Cristiano Morabito
A misura di famiglia
Allontanare i teppisti dagli impianti: questa la filosofia che ha ispirato la strategia per la sicurezza degli stadi italiani. Con ottimi risultati
Roma, 28 ottobre 1979. Allo stadio Olimpico va in scena il derby della Capitale. Gli spalti sono gremiti di spettatori e le squadre ancora non sono entrate in campo. Tra cori, coreografie e tipici sfottò tra tifosi si attende la partita. In un momento il clima festante di una giornata di sport si trasforma in dramma. Una scia bianca attraversa il campo dalla curva Sud alla curva Nord. È un razzo sparato dal settore dei tifosi romanisti che centra in pieno volto Vincenzo Paparelli, 33 anni, e lo uccide sul colpo. Sono passati più di trent’anni da quell’episodio. Trent’anni in cui lo sport più amato dagli italiani è stato segnato da numerosi altri incidenti dei quali, alcuni purtroppo, mortali. I nomi che si ricordano sono quelli di Vincenzo Spagnolo, il tifoso genoano accoltellato nel ’95 durante un Genoa-Milan, o ancora quelli più recenti di quello che viene definito come l’annus orribilis del calcio italiano: il 2007. Fu l’anno della morte di Ermanno Licurzi, il dirigente della Sanmartinese rimasto coinvolto in una rissa, di Filippo Raciti, caduto in servizio durante il derby Catania-Palermo il 2 febbraio, e di Gabriele Sandri l’11 novembre.
I tragici eventi del 2007 comportarono un’accelerazione non solamente nella vera e propria “produzione” di nuove norme destinate al controllo e al ripristino dell’ordine pubblico negli stadi italiani, ma anche un maggior impegno nel far rispettare le leggi e un input più deciso nella responsabilizzazione delle società calcistiche perché si adoperassero per un adeguamento degli impianti sportivi alle nuove misure di sicurezza che venivano richieste.
Negli ultimi 10 anni, come viene sottolineato dal “Rapporto sulla criminalità e la sicurezza in Italia 2010” presentato dal ministro dell’Interno Roberto Maroni lo scorso luglio, c’è stato un progressivo irrigidimento e perfezionamento delle regole d’accesso negli stadi (prefiltraggi, tornelli) e delle misure repressive nei confronti dei fenomeni violenti negli impianti sportivi (reati da stadio e arresto differito). Allo stesso tempo, anche grazie al progresso tecnologico, sono stati migliorati i sistemi di controllo all’interno (uso sistematico della videosorveglianza con telecamere ad alta definizione) e all’esterno delle strutture.
La filosofia che ha ispirato la strategia per la sicurezza negli stadi italiani è stata quella di cercare un progressivo allontanamento dagli impianti sportivi di tutti quei soggetti pericolosi per gli spettatori e per le tifoserie organizzate non violente, aumentando sia le misure di prevenzione che gli interventi mirati per ciascuna partita. Un processo che ha portato ad un incremento nell’individuazione, da parte dell’Osservatorio sulle manifestazioni sportive, di un numero sempre maggiore di partite “a rischio”.
Da un’analisi dei dati messi a disposizione dal “Rapporto”, si evince come negli ultimi cinque anni ci sia stata una diminuzione consistente dei fenomeni di violenza e teppismo in occasione di manifestazioni sportive, alla quale corrisponde un ulteriore calo degli scontri con le forze dell’ordine e quindi anche dei feriti. In particolare i campionati 2007-2008 e 2008-2009 hanno fatto registrare successi importanti quali la diminuzione delle denunce, degli arresti e dei Daspo emessi. Una strategia i cui risultati saranno maggiormente visibili nel lungo periodo. L’esperienza maturata dagli altri Paesi europei mostra come l’efficacia delle politiche di contrasto aumenti e perduri nel tempo solo se affiancata da altre iniziative volte al coinvolgimento dei tifosi stessi (comunicazione, promozione sociale, eccetera).
Infatti gli esperti del settore sostengono che il solo ricorso a mezzi di controllo dall’esterno come la videosorveglianza, portano ad una trasformazione in termini sempre più individualistici dei rapporti di gradinata con una conseguente deresponsabilizzazione dei tifosi nel reciproco controllo. Una situazione che rende più complessa l’individuazione di focolai di violenza, con una gestione più problematica delle emergenze a causa del ridimensionamento dei rapporti tra forze dell’ordine e tifoso. Per arginare questo fenomeno nel 2005 è stata varata un’integrazione alla normativa sul calcio che prevede la necessità di promuovere programmi ed azioni per la diffusione di una sana cultura sportiva, a cominciare dalle scuole con la collaborazione del ministero della Pubblica istruzione. Quindi creare una cultura sportiva dall’inizio, dai più giovani, ma anche per chi più giovane non è e vuole continuare a frequentare gli stadi.
In questo caso scendono in campo anche le società con programmi di fidelizzazione dei propri supporter. La vera chiave di volta, nel breve/medio periodo, è proprio questa: la ricerca di una maggiore percezione della responsabilità della dirigenza delle società sportive nella sicurezza degli impianti sportivi. E questo passa sia attraverso l’ammodernamento delle strutture, sia proponendo benefit ai supporter più fedeli in possesso della tessera. E c’è chi ha già iniziato a farlo.
Un cuore rossonero
Le società di calcio si sono adeguate alla normativa emettendo le proprie tessere del tifoso. Ecco come una delle più importanti, il Milan, ha affrontato questa vera e propria rivoluzione del calcio di casa nostra. Ne abbiamo parlato con Alfonso Cefaliello (nella foto in alto), consigliere d’amministrazione e direttore amministrazione, finanza e servizi di gruppo della società rossonera.
La stagione calcistica 2011-2012, dopo un anno di rodaggio, sarà quella in cui la tessera del tifoso entrerà a regime.
Per quanto riguarda la mia società, noi già dalla stagione 2008-2009 avevamo introdotto “Cuore rossonero” che, oltre ad essere il nostro veicolo di comunicazione tra società e supporter, era già una sorta di “tessera del tifoso”. Questo programma partì in via sperimentale, d’accordo con il ministero dell’Interno, e poi ci siamo adeguati alla normativa che imponeva dei nuovi passaggi tecnici. Si può dire che siamo stati dei precursori della “tessera” e anche i numeri ci hanno dato ragione: siamo al primo posto con oltre 300mila tesserati, mentre altri club arrivano sì e no a 100mila.
Ritiene che ci sia ancora qualcosa di migliorabile nel programma “tessera del tifoso”? Quale tipo di contributo potrebbero dare ancora le società calcistiche?
I club adesso dovrebbero evolversi facendo diventare la “tessera” un vero e proprio simbolo di appartenenza alla squadra per cui si tifa. Ora la palla passa ai club per cercare di far diventare la tessera uno strumento di fidelizzazione delle tifoserie. Senza contare anche l’eventuale sviluppo di aspetti commerciali a vantaggio dei supporter. Ma la vera garanzia che ha dato la tessera del tifoso è che si è passati da stagioni nelle quali l’abbonamento era sostanzialmente anonimo e impediva ai club di fare delle promozioni commerciali per i propri tifosi, al consentire alle società di conoscere meglio i propri supporter, proprio per poter effettuare iniziative mirate nei loro confronti.
Molte tifoserie ed alcuni dirigenti si sono scagliati contro la tessera del tifoso ritenendola una sorta di schedatura…
Direi che non risponde al vero. Pensiamo, allora, a quanti dati bisogna inserire quando si acquista con una carta di credito un biglietto aereo su internet oppure quando si richiede una nuova scheda per un cellulare: manca poco che ci venga richiesta anche la dichiarazione dei redditi! Mi sembra che affermazioni del genere siano un po’ pretestuose, limitate, fortunatamente, ad una minoranza.
Alcune società, dall’introduzione della tessera del tifoso, hanno lamentato un calo degli spettatori negli stadi…
Sono convinto che il calo dei tifosi non sia strettamente legato alla tessera, anche se quest’ultima appare come il principale imputato. Dopo l’episodio di Raciti, sono state introdotte una serie di norme di cui fa parte anche la tessera del tifoso, come i prefiltraggi all’ingresso e i tornelli, che hanno reso un po’ più complesso l’ingresso negli stadi italiani. A queste va aggiunta anche una frammentazione della programmazione delle partite su giorni e orari diversi. È evidente che, per chi era abituato ad andare allo stadio la domenica pomeriggio diventa più complicato decidere di andare a vedere un match di calcio.
Tutti ricordano l’episodio del motorino volato giù dagli spalti di San Siro nel 2001. Cosa è cambiato da allora nella gestione della sicurezza interna degli stadi italiani?
Da allora è cambiato molto. San Siro è uno stadio gestito da due dei più importanti club a livello europeo e quello del motorino, fortunatamente, è stato solo un episodio isolato. Cose del genere qui da noi non sono più accadute. L’introduzione dei prefiltraggi, dei tornelli, dei biglietti nominativi e degli steward hanno contribuito alla sicurezza degli impianti. Queste norme, secondo me, hanno avviato una sorta di cambiamento culturale all’interno delle tifoserie, nella direzione del fruire dello stadio in modo diverso e non più come “zona franca” in cui sfogare la propria violenza repressa durante la settimana. Qui a Milano, ad esempio, durante il derby con l’Inter i tifosi di entrambe le squadre che entrano insieme allo stadio senza alcun problema. Per quanto riguarda la situazione del resto d’Italia sono molto preoccupato per gli impianti del Centro-Sud. Si è tutti concentrati sul campionato di Serie A, ma i veri problemi nascono dai campionati “minori”, per il fatto che la maggior parte degli stadi non sono di proprietà delle società ma delle amministrazioni comunali che, dall’oggi al domani, si sono trovate a dover fronteggiare ingenti investimenti economici per rendere sicuri gli impianti. In alcuni casi si è arrivati alla parziale chiusura di stadi che non rispondevano ai requisiti previsti dalle normative, con immancabili conseguenze per l’ordine pubblico.
Quindi il futuro è nella proprietà degli impianti da parte delle società?
Si evoca sempre l’esempio degli stadi inglesi. Questo ritengo sia un falso mito perché basato su eventi tragici (più di cento morti) per i quali il calcio inglese ha patito cinque anni di squalifica dalle competizioni europee. In conseguenza vennero varate leggi realmente repressive nei confronti degli hooligans che, per un reato da stadio, prevedevano come pena anche la perdita del posto di lavoro. Gli Inglesi, bisogna dirlo, sono stati bravi ad investire come Stato per consentire ai club di poter avere degli stadi di proprietà. È chiaro che se si considera lo stadio come luogo pubblico oppure come casa propria, l’approccio è completamente diverso.
Pensa che l’introduzione degli steward e il non vedere più le forze dell’ordine all’interno degli stadi abbia contribuito a calmare le tifoserie?
Nel nostro Paese ancora non si è abituati culturalmente ad una figura del genere. Faccio sempre l’esempio degli ausiliari del traffico che, anche se non particolarmente amati dagli italiani, durante l’esercizio della loro funzione sono dei pubblici ufficiali. Nel Regno unito anche gli steward lo sono, qui da noi ancora no. Sebbene l’introduzione della figura dello steward nelle curve, invece dei poliziotti, visivamente ha contribuito a calmare gli animi. Ricordiamoci, comunque, che chi crea disordini è sempre una ristretta minoranza di tifosi. La maggior parte degli spettatori si sono sentiti penalizzati da misure restrittive (prefiltraggi, tornelli, ecc…) per colpa di quella stessa minoranza che aveva reso le curve delle “zone franche” dove si godeva di una certa impunità. Oggi a San Siro ci sono più di 150 telecamere ad alta definizione che, ormai, rendono l’impunità una pia illusione. Le norme che sono state varate sono servite anche ad accompagnare questa sorta di cambiamento nella cultura del tifo.