Stefano Dambruoso e Vincenzo Spagnolo
Ultimo istante
Un libro per raccontare dieci anni di indagini sul terrorismo post 11 settembre. A scriverlo un magistrato assieme ad un giornalista
Superato lo shock dell’11 settembre 2001 la vita è tornata alla normalità. Non per tutti: da quel momento lo stato di allerta è divenuto una condizione quotidiana per coloro preposti a garantire sicurezza del Paese, forze dell’ordine, istituzioni, magistratura. Ecco allora che il giudice Stefano Dambruoso ha affidato al giornalista d’inchiesta Vincenzo Spagnolo le riflessioni lucide e incalzanti di chi non ha mai smesso di ragionare, valutare indizi, costruire collegamenti nella lotta al terrorismo. Ne è nato il libro Un istante prima, dove Dambruoso assieme a Spagnuolo ripercorre un decennio di indagini e di esperienza diretta, disegnando il profilo della nuova minaccia, dovuta a schegge impazzite che «non lasciano una scia definita, ma solo poche, labili tracce». È la parabola del jihadismo fai-da-te, subdola minaccia portata alle nostre società da attentatori isolati che si abbeverano a farneticanti proclami su Internet. Come Mohamed, l’immigrato libico che si è fatto saltare in aria davanti a una caserma a Milano nel 2009, e del quale il capitolo del libro qui pubblicato ricostruisce, passo dopo passo, la tragica storia, ricordandoci che lo spettro del terrore non consente cali di attenzione e diventa dunque fondamentale, per evitare nuove stragi, anticipare le mosse dei potenziali attentatori, per poter arrivare prima che l’ordigno venga innescato. Anche solo un istante prima.
La caserma
È l’una di notte nell’appartamento di via Civitali, quartiere San Siro. Mohamed osserva con determinazione lo schermo di un computer. Le parole scorrono rapide davanti ai suoi occhi, mentre sposta il cursore del mouse. Poi, le sue dita si muovono sulla tastiera: «Operazione martire» digita nel motore di ricerca Google. Lui fissa la stringa di risultati, leggendola con attenzione.
Ha scelto la data: il 12 ottobre, è l’anniversario del giorno in cui, molti anni prima, gli ultimi italiani lasciarono il suolo libico. E ha scelto anche l’obiettivo. Quello più a portata di mano: la caserma davanti alla quale è passato spesso. Sa che, di mattina presto, c’è una certa confusione all’ingresso, dovuta al rientro dei militari in licenza. La bomba è pronta: ha infilato cinque chili di nitrato dentro la custodia di una cassetta degli attrezzi. Ci ha aggiunto il triperossido di triacetone. Intende attivarlo col calore: attraverso un buco nella plastica della cassetta infilerà una cicca di sigaretta accesa.
Sei ore dopo, Mohamed è in strada, in mezzo al frastuono dei clacson e allo smog espulso dai tubi di scappamento. Mentre si avvicina all’ingresso della caserma, le sue dita stringono la sigaretta.
Il suo corpo è impacciato, sotto il peso della cassetta degli attrezzi con la miscela esplosiva. Come aveva previsto, c’è movimento di vetture e di militari. Si affianca a un’auto bianca. Tiene la cassetta abbassata e il mozzicone di sigaretta pronto. Sulla porta carraia c’è un caporal maggiore. Si chiama Guido e ha solo vent’anni. È nato in Puglia, a Ostuni, e ha chiesto di entrare nell’esercito in servizio di ferma annuale, nella speranza di trovare ciò che per tanti giovani del Sud resta una chimera: un lavoro serio e dignitoso, di cui andare fieri.
Ha preso servizio alle sette in punto. Mezz’ora dopo, si è spostato all’esterno, a tre metri dal cancello: a quell’ora, e solo per quindici minuti, è possibile l’ingresso delle vetture private dei militari in servizio. E lui si è piazzato lì, proprio per agevolare le manovre. Per quel motivo, anche i due cancelli di sicurezza, uno verniciato di giallo, l’altro di nero, sono aperti.
Mentre saluta i commilitoni e gli ufficiali che entrano, Guido sente qualcuno gridare in una lingua che lui non capisce. Si gira e vede un uomo che urla e regge in mano un oggetto rettangolare, forse una scatola da scarpe, o una borsa...
In quel momento, dal cancello sta transitando una Punto bianca. Al volante c’è Paolo, anche lui caporal maggiore e, come Guido, in servizio presso la caserma. Sta per varcare la porta quando l’uomo con la scatola lo precede, infilandosi a piedi nell’ingresso riservato alle vetture. Anche lui lo sente gridare. Poi lo osserva chinarsi sulla scatola. Ormai non c’è più tempo per le procedure, né per le domande. Mohamed non si ferma. Anzi, avanza deciso. Un passo, poi un altro ancora. Infila il mozzicone di sigaretta. Lo scoppio è assordante. Il caporal maggiore Guido, che si trova a meno di sei metri, viene sbalzato via. Prova a rialzarsi, ma è intontito. Ha un graffio sul viso e perde sangue.
Anche il suo commilitone, Paolo, dentro la macchina, viene investito dall’onda d’urto e dal polverone. Non sa cosa stia avvenendo, ma d’istinto si getta fuori dalla vettura, impaurito e sotto shock. Mohamed è a terra. Ha il corpo straziato dalle ferite, ma respira.
Un poliziotto, appena arrivato, gli si avvicina. È impaurito, teme che possa avere addosso altri ordigni. Lui non riesce a vederlo, l’esplosione lo ha accecato. Ma può urlargli contro la sua rabbia: «Vengo dalla Libia. Ve ne dovete andare via dall’Afghanistan» grida, con un rantolo strozzato dal dolore.