ma c’è.
Di tutti i ricordi della tua carriera quale scegli di tirare fuori dal cilindro per i lettori della rivista?
Tra i tantissimi, ne ho uno paradossale legato al funerale di un anziano collega che si svolse in un’ambientazione felliniana. Ventenne ero a Parigi nel ‘79 a lavorare in teatro con una compagnia di 45 giovani e un vecchietto. Lui era stato il partner di Joséphine Baker e di tante altre star e nobildonne del bel mondo dell’epoca. Un adone e un precursore di tempi e mode, il primo per esempio a indossare il tanga. All’età di ottant’anni era ancora in scena con una piccola parte in frac e cilindro in questo lavoro teatrale ispirato al grande Fellini. Poi si ammalò e morì. Il regista decise di celebrare il suo funerale sul palcoscenico in un’edizione straordinaria dello spettacolo alle tre del pomeriggio. Ricordo il fondale col cielo blu che faceva parte dello spettacolo e la bara al centro del sipario rosso con il cappello a cilindro adagiato sopra. Il cilindro era proprio quello che indossava nel finale dello spettacolo.
Un’esperienza troppo intensa per l’emotività di voi giovani attori?
La scena era molto simile all’ambientazione del film “i mostri” di Dino Risi, con un pubblico di ex ballerine settantenni, attori agé con indosso uno smoking perché magari era l’unico vestito nero che avevano, nani, travestiti. Il prete recitò una poesia e poi portarono via la bara accompagnata dalla musica francese degli anni venti, attraverso la platea che applaudì fino all’uscita. Ricordo di aver pianto e riso con un altro attore in un angolo del teatro alla tragicommedia della vita.
Hai partecipato di recente, a Ferrara, allo spettacolo di consegna del Premio San Michele Arcangelo. Quanto aiuta questo tipo di testimonianza a divulgare ancor di più i principi di legalità?
Regole e limiti si imparano fin da piccoli con norme e divieti educativi. Se vengono a mancare da adulti si tende a usurpare le vite altrui, a favore dei propri benefici. Quindi diffondere i principi normativi e il rispetto delle leggi serve a tutelare i diritti di tutti. Il lavoro della polizia è un po’ come quello del genitore che dice “No, questo non si può”.