Roberta Bortone
La stagione dei diritti*
La riforma è stata una tappa importante anche per l’ingresso del sindacato nell’organizzazione della polizia
Gli Anni ‘70 sono stati un periodo di grande democratizzazione del Paese, avendo visto il pieno riconoscimento dei princìpi di libertà sindacale e dignità delle persone all’interno dei luoghi di lavoro. Fino ad allora, infatti, molti princìpi cui la Costituzione riconosce valore fondamentale si trovavano privi di tutela effettiva, in quanto da più parti si sosteneva l’inapplicabilità delle disposizioni costituzionali a regolare i rapporti individuali. Conseguenza di quest’orientamento era – nonostante il principio di libertà sindacale fissato dall’art. 39 della Costituzione – una prassi diffusa di discriminazione da parte dei datori di lavoro nei confronti dei lavoratori attivi sindacalmente, praticata attraverso indagini sulle opinioni sindacali e politiche dei dipendenti e comportamenti sanzionatori verso chi partecipava all’attività sindacale (da mancate progressioni di carriera a trasferimenti in reparti-confino, fino al licenziamento).
Solo grazie ai movimenti rivendicativi della seconda metà degli Anni ‘60 si giunse a dare piena attuazione al principio di libertà sindacale nei luoghi di lavoro, prima con la legge 604 del 1966 che dichiarò nulli i licenziamenti intimati per ragioni di carattere politico, religioso e sindacale e poi con la legge 300 del 1970 – lo Statuto dei lavoratori – che riconobbe il diritto di esprimere la propria libertà sindacale nei luoghi di lavoro e allo stesso tempo vietò ogni forma di discriminazione per motivi sindacali, politici e religiosi e perfezionò la tutela contro i licenziamenti illegittimi.
Il primo essenziale passo per la democratizzazione dei luoghi di lavoro era compiuto, ma ancora molto restava da fare.
Prima di tutto va segnalato che nonostante il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione e l’espressa previsione del diritto alla parità di trattamento tra lavoratrici e lavoratori sancito dall’art. 37, era considerato normale discriminare le donne in ragione del loro genere. Basti pensare che solo con la legge n. 66 del 1963 si era riconosciuto alle donne il diritto di accedere a tutti gli uffici pubblici compresa la magistratura, e che solo con la legge n. 903 del 1977 si vietò la discriminazione tra uomini e donne sul lavoro.
La legge 121/1981 di riforma della Polizia di Stato ha rappresentato un ulteriore tassello nel processo di democratizzazione dell’Italia.
Fino a quel momento, la struttura militare della pubblica sicurezza aveva impedito che la Costituzione trovasse applicazione in questo ambito: il sindacato restava escluso del tutto e la legge 1083 del 1959 aveva ammesso le donne al corpo separato di Polizia femminile per migliorare la prevenzione dei reati che coinvolgessero donne e bambini, ma senza finalità di parità.
Nel corso degli Anni ‘70 i movimenti democratici rivendicativi di spazi di libertà finirono per coinvolgere anche le Forze armate e la Polizia, per la quale si richiedeva la smilitarizzazione e la definitiva legittimazione del sindacato. In quel periodo infatti – in collaborazione con Cgl, Cisl e Uil – nacquero spontanei comitati di coordinamento diffusi sul territorio la cui pressione portò, nel 1976, alla circolare n. 555/318 che autorizzava formalmente il personale della pubblica sicurezza a costituire comitati in vista di una riforma del Corpo (foto in bianco e nero, nella pagina precedente).
Grazie a quel movimento democratico la legge 121 segnò l’ingresso del sindacato nell’organizzazione della Polizia e la piena apertura degli accessi alle donne, almeno formalmente in condizione di parità.
Per quello che riguarda il sindacato, l’art. 82 della legge n. 121 ha riconosciuto finalmente il pieno diritto degli appartenenti alla Polizia di Stato di associarsi in sindacato con l’unico limite dell’indipendenza da altre organizzazioni sindacali e ciò per il timore di una politicizzazione delle forze di polizia: “non possono iscriversi a sindacati diversi da quelli del personale di polizia né assumere la rappresentanza di altri lavoratori”, recita la norma.
In questi trent’anni la presenza sindacale si è rafforzata e ai primi due sindacati iniziali – Siulp (sindacato unitario lavoratori polizia) allora legato alla triplice Cgil, Cisl, Uil, e Sap (Sindacato autonomo polizia) – si sono affiancate altre sigle a partire dagli anni Novanta. Oggi i più rappresentativi sono: Siulp, Sap, Fsp (federazione sindacale di polizia), Siap (Sindacato italiano appartenenti polizia), Silp per la Cgil-Uilps, Ugl,
Coisp, Consap, Sup.
Così come nel resto del mondo del lavoro, l’unità che rappresenta il naturale sbocco di movimenti che rivendicano l’abolizione di divieti, poco alla volta ha ceduto rispetto alla complessità dei problemi indotti dalla rappresentanza di interessi collettivi.
Di certo la mancanza di unità sindacale e la tensione tra le diverse sigle riduce la forza di ciascuna e e comporta problemi nella gestione delle relazioni. Ma chi scrive è convinta che il pluralismo non riduca l’apporto democratico che la presenza sindacale garantisce.
*professoressa di Diritto del lavoro dell’Università Sapienza di Roma