Carlo Fruttero e Massimo Gramellini

Storie di una Nazione

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 Se è vero che in un giorno non si fa la Storia è altrettanto vero che la Storia è fatta di date significative che racchiudono l’essenza degli eventi. In queste pagine attraverso alcune delle giornate raccontate da Massimo Gramellini, vicedirettore della Stampa e dallo scrittore Carlo Fruttero, pubblicate sul quotidiano torinese e poi raccolte nel libro “La Patria, bene o male”, Poliziamoderna ripercorre i 150 anni dell’Unità di Italia affidandosi non alla ufficialità (e alla seriosità) dei libri di storia e di saggistica, ma alla leggerezza non priva di amara ironia di alcune istantanee che immortalano i momenti epocali della nascita della Nazione (dalla nomina di Vittorio Emanuele II Re Italia alla presa di Roma con la breccia di Porta Pia); il rinfocolamento dell’identità italiana a distanza di cinquanta anni con la progettazione del Vittoriano a Roma nel 1911 (scelto non a caso quale Centro espositivo-informativo per le celebrazioni del 2011); uno dei primi entusiastici sventolamenti del tricolore per la gioia sportiva con la vittoria di Livio Berruti, atleta della Polizia di Stato, alle Olimpiadi romane del 1960; l’ultima pagina del 150° è da scrivere con la partecipazione, ci auguriamo calorosa di tutti, alle tante iniziative dalle Alpi alle Madonìe per festeggiare il nostro compleanno di Italiani. Perché, bene o male che sia, questa è la nostra Patria e ne siamo orgogliosi.

17 marzo 1861
Un’Italia, anzi due

L’Italia nasce a Torino, di domenica. Battezzata dalla Camera per acclamazione e dal Senato con due voti contrari (leghisti precoci?), la creatura viene mostrata in pubblico per la prima volta sulla «Gazzetta Ufficiale» del 17 marzo 1861 con questa frase: «Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia». I travagli del parto hanno attraversato le guerre d’indipendenza e l’epopea dei Mille per sfociare nel bombardamento della fortezza di Gaeta, dove il Re borbonico ha tentato l’ultima resistenza. Si è arreso il 13 febbraio, appena in tempo per non turbare l’inaugurazione del primo Parlamento italiano, celebrata cinque giorni dopo nell’aula che l’architetto Peyron ha costruito a Torino nel cortile di Palazzo Carignano. Vittorio Emanuele vi è giunto fra due ali di folla e squilli di fanfara. E ha letto ai 443 rappresentanti della nuova nazione il discorso preparatogli da Cavour: «Signori senatori! Signori deputati! L’Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra!». Illusioni di gioventù. Nord e Sud (all’appello mancano solo Roma e Vene zia) tornano a vivere insieme. Non accadeva dalla caduta dell’Impero romano. A deciderlo però è stata un’esigua minoranza, Alle elezioni di gennaio ha partecipato l’1% degli italiani: duecentoquarantamila maschi con un carico d’imposta di almeno quaranta lire. L’Italia è fatta, ma senza i cattolici (la Chiesa ha proibito le urne ai fedeli), le donne, gli analfabeti, i poveri e gli evasori fiscali: il restante 99%, insomma. Cavour, che ne ha presi più di tutti, nel suo collegio ha ottenuto appena 620 voti. Ma sono le minoranze decise a fare la Storia e, conquistato il potere, a imporla alle maggioranze inerti come epica collettiva. Accade così che generazioni di italiani siano cresciute nel culto di gesta alle quali il popolo aveva fatto da spettatore. La formula battesimale allude a Vittorio Emanuele II e quel «II» la dice lunga sull’idea che i vincitori hanno dell’Italia: non uno Stato nuovo, ma il prolungamento di quello vecchio, le cui leggi vengono estese in modo automatico alle altre regioni, con conseguenze disastrose soprattutto al Sud. Gli spaesati luogotenenti sabaudi, scesi nell’ex Regno delle Due Sicilie per governarlo come una colonia, devono appoggiarsi ai consiglieri locali e ai loro maneggi: per qualche mese ai vertici della polizia napoletana ci sarà il capo della camorra. Forse non si può fare meglio. Di sicuro non può farlo una Camera che pullula di notabili meridionali, assai simili a quelli raccontati nel Gattopardo, custodi gelosi dei propri privilegi. Da Torino a Palermo, la Destra di governo rappresenta una classe compatta, l’alta borghesia, ed è guidata da un genio completo, Cavour. Invece la Sinistra è divisa e anche il genio che la guida è spaccato in due: ha la testa di Mazzini e il braccio di Garibaldi, in baruffa perpetua tra loro. La morale della favola risorgimentale è che i democratici ne scrivono le pagine più romantiche, ma sono sempre i moderati a incassare i diritti d’autore.
Comunque sia, oggi è domenica e l’Italia è nata. Ha una madre possessiva, la Destra, e un padre severo, il Piemonte. Gli altri italiani devono imparare a sentirla figlia propria. Non sarà un’impresa facile, tanto è vero che dopo centocinquant’anni vi siamo ancora impegnati.

29 agosto 1862
Garibaldi fu ferito

Due anni dopo la grande impresa, il primo dei Mille decide di tornare in Sicilia. Nessuno sa esattamente perché, forse nemmeno lui. Ai compagni di traversata confida: «Andiamo verso l’ignoto, sarà quel che sarà». Durante un bagno di folla a Marsala sente echeggiare «O Roma o morte!» e lo slogan, destinato a diventare lo «Yes we can» italiano, gli schiarisce le idee: risalirà il Sud liberato per invadere il Lazio, ultima ridotta del potere temporale del Papa.
Comincia a reclutare volontari e i soldati piemontesi di stanza nell’isola lo lasciano fare. Un atteggiamento ambiguo che alimenta le voci secondo cui Garibaldi agirebbe in combutta col Re e col nuovo primo ministro Urbano Rattazzi, che dopo la morte improvvisa di Cavour si sforza di imitarne le mosse senza possederne il talento acrobatico.
Le camicie rosse si impadroniscono di due piroscafi e salpano verso il continente, Quando l’ammiraglio Albini, che incrocia nello stretto di Messina, telegrafa al ministro Persano per avere lumi, ottiene una risposta che è un piccolo capolavoro di italianità: «Agite a seconda dell’occasione, ma tenete sempre presente il bene del Paese». E quale sarà questo bene? Nel dubbio l’ammiraglio gira la testa dall’altra parte e i garibaldini approdano indisturbati in Calabria, dove però sono accolti a fucilate: evidentemente lì l’esercito ha ricevuto altri ordini.
Gli «irregolari», ammesso che sia lecito chiamarli così (in fondo due anni prima il Sud lo hanno liberato loro), si rifugiano sull’Aspromonte e saccheggiano per fame un campo di patate. Qui vengono sorpresi da un reparto di bersaglieri. Garibaldi non vuole la guerra civile. Avanza da solo incontro ai soldati regi, la mano destra sull’elsa della sciabola. Gli sparano addosso. La prima pallottola lo colpisce a una coscia, la seconda si conficca nel malleolo. «Andate fuori, gridando viva l’Italia!» ordina alle camicie rosse, prima di accasciarsi. Nella mischia rimangono sul terreno dodici uomini: italiani uccisi da italiani.
Il Generale viene appoggiato a un pino (che esiste ancora), in bocca ha il solito mezzo toscano. Sarà il colonnello Pallavicini ad arrestarlo, ma solo dopo avergli fatto il saluto militare. La marcia dei bersaglieri che tanti di noi hanno storpiato a scuola per imparare le vocali («Garibaldi fu ferito… ») trae origine da quell’episodio inglorioso.
A Londra una manifestazione di protesta raccoglie centomila persone. Con grande sprezzo del ridicolo, il governo di Torino premia i feritori di Garibaldi e promuove Pallavicini generale. Il ministro Persano, che è all’origine del pasticcio, resta ancorato alla poltrona. In compenso invita l’ammiraglio Albini a dare le dimissioni. Li ritroveremo entrambi nel disastro di Lissa. L’Italia è appena cominciata, ma si assomiglia già.

20 settembre 1870
Con chi comanda

Breccia di Porta Pia, Roma capitale d’Italia. Ma la data decisiva è il 1° settembre. A Sedan l’imperatore francese Napoleone III (detto «il Piccolo» da Victor Hugo) viene sconfitto dai prussiani, contro i quali s’è lasciato incautamente trascinare in guerra. Abdica e se ne va in esilio, e con lui la sua benevola protezione sullo Stato Pontificio. A Firenze, capitale provvisoria, nessuno è così cieco da non vedere. la grande occasione: si può prendere Roma, finalmente. Si organizza con la massima fretta un corpo di spedizione con numerosi reggimenti di fanteria, cavalleria, bersaglieri, treni di artiglieria. Troppo? Ma le forze papaline non sono misere, ci sono zuavi, svizzeri, italiani, mercenari di varia provenienza e non si sa che tipo di resistenza abbia in mente il Papa (Pio IX). Farebbe bene a cedere senza sparare un colpo, ma potrebbe anche decidere di combattere fino all’ultimo uomo. Il confine viene passato pacificamente, le lunghe colonne italiane marciano tra contadini incuriositi, a volte plaudenti. Ma quando arrivano in vista della città tutte le porte sono sbarrate e fortificate. Possibile che non ci siano trattative segrete? Impossibile. Ma il Papa ci tiene a mostrare che il suo antichissimo regno è stato preso con la forza. Sarà così Porta Pia a fare le spese di questo scontro simbolico.
Una batteria italiana comincia a picchiare sulla barricata mentre dai casolari e dai villini sulle colline della Nomentana una folla di curiosi, di nobili, di giornalisti assiste all’evento. Fuoco, fiamme, rombo di cannoni, fitta e intermittente fucileria, ma infine una breccia si apre, i nostri entrano di corsa, ci sono ancora spari isolati e poi tutto finisce. (I morti però non sono simbolici: cadono in 68, 49 italiani e 19 pontifici). All’interno della città nessuna resistenza, anzi. In poche ore spuntano da tutti i balconi le bandiere tricolori, una folla sempre più entusiastica festeggia i «liberatori». Il Papa si è chiuso nei palazzi vaticani, teme di essere malmenato, chiede protezione ai suoi nemici che gli mandano un battaglione in piazza San Pietro. La folla intanto cresce, soprattutto i bersaglieri diventano oggetto di conquista. Tutti vogliono una penna come souvenir, i giovani militari spennacchiati si arrampicano su e giù per il Colosseo. Baci, abbracci, canti, vino in abbondanza. Le truppe papaline vengono frattanto fatte uscire alla chetichella dalle mura e spedite a Civitavecchia.
Di loro i romani raccontano storie di soprusi e violenze non si sa quanto autentiche. Edmondo De Amicis, lì come inviato, è travolto da tanto esuberante, frenetico patriottismo.
Ma non manca di registrare la filosofica rassegnata risposta di un popolano: «Noi stiamo con chi comanda».

4 giugno 1911
Mostro ma sacro

In occasione del primo cinquantenario dell’Unità d’Italia, il Re inaugura un grandioso monumento nel cuore di Roma, dedicato al nonno Vittorio Emanuele lI (di qui il nome Vittoriano), che ospita anche l’Altare della Patria. È interamente costruito in marmo bianco estratto dalle cave del Bresciano, scelto perché di facile lavorazione.
Tutto è cominciato nel 1880 con un concorso internazionale vinto da uno scultore francese. Ma nel 1882 c’è un secondo concorso riservato ai soli italiani. Le proposte presentate sono novantotto, tre vengono selezionate per la scelta finale e l’opera è infine affidata al giovane architetto Giuseppe Sacconi. L’idea è di creare una sorta di grande Foro, una piazza sopraelevata al centro della Roma imperiale.
Il monumento sorge tra accese polemiche: per l’imperatore Traiano, per Napoleone, per Nelson si è ritenuta sufficiente una colonna, e su una maestosa colonna Vittorio Emanuele II domina i viali torinesi. Ma a Roma si pensa che non basti, c’è da rievocare l’antica grandezza della Città Eterna e da bilanciare, più o meno implicitamente, la grandiosità della basilica di San Pietro e della piazza ideata dal Bernini.
Si procede dunque a una rivoluzione urbanistica di tutta la zona dove sorgerà il «mostro», la «torta nuziale», la «macchina da scrivere». Viene demolito un intero quartiere medioevale, antiche chiese e rovine romane sono tolte di mezzo, non c’è sarcasmo, polemica, critica urbanistica che resista alla gigantesca allegoria carica di scalinate, gallerie, recessi e passaggi di ogni genere. Nonché naturalmente di decine e decine di statue simboleggianti il lavoro, il genio italico, le messi della Puglia, la corona ferrea di Milano, le Repubbliche marinare, tutte le regioni, tutte le città cosiddette «nobili» e i sei gruppi in marmo e bronzo che rappresentano i sei presunti valori degli italiani: Pensiero, Azione, Sacrificio, Diritto, Forza, Concordia.
Con la Grande Guerra il monumento acquista ancora un altro significato. Il lungo massacro ha acceso nell’animo dei governanti un commovente slancio retorico: l’idea di celebrare la strage onorando le ossa di un soldato senza nome, scelto a caso sul campo di battaglia. E il Vittoriano sembra fatto apposta per diventare anche la tomba del Milite Ignoto. Qui, dunque, avranno modo di perpetuarsi le guardie d’onore, le cerimonie su e giù per l’immenso scalone, le corone commemorative, gli squilli di tromba, le visite compunte dei potentati.
Chi ci passa davanti ogni giorno non fa più caso al Vittoriano. Gli stranieri lo guardano con un certo stupore. Una parte maggioritaria degli italiani lo trova non solo indispensabile, ma anche bello. Una piccola minoranza continua a giudicarlo la più grave e ineliminabile offesa che si potesse fare a una città come Roma.

3 settembre 1960
L’arcangelo frigido

Nonostante le convulsioni e i contorsionismi della politica, l’Italia è una potenza economica e Roma è la sede delle Olimpiadi estive, Che organizzerà benissimo, nonostante la pioggia di soldi abbia partorito il padre di tutti gli appalti, l’aeroporto di Fiumicino, costato cinque volte più del dovuto: già pochi mesi dopo l’inaugurazione, la pista si squaglia come un gelato perché è stata costruita con materiali sca denti su un terreno paludoso.
Sono Giochi splendidi, nonostante. Abebe Bikila vince la maratona, nonostante corra a piedi nudi, Cassius Clay incanta sul ring, nonostante saltelli più che picchiare. Wilma Rudolph diventa la donna più veloce del mondo, nonostante sia stata una bimba affetta da poliomielite. E uno studente torinese diventa un mito, nonostante corra con gli occhiali da vista e i calzini bianchi.
Quando, alle quattro del pomeriggio, Livio Berruti esplode dai blocchi dei 200 metri piani, pochi scommetterebbero di rivederlo in pista due ore più tardi nella finalissima. Gli è capitata la batteria peggiore, quella dei tre primatisti mondiali. Li supera in curva con una corsa talmente fluida che può concedersi il lusso di una frenata sul rettilineo per non sprecare energie.
È questo, adesso, il problema. Quanta benzina gli sarà rimasta? Le due ore di attesa sono, per gli italiani, le più emozionanti dei Giochi, Sugli spalti dell’Olimpico i venditori di bibite scandiscono «Coca-Cola, acqua minerale, Berruti» e nei tinelli d’italia, dove per la prima volta la televisione porta le emozioni del grande sport, si intrecciano previsioni e scommesse. Tutti si chiedono cosa starà facen do Berruti. E nessuno immagina la verità: è sdraiato su una panca degli spogliatoi con un libro fra le mani, l’esame di chimica organica.
Eccolo in pista, finalmente. Con un lembo della tuta pulisce gli occhiali neri che diventeranno una moda, ma per lui - miope - sono ancora un’esigenza. Sembra calmo, invece compie una falsa partenza. Poi, però, arriva quella buona: Berruti affronta la curva senza sbandamenti, insensibile alla forza centrifuga, e sul rettilineo è davanti a tutti, preceduto solo da un volo di colombi.
Nella sua ombra spunta Les Carney, «demoniaco negro da saga medioevale», Io bolla senza scrupoli la cronaca di Gianni Brera. Ma il cavaliere di questa saga è Berruti, «l’arcangelo frigido» (sempre Brera). Sarà lui a spezzare il filo di. lana, sporgendosi in avanti con il busto fino a perdere l’equilibrio. Mentre il pubblico in delirio dà fuoco ai giornali e li agita come torce nel buio della sera, «l’arcangelo frigido» si pianta in mezzo alla pista, immobile. Dirà: ero così felice che non sapevo cosa fare.

01/03/2011