Anacleto Flori
Rock ’n Blues
Da rocker ribelle a raffinato interprete di fado, musica sacra e melodie classiche contemporanee. L’affascinante viaggio di Eugenio Finardi attraverso le 7 note
La musica Eugenio Finardi c’è l’ha nel sangue. Non è solo un modo di dire, è la verità, visto che da sua madre, cantante lirica, ha ereditato una voce come ce se sono poche in giro e una grande passione per la musica. Magari lei si aspettava che Eugenio diventasse un virtuoso del bel canto e invece è stata tutta un’altra storia… almeno finora.
In queste settimane nelle librerie è uscito Spostare l’orizzonte – Come sopravvivere a 40 anni di rock. Come mai hai scelto di raccontarti con un libro e non attraverso delle nuove canzoni?
Il libro in fondo rappresenta una sorta di estensione delle canzoni, che invece possono essere paragonate a un’istantanea: vanno bene per comunicare un messaggio semplice, diretto. Se invece si vuole raccontare qualcosa di più complesso o si scrivono canzoni molto lunghe, che il più delle volte sono noiose, oppure si sceglie un altro mezzo di comunicazione, come le pagine di un libro.
Quando hai scoperto il rock e il blues dal momento che tua madre era una cantante lirica americana e in casa si respirava tutt’altra musica?
Il rock l’ho scoperto in America, a casa di mia nonna nel New Jersey. Avevo 13 anni quando per la prima volta vidi in televisione i Rolling Stones che suonavano Satifaction e ho davvero “visto la luce” come diceva John Belushi in Blues Brother.
Poi attraverso i Rolling Stones ho iniziato ad ascoltare i dischi di Muddy Waters (uno dei più grandi bluesman di tutti i tempi) ndr. Fu una scoperta straordinaria: era una musica trascinante, sanguigna, a differenza di quella classica che invece soddisfaceva la mia parte intellettuale. In poche parole, ho smesso di suonare il pianoforte e mi sono comprato una chitarra elettrica rossa fiammante. Il resto è storia.
E come l’ha presa tua madre ?
L’ha presa male, molto male (ride sommessamente) ndr. Però l’anno scorso ho avuto l’onore di salire sul palco della Scala di Milano come voce narrante nella Storia del piccolo sarto con l’ensemble “Entr’Acte”. E mia madre era lì in sala, ad assistere allo spettacolo. Per me è stato come chiudere un cerchio. Lei, arrivata in Italia per studiare e cantare alla Scala, non era mai riuscita a coronare il sogno di salire almeno una volta su quel palco; e allora l’ho fatto io, al posto suo. È stato grande un regalo per lei che, all’inizio della mia carriera, mi ripeteva sempre con il suo spiccato accento americano «stai sprecando tua voce… perché, perché? Potresti cantare Rigoletto e invece perdi tempo con queste stupidaggini».
Nel libro ripercorri gli inizi della tua carriera quando negli Anni ’70 con la musica ribelle i ragazzi come te pensavano di trasformare la nostra società. Il mondo però non sembra molto diverso...
È vero, era un’epoca di grande fermento sociale e musicale, c’era la speranza di poter cambiare il mondo prima che lui cambiasse noi... Volevamo renderlo migliore, più giusto e più libero e invece tutti i nostri sogni alla fine sono stati soffocati dalla violenza e dall’estremismo di quegli anni.
E tu invece quanto sei cambiato ?
Credo poco. Anche in quegli anni così duri ho sempre pensato che in fondo il posto migliore dove fare la rivoluzione fosse dentro di noi: nelle mie canzoni non c’è traccia di violenza, c’è piuttosto la ricerca di una crescita interiore e la gioia che la musica può regalare. Le mie non erano canzoni ideologiche, ma ideali: forse per questo non sono datate, non giacciono a terra come bossoli di una guerra finita, ma sono ancora vive, attuali. Posso cantarle ancora oggi con la stessa forza e sincerità di allora. Questo non vuol dire che sono rimasto fermo: i miei sogni si sono evoluti, sviluppati, in certi casi si sono dovuti adattare alla realtà, ma in fondo non sono cambiati molto.
A metà degli Anni ‘80, di ritorno dagli Usa hai scritto Dolce Italia che suonava come un atto d’amore per il nostro Paese. Oggi riscriveresti una canzone così?
Non lo so, penso di no. Ho scritto quella canzone nel 1985 mentre mi trovavo in America, sull’onda della nostalgia per la gente, i luoghi, le mille culture che avevo lasciato qui. Da allora è passato un quarto di secolo e il nostro Paese si è fatto più aspro, si è incattivito, direi quasi imbruttito, dal punto di vista culturale, sociale, perfino del linguaggio. In tutti questi anni ho girato l’Italia da cima a fondo: ritornare ad esempio a Palermo o a Catania e ogni volta vedere quello splendido barocco sempre più sporco, mi provoca una fitta di dolore. Ma anche Milano, la mia città, è cambiata e sembra aver perso per sempre quella creatività che era un po’ il suo vanto e allora mi domando dove sia finita la cara vecchia “Milan col coeur in man”.
Ogni anno la Polizia di Stato organizza un concerto pop per riscoprire assieme ai ragazzi l’importanza di parole come rispetto, regole e legalità. Può essere un modo per farli avvicinare alle istituzioni?
Certo. Il rock è una musica trasgressiva per natura, che ha infranto tabù, abbattuto barriere, però oggi c’è rimasto davvero poco da trasgredire. La cosa incredibile è che quelli della mia generazione, che hanno contestato persone come Indro Montanelli e Ugo La Malfa tanto per fare qualche nome, si trovano oggi a dover difendere i loro valori. Il fatto è che mi sono reso conto che esistono dei principi collettivi e sociali da rispettare; è importante ribellarsi di fronte alle ingiustizie, ma bisogna anche avere dei valori fondativi comuni, delle regole, delle leggi che siano accettate, condivise e sopratutto rispettate.
Anche quest’anno il Festival di Sanremo ha suscitato le solite polemiche. Che ricordi hai di questa kermesse musicale visto che anche tu sei stato sul palco dell’Ariston?
Ho partecipato a due edizioni del festival e mi sono sempre sentito come una specie di alieno paracadutato lì per caso. La prima partecipazione è stata del tutto casuale: era prevista da una postilla inserita nel contratto con cui mi impegnavo a promuovere il nuovo disco in due occasioni a scelta della casa discografica. E una, guarda caso, riguardava proprio Sanremo. Mi ricordo solo che arrivai penultimo. Comunque credo che il Festival della canzone rappresenti un equivoco di fondo, dal momento che di musicale c’è poco. Le canzoni, come molte creazioni artistiche, devono poter crescere, entrare a far parte dell’immaginario collettivo e non possono essere ridotte a un prodotto da consumare in fretta.
Che ne pensi dei talent show che hanno sostituito i garage e i piccoli locali dove i musicisti si facevano le ossa?
Li trovo un modo strano per arrivare al successo. Ma forse è cambiata anche l’idea della fama. Una volta le persone famose erano ammantate di mistero e delle loro vite si sapeva poco; basta pensare a Mina che non si fa più vedere in pubblico da anni. I ragazzi dei talent show invece diventano famosi dopo che di loro sappiamo già tutto, dopo che li abbiamo visti ridere, piangere, litigare. Diventa difficile per loro crescere artisticamente e togliersi di dosso quell’immagine iniziale.
In tutti questi anni sei passato dalle canzoni di protesta alle ballate più intimiste e poi ancora blues, fado, musica sacra, teatro e un disco tratto dai versi del poeta russo Vladimir Vysotsky. C’è un filo conduttore che lega tutte queste esperienze?
Il filo conduttore sta nella ricerca di un limite. L’artista pensa sempre di poter fare tutto e che siano gli altri a mettergli dei paletti; in realtà quasi sempre quel limite ce l’abbiamo dentro. C’era un progetto artistico a cui tenevo tantissimo: cantare il rebetico orientale, che è una musica affascinate, straordinaria, una sorta di blues dei greci che vivevano in Asia Minore. Non sono riuscito a realizzarlo non per problemi esterni, ma solo perchè la mia voce, che è uno strumento temperato occidentale, non me lo permetteva. All’inizio la scoperta di avere un limite mi ha scioccato; poi però mi sono detto che dentro questo spazio, questa scala musicale ci potevano stare tantissime cose, dal blues al fado, dalla musica di ispirazione slava a quella classica. Ho capito che potevo allargare quell’orizzonte musicale e in qualche modo spostarlo. Per me è stata un’esperienza di vita importante, perché aver scoperto i miei limiti mi ha insegnato ad arricchirli di contenuti che fino a ieri erano inimmaginabili.
In queste settimane sei di nuovo in giro con il tuo Electric tour. Avevi forse nostalgia dei vecchi viaggi a bordo di un bel furgone Diesel?
Andare in tour e suonare dal vivo mi diverte ancora, è il mio lavoro, ma non sopporto più guidare per ore e ore. Non so quanti chilometri ho fatto in vita mia.
Per cui nessuna nostalgia, lascio volentieri il volante a qualcun altro.