Irene Scordamaglia*
Lo giuro
La testimonianza della polizia giudiziaria
Premessa
È stata sempre l’amministrazione della giustizia a misurare il grado di civiltà di un popolo. E negli ultimi anni l’Italia in questo delicato settore ha smussato diversi angoli che rischiavano di gettare ombre sul nostro sistema giudiziario. Il momento più critico dell’amministrazione della giustizia è stato sempre quello del processo, cioè quello del confronto-scontro tra difesa e accusa, cioè quello della verifica delle testimonianze e delle prove. Praticamente siamo al banco di prova degli elementi accusatori e in questa fase assumono particolare rilevanza soprattutto le testimonianze della polizia giudiziaria. Anche perché nel frattempo il processo penale ha assunto una veste chiaramente garantista con il passaggio dal sistema inquisitorio a quello accusatorio con la figura del giudice che da inquisitore è divenuto giudice cosiddetto “vergine”. In forza di ciò oggi la difesa degli imputati ha diverse frecce in più nell’arco e la polizia giudiziaria deve lavorare con sempre maggiore professionalità e preparazione.
Il giudice “vergine”
Fino a ottobre 1989, data in cui è entrato in vigore il nuovo codice, il sistema del processo penale italiano era disciplinato dalle norme dettate dal Codice Rocco del 1930 che prevedeva un modello fondato sull’attività inquisitoria della polizia giudiziaria del pubblico ministero e soprattutto di un giudice inquirente che si articolava nei momenti della fase istruttoria e di quella del giudizio.
La fase istruttoria poteva poi essere sommaria, se condotta dal procuratore della Repubblica o dal pretore, oppure formale, se svolta dal giudice istruttore. La seconda fase del giudizio si snodava attraverso i giudizi di primo grado, di appello e eventualmente, di cassazione.
Il dato rilevante è che il materiale raccolto durante la fase istruttoria era conosciuto dall’organo del giudizio e poteva da questi essere posto a fondamento della propria decisione, in conseguenza del fatto che alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero e al giudice istruttore era consentito di compiere atti formativi della prova.
Il sistema del processo penale introdotto con la riforma del 1988, di stampo marcatamente accusatorio, si snoda invece attraverso la fase delle indagini preliminari e quella del giudizio.
Le più qualificanti connotazioni di tale modello di processo si rinvengono :
nel venir meno del giudice-accusatore (giudice istruttore) e dell’organo monocratico con funzioni sia investigative che decisorie (il pretore), come affermazione del principio per il quale il giudice non deve – per quanto possibile – conoscere nulla dei risultati delle precedenti indagini (mutuato dal principio di derivazione anglosassone del ‘virgin meant’) poiché deve maturare il proprio convincimento non in base alla lettura delle carte ma in base a quanto verrà dimostrato e verificato nel corso del dibattimento;
nel porre una rigidissima cesura tra la fase del dibattimento da quella delle indagini preliminari che sono del tutto estranee al processo vero e proprio.
Si è verificata dunque una vera e propria rivoluzione copernicana nel modo stesso di concepire il processo poiché l’attività svolta, nella fase delle indagini preliminari, dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero non è formativa della prova, ma diretta, piuttosto, alla individuazione degli elementi di prova che possono orientare esclusivamente il convincimento del pubblico ministero quanto all’esercizio dell’azione penale, essendo solo il dibattimento la sede ‘tendenzialmente’ destinata alla formazione delle prove utilizzabili dal giudice per la decisione.
I meccanismi di recupero
In deroga al principio di formazione della prova al dibattimento - di attività investigativa : l’irripetibilità genetica e l’irripetibilità sopravvenuta
In particolare il sistema di processo penale istituito nel 1988 si articola in un insieme di meccanismi volti a realizzare la verifica dell’ipotesi accusatoria in dibattimento, attraverso la formazione della prova nel contradditorio delle parti, poste su un piano di tendenziale parità, come del resto ormai sancito dall’art. 111 della Costituzione.
È stabilito così che ai fini della deliberazione il giudice può utilizzare soltanto le prove legittimamente acquisite nel dibattimento (art. 526 1°comma cpp), nel cui novero rientrano non soltanto le prove dichiarative (testimonianze) o quelle ricognitive (documenti), ma anche gli atti inseriti sin dalla sua formazione nel fascicolo per il dibattimento (art. 431 cpp), la cui acquisizione, in vista della utilizzazione per la decisione, ha luogo attraverso lo strumento della lettura o altrimenti della indicazione specifica della loro utilizzabilità (art. 511 cpp).
Attraverso l’inclusione nel fascicolo per il dibattimento vengono dunque messi immediatamente a disposizione del giudice – il quale secondo l’intento perseguito dal legislatore si dovrebbe porre di fronte alla regiudicanda in un atteggiamento ‘neutro‘ e con la mente sgombra da preconcetti – gli atti c.d. di impulso processuale, relativi alla proceibilità dell’azione penale e all’esercizio dell’azione civile in quanto atti privi di funzione probatoria; gli atti irripetibili compiuti dal pm o dalla pg, aventi senza dubbio funzione probatoria ma che, in quanto strumenti di acquisizione di “segni transeunti dell’avvenimento o di cose comunque posti al di fuori del processo“(così Cordero) non possono essere in nessun modo reiterati o comunque reiterati alle medesime condizioni; gli atti assunti nell’incidente probatorio o per rogatoria all’estero, il certificato penale, il corpo del reato o le cose pertinenti al reato.
Si comprende dunque che il concetto di atto irripetibile costituisce un pilastro della struttura del codice di rito: attraverso l’atto irripetibile infatti si consegue lo scopo di recuperare – in cont