Alberto Oliverio, Piero Angeloni, Renato Biondo, Annapaola Palagi, Riccardo Lezzerini

Dna: l’impronta che rivela

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Dna: l’impronta che rivela

1. L’elica geniale
di Alberto Oliverio*

Nel 1953, in una nota quasi telegrafica sulla rivista Nature, James Watson e Francis Crick annunciarono alla comunità scientifica di aver dipanato la struttura biochimica del Dna e di aver quindi scoperto il codice della vita, un codice semplicissimo che si avvale di un alfabeto di quattro lettere A, G, C e T, le basi azotate adenina, guanina, citosina e timina. La combinazione di queste lettere non è completamente libera e in ogni campione di Dna vi devono essere tante A quante T e tante G quante C. La doppia elica del Dna è infatti formata da due filamenti: su uno dei filamenti c’è una A, sull’altro c’è una T e ogni volta che su uno c’è una G, sull’altro c’è una C.
Un gene non è altro che una lunga sequenza del tipo: TACGATGGC… ma nella specie umana solo il 5% dei geni sono “strutturali” o codificanti, vale a dire contengono le informazioni critiche necessarie a sintetizzare una delle tante proteine di cui è fatto il nostro corpo. In teoria, sul metro di Dna che costituisce il nostro genoma ci sarebbe spazio per un milione di geni ma in realtà molto materiale genetico è ripetitivo, formato da quello che viene definito Junk Dna, Dna spazzatura. A che serve questo Dna che occupa la maggior parte del posto sui cromosomi? In realtà di spazzatura non si tratta: da un lato questo Dna è una “riserva” di materiale genetico cui la specie attinge quando deve far fronte a nuove sfide selettive e reagire con nuovi geni che codifichino informazioni utili; dall’altro, questa “spazzatura” è utile a stabilire l’architettura del Dna, cioè la sua struttura spaziale. L’aspetto per noi interessante è che nel Junk Dna vi sono sequenze di basi azotate che vengono spesso ripetute centinaia di volte, come le cosiddette frequenze Alu (Arithmetic logic unit) che costituiscono oltre il 10% del Dna: sono proprio queste frequenze, che presentano sequenze diverse da individuo a individuo, a consentire di stabilire le impronte digitali genetiche.
Tutto inizia intorno alla metà degli Anni ’80 quando vennero realizzati i “sequenziatori”, macchine in grado di analizzare frammenti di Dna sulla base della Pcr (Polymerase chain reaction). I sequenziatori, o in slang Pcr, sono macchine che semplificano molto il lavoro di analisi: un frammento di Dna viene moltiplicato (clonato) un miliardo di volte, attraverso una vera e propria reazione a catena. La macchina divide il frammento di Dna in molti “pezzetti” le cui estremità sono marcate con sostanze coloranti diverse, ciascuna delle quali si attacca ad una sola delle basi A,C,T e G. Separando questi pezzetti e notando il colore delle estremità marcate, la macchina Pcr ricostruisce l’intera sequenza del frammento originario.
La polizia si serve del Dna, generalmente isolato dal sangue, dalla pelle, dalla saliva, dai capelli e da altri tessuti e fluidi biologici, per identificare i responsabili di atti criminosi, come delitti o violenze. Il processo utilizzato è noto come “fingerprinting genetico” (impronte digitali genetiche): la tecnica consiste nel comparare la lunghezza delle sezioni variabili del Dna ripetitivo, come le short tandem repeats o minisatelliti; ad esempio la coppia di basi AT ripetuta 4 volte (ATATATAT) ma il numero delle ripetizioni può essere superiore. La comparazione tra due campioni di Dna in esame non si basa perciò sull’analisi di tutta la sequenza della sua molecola, cioè di miliardi di basi, ma solo su tali sezioni. Infatti, mentre in tutti gli esseri umani la sequenza Alu è ripetuta per centinaia di migliaia di volte, come se la “fotocopiatrice” fosse impazzita, in ognuno di noi la frequenza di ripetizione è diversa, estremamente individuale, proprio come avviene per le impronte digitali dei polpastrelli delle dita.
Questo metodo, sviluppato nel 1984 dal genetista britannico Sir Alec Jeffreys, fu usato per la prima volta nel 1988 per incriminare un inglese, Colin Pitchfork, responsabile dello stupro e dell’omicidio di due ragazze e riconosciuto colpevole grazie al test del Dna. Il fingerprinting genetico può essere utilizzato anche per identificare le vittime di incidenti di massa come, ad esempio, nel caso delle Torri gemelle. Ma quanto è affidabile il test del Dna? Esso è stato utilizzato da oltre 20 anni, inizialmente per rilevare la presenza di malattie genetiche, in seguito in medicina legale: se, analizzando campioni di materiale biologico provenienti, ad esempio, dallo scenario di un delitto, risulta che il Dna coincide con quello di una persona sospettata, si può dedurne che il sospettato è colpevole. Infatti, con l’eccezione dei gemelli identici (omozigoti), il Dna di ogni individuo è unico. Come abbiamo notato, il test si basa sull’estrazione di un campione di Dna da un tessuto o da un liquido del corpo: il campione deve essere poi spezzettato in “strisce”, grazie ad alcuni enzimi che riconoscono specifiche sequenze di basi lungo il filamento di Dna e che lo “tagliano” esattamente in corrispondenza di queste sequenze; se le sequenze, simili a quelle di un codice a barre, coincidono in diverse strisce, esiste un’elevatissima probabilità che la coincidenza non sia casuale.
Nel caso in cui si prende in esame un alto numero di “strisce” e si seguono metodi moderni, la probabilità di una coincidenza casuale è 1 su 100 miliardi, vale a dire praticamente nulla: se invece le strisce utilizzate sono poche le probabilità possono scendere a 1 su 5 milioni, il che lascia ben poco spazio a una coincidenza casuale ma qualche spazio all’opera degli avvocati. Soprattutto in passato, quando il campione era scarso o vecchio e la tecnica meno perfezionata, l’affidabilità dei risultati veniva posta in discussione, ma oggi i metodi sono sempre più raffinati e il campione può essere veramente minimo: un mozzicone di sigaretta contiene tracce sufficienti per rivelare l’identità di chi l’ha fumato. Esistono comunque problemi metodologici, prevalentemente legati al modo in cui vengono condotte le indagini: ad esempio l’identificazione di un presunto colpevole può essere pregiudicata qualora la scena del crimine sia contaminata dal Dna di diverse persone.

* scienziato e ricercatore


Come lo utilizzano le polizie straniere
In Gran Bretagna, qualche mese fa Sean Hodgson ha ritrovato la libertà dopo quasi trent’anni di carcere. A tirarlo fuori il test del Dna: applicato ai fluidi rinvenuti sulla scena del delitto ha escluso che fosse lui l’autore dell’omicidio della barista ventenne per il quale sarebbe rimasto dietro le sbarre a vita. Il percorso inverso lo ha fatto Steve Wright, condannat

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01/12/2010