Raffaele Lupoli
Notizie sotto assedio
Rischiano la vita al servizio dell’informazione e della legalità. La resistenza dei giornalisti sotto scorta
Scavano nelle carte, utilizzano “confidenti” proteggendo la loro identità, operano su territori difficili con la ferma intenzione di fare il proprio dovere. Hanno molte cose in comune con gli uomini delle forze dell’ordine (non a caso vengono spesso etichettati come “sbirri”), ma la loro missione è portare a casa la notizia. Anche nell’era del’iPad e dei social network, i giornalisti investigativi hanno bisogno di stare “sul campo” per raccontare i fatti, ma spesso nel nostro Paese – soprattutto quando si ha a che fare con la cronaca di questioni relative alle mafie – qualcuno tenta di fermare questo racconto. «Abbiamo censito 400 casi di giornalisti che tra il 2009 e il 2010 sono stati raggiunti da minacce o intimidazioni, il doppio del biennio precedente. Avevano scritto e detto troppo su mafie, terrorismo o episodi di terrorismo politico». Alberto Spampinato, giornalista di lungo corso all’agenzia Ansa, presiede l’Osservatorio “Ossigeno per l’informazione” sui cronisti sotto scorta e sulle notizie oscurate in Italia con la violenza, promosso tra gli altri dall’Ordine dei giornalisti e dal sindacato di categoria Fnsi.
Secondo le stime di Ossigeno, sono 68 in totale i casi di minacce e intimidazioni denunciati, 43 quelli di intimidazioni individuali, 24 le minacce collettive, 13 le aggressioni fisiche, 10 i danneggiamenti. La maggior parte dei casi è stata registrata in Calabria. Seguono Sicilia, Campania, Lazio, Lombardia, Puglia, Basilicata, Piemonte ed Emilia Romagna. Si tratta per lo più di cronisti precari, che non possono neanche contare su uno stipendio fisso a fine mese. «I casi denunciati sono la minima parte, come ha rilevato anche il Rapporto biennale dell’Unesco sui giornalisti uccisi o minacciati nel mondo. Sono raddoppiati rispetto al nostro precedente rapporto, forse anche perché oggi c’è più coraggio, spazio per le denunce» spiega Alberto Spampinato, che nel 1972 ha perso suo fratello Giovanni, corrispondente da Ragusa per il quotidiano L’Ora, ucciso perché “parlava troppo”.
L’esperienza di questi anni, da Gomorra di Roberto Saviano in poi, ci mostra come la parola che getta luce sugli affari loschi delle mafie crea scompiglio e suscita la reazione stizzita di coloro che si sentono “scoperti” davanti all’attenzione dei media e del grande pubblico. Una scelta – quella di raccontare nonostante i rischi – che non sempre è indolore. Ci sono le minacce e le intimidazioni, messaggi di morte e auto bruciate, in qualche caso si perde il posto e, come ci ricordano gli omicidi di Pippo Fava, Giancarlo Siani, Mario Francese, Ilaria Alpi e tanti altri, qualche volta si paga con la vita.
Possibilità che in alcuni territori si mette in conto. «A un certo punto ti rendi conto che le minacce che un giornalista riceve a causa del proprio lavoro sono qualcosa di fisiologico, che è quasi normale che ci siano se si lavora in un certo modo» dice Arnaldo Capezzuto, giornalista napoletano che ha seguito le vicende delle famiglia camorristica dei Giuliano, a partire dalla morte di Annalisa Durante, quindicenne rimasta uccisa nella sparatoria provocata da un giovane membro del clan. Quando lavorava a Napolipiù, Capezzuto è stato minacciato direttamente di morte dai Giuliano, ottenendo poi il processo e la condanna per uno di loro.
Di minacce, atti di intimidazione e violazioni del domicilio Rosaria Capacchione ne ha subiti tanti. Almeno quanti sono i premi che la cronista del Mattino di Napoli dopo oltre 25 anni di attività ha collezionato. Lei che non ama i clamori della ribalta e che da sempre scrive di camorra a viso aperto, analizzando il fenomeno con gli occhi di chi vive nello stesso ambiente dove i clan ammazzano e fanno affari. Il suo libro pubblicato nel 2008 per Bur-Rizzoli, L’oro della camorra è stato ristampato più volte, ma Rosaria continua a battere le strade della Campania e a seguire le piste che portano il cosiddetto clan dei Casalesi a fare affari in tutta Italia e anche all’estero. E di certo non si ferma davanti ai palazzi del potere. Non nega che a volte la presenza della scorta è d’intralcio, alla sua vita personale come al suo lavoro. «Ma è il prezzo del gioco, a quanto pare», commenta.
È però la Calabria a far segnare il maggior numero di minacce. Probabilmente perché la mafia italiana di cui meno si sa, ora che tanti iniziano a raccontarla, si sente più esposta. E allora pallottole in busta, foto dei familiari e messaggi con inviti a farsi gli affari propri. Sedici di queste storie sono raccolte nel libro Avamposto. Nella Calabria dei giornalisti infami, curato da Roberto Rossi, collaboratore di Ossigeno, e Roberta Mani, caporedattrice centrale di News Mediaset. Uno di questi cronisti sotto tiro è Giuseppe Baldessarro, redattore del Quotidiano della Calabria e collaboratore di Repubblica: «Noi giornalisti calabresi non siamo eroi o supereroi. Viviamo ogni giorno a contatto con i criminali, e ciò che facciamo è raccontare semplicemente la nostra quotidianità. Questo ai mafiosi dà fastidio».
Dalla regione delle ’ndrine arriva anche la storia di Antonino Monteleone, cronista di Reggio Calabria che non ha avuto timore a denunciare e far arrestare i due uomini, affiliati al clan dei Serraino, che gli hanno incendiato la macchina agli inizi di febbraio del 2010. Sul suo blog: www.antoninomonteleone.it, si presenta ironicamente con il sottotitolo Più querele che lettori. Subito dopo l’attentato è arrivato il sostegno dei media e gli attestati di solidarietà sono stati numerosi. Poi l’attenzione mediatica attorno alla sua vicenda è andata scemando, ma un gruppo di sostegno su Facebook ha consentito di raccogliere una somma di denaro che contribuirà all’acquisto di una nuova vettura. Un gesto di solidarietà che Antonino ha molto apprezzato, considerandolo un bel segnale di speranza, anche se solo il 30% dei sottoscrittori – sottolinea il giornalista – è calabrese. Con Felice Manti è autore del libro O mia bella Madu’ndrina: una disamina del redditizio sbarco della ’ndrangheta al Nord e in particolare a Milano, ma anche un’analisi della sua evoluzione dall’epoca delle faide a quella del controllo globale del narcotraffico. Oggi Antonino, classe 1985, fa l’inviato per il programma Exit in onda su La7.
Quella all’informazione libera è una minaccia che non riguarda soltanto chi la subisce in prima persona, ma tutti i cittadini, privati in questo modo del loro diritto a conoscere vicende che riguardano la libertà di movimento, di iniziativa economica e di pensiero. «Innanzitutto è necessario che i giornalisti minacciati non siano lasciati soli dentro le redazioni» spiega Baldessarro. Tanti di loro sono scortati da uomini delle forze dell’ordine, che diventano veri e propri “angeli custodi”, come li chiama Roberto Saviano. Poi c’è la “scorta mediatica”, concetto richiamato da molti per sottolineare la necessità di accendere i riflettori su chi subisce le minacce. Non è una garanzia di incolumità, ma fa sentire meno soli. «Inoltre bisognerebbe inasprire le pene per chi minaccia i giornalisti – spiegano gli autori del libro Avamposto – se è vero che “media is different”, quando vengono colpiti i giornali è tutta la cittadinanza a subirne le conseguenze, perché viene leso il diritto non solo di informare, ma anche di essere informati».
Lirio Abbate e la sua scorta
A settembre 2007 due sconosciuti hanno cercato di mettere un ordigno rudimentale sotto la sua auto, davanti alla sua abitazione a Palermo. Per fortuna Lirio Abbate era già sotto sorveglianza da tempo per la sua attività di cronista molto addentro alle questioni di criminalità organizzata. Gli agenti del servizio di bonifica dell’Ufficio scorte di Palermo hanno sventato l’attentato e da allora il giornalista – oggi all’Espresso, ma all’epoca corrispondente dell’Ansa e del quotidiano La Stampa – ha continuato a vivere e a lavorare sotto scorta, anche ora che non è più in Sicilia.
«Sono accaduti tanti episodi di minacce e pericoli gravi – ci racconta come se stesse scrivendo un pezzo che riguarda un altro collega –: su alcuni c’è ancora il segreto per via delle indagini in corso. Ma quello più eclatante è stato senz’altro quando Leoluca Bagarella, recluso in isolamento al 426 bis, si è scagliato contro di me in aula durante il processo». Un pericoloso criminale in isolamento riesce non solo a sapere cosa scrivono i giornali ma anche a ricordare nome e cognome del giornalista che gli aveva rovinato i piani. «Il mio lavoro in quel periodo si era appuntato sui nuovi equilibri che si stavano affermando dentro Cosa Nostra – racconta il giornalista –. Rendere pubbliche le informazioni a riguardo significava mandare all’aria la nuova strategia mafiosa e le parole di Bagarella in quell’occasione misero il cappello sui precedenti episodi intimidatori».
Nel 2006 Lirio Abbate fu l’unico cronista ad assistere di persona al blitz per l’arresto di Bernardo Provenzano e a raccontarlo in diretta. Uno scoop che gli valse i complimenti di Enzo Biagi. Ha seguito in Sicilia le inchieste e i processi più importanti sulla criminalità organizzata e sul traffico di esseri umani, in particolare gli sbarchi degli extracomunitari sulle coste dell’isola. Il sottotitolo del suo libro I complici scritto con il collega Peter Gomez – Tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al Parlamento – dice molto del suo modo di affrontare la questione mafia. E il prossimo libro in uscita entro l’anno, anche questo scritto a quattro mani con Gomez, si annuncia ancora più dirompente. A seguirlo sono gli uomini della Polizia di Stato. «Gente capace – ci dice Lirio – che non stacca mai un attimo». Sull’argomento il cronista nato a Castelbuono si dilunga volentieri. «Dal primo giorno in cui mi fu assegnata la scorta mi hanno detto di fare tranquillamente la mia vita mentre loro si sarebbero occupati della mia sicurezza. E così è stato: sono discreti, ti lasciano lavorare senza interferenze e poi, ormai, dopo anni di convivenza 24 ore al giorno, festivi compresi, sono un’appendice della famiglia». Con la scorta si finisce anche per condividere i problemi personali e professionali. E Lirio Abbate spiega che questa “confidenza” è stata facilitata dal fatto che lui non aveva pregiudizi da abbattere nei confronti delle forze dell’ordine. «Conoscevo già molto bene i loro meriti e i loro sacrifici. In questi anni ho semplicemente constatato da vicino che anche quando lavorano con mezzi limitati riescono a farlo al meglio, senza fermarsi davanti alle difficoltà. Gli uomini del servizio scorte sono un corpo d’élite, che gli altri Paesi c’invidiano».
L’informazione antimafia di Morrione
Fin da quando lavorava in Rai Roberto Morrione di notizie scomode ne ha incrociate tante. E quando dopo aver diretto Rainews24 ha deciso di dire sì a don Luigi Ciotti sapeva che ne avrebbe incrociate ancora. Quel sì ha segnato la nascita di Libera Informazione, una fondazione e una testata giornalistica che puntano l’obiettivo sulle notizie che riguardano le mafie, con l’ambizione di mettere in rete i soggetti – piccole testate o singoli mediattivisti coraggiosi – che sul territorio conducono “a distanza ravvicinata” le inchieste sugli affari dei clan e sugli intrecci criminali che soffocano il Mezzogiorno e conquistano l’intero Paese.
Direttore, in tre anni di lavoro avete dato risalto a una miriade di storie che nessuno altrimenti avrebbe raccontato…
Lo dimostrano i 200mila articoli pubblicati su www.liberainformazione.org, oltre alla newsletter “Verità e giustizia” e all’ultimo nato nella nostra redazione: l’inserto quindicinale che pubblica il quotidiano Terra. Tanti giornalisti hanno verificato che la piccola ma significativa ribalta di Libera Informazione è stata d’aiuto per rilanciare notizie che altrimenti avrebbero finito per essere insabbiate. Questo anche grazie al fatto che in qualche caso siamo stati una cinghia di trasmissione, stimolando l’attenzione delle grandi testate della carta stampata e della televisione su alcune questioni che altrimenti sarebbero rimaste in ambito locale.
Ma Libera Informazione non è solo un organo d’informazione. Su quali fronti siete impegnati oltre alla produzione di news?
I fronti sono tanti, ma tutti con il denominatore comune di sostenere l’informazione indipendente e sensibilizzare gli italiani sul pericolo rappresentato dalle mafie, al Sud come al Nord. Su questo tema, ad esempio, abbiamo avviato un percorso con la Regione Emilia-Romagna per sensibilizzare tutti gli ordini professionali sul pericolo di infiltrazione criminale. Se architetti, ingegneri, commercialisti e così via saranno messi in condizione di dire no ai tentativi di penetrazione delle mafie, agiremo finalmente sulla famosa zona grigia. È quello che tentiamo di fare con gli ordini professionali dell’Emilia-Romagna, che a loro volta si sono impegnati a “esportare” questa modalità d’azione anche negli ordini nazionali.
Quali sono invece gli strumenti messi in campo a sostegno dei giornalisti minacciati o a rischio?
Metterli in rete e contribuire a farli sentire in un circuito è già un primo passo. Ma dobbiamo aver ben chiaro che la vera minaccia per queste persone è la legislazione sulla diffamazione, troppo antiquata. Se un soggetto di cui dai notizia ti chiede 100mila euro di danni e non hai un editore forte alle spalle è difficile che potrai continuare a svolgere serenamente il tuo lavoro.
Quindi proponete di cambiare la legge?
Sì, c’è una proposta dell’onorevole Pecorella che può rappresentare un buon punto di partenza. Con il sindacato, l’Ordine dei giornalisti, l’Osservatorio Ossigeno, Unci e Articolo 21 abbiamo avviato un tavolo che va oltre gli schieramenti politici per ottenere una nuova normativa e abolire il risarcimento in sede civile. Ma il nostro sostegno ai giornalisti minacciati passa anche attraverso la tutela legale.
Vale a dire?
Grazie al sostegno di Open Society Justice, organizzazione che fa capo alla fondazione del magnate Soros, sono partiti in tre Regioni – Campania, Lazio e Lombardia – dei comitati di assistenza, legale e non solo, che accompagnano il percorso professionale e di vita dei giornalisti minacciati o che lavorano a inchieste particolarmente “a rischio”. L’auspicio è di estendere questo sostegno a tutta la rete, e che presto non ce ne sia più bisogno.