di Vincenzo R. Spagnolo*

La narco economia

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Sono mille le tonnellate di cocaina che oggi invadono il mercato, 21 milioni le persone nel mondo che ne fanno uso. Enorme il fatturato globale prodotto dal traffico di polvere bianca: miliardi di dollari che vengono reinvestiti in attività illegali e s

La narco economia

Due anni fa, di questi tempi, i telegiornali di tutto il mondo, impietosi artefici dell’immaginario collettivo, mostravano nei loro servizi i funzionari di Lehman Brothers mentre facevano fagotto, con gli scatoloni in braccio. Un’immagine ormai divenuta una delle icone del baratro nel quale è precipitata la piramide finanziaria: ancora oggi le Borse di tutto il mondo scricchiolano sotto i colpi di maglio della crisi, scatenata dalla vendita incontrollata dei cosiddetti mutui subprime e di altre montagne di paccottiglia azionaria, classificate con l’oscura formula di “prodotti derivati”.
La grande finanza ha accusato il colpo: alcune banche d’affari hanno chiuso i battenti, mentre sui mercati è calata la fredda nemesi della sfiducia globale. In quello stesso momento, invece, la “Cocaina S.p.A.” non è parsa registrare congiunture sfavorevoli. Secondo le stime dell’Onu, 1.000 tonnellate di cocaina escono ogni anno dai Paesi produttori. E vanno dove le leggi di mercato, legate al consumo, hanno deciso che debbano andare. Per le statistiche, fanno uso di coca almeno 21 milioni di persone nel mondo, 13 in Europa, 1 milione in Italia. Ma le cifre crescono di anno in anno e il numero totale dei consumatori potrebbe essere molto più alto. Niente resta invenduto, neppure la blanca di scarsa purezza o la stessa pbc, la micidiale pasta base contaminata coi residui del processo di raffinazione. Dovunque vada, la polvere d’angelo imbianca e corrompe tutto ciò che riesce ad avvicinare, agganciando a sé, col vincolo della dipendenza o con quello del denaro, qualsiasi categoria sociale: gente comune, professionisti, funzionari pubblici, imprenditori, personaggi di sport e personalità della politica, a volte anche uomini di governo. L’impero della coca destabilizza diversi Stati in America latina e nell’Africa occidentale, imbianca l’aria delle città europee, ha raggiunto l’Australia e si appresta a sbarcare perfino in Cina, dove l’attendono frementi altri milioni di individui, ansiosi di scoprire se l’ingresso nel reame sfavillante del capitalismo possa avvenire attraverso una narice.

Narconomics
Quanto potrebbe fatturare ogni anno, nel suo complesso, l’industria mondiale della cocaina? Ne fornisce un esempio il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Nicola Gratteri: «Non esiste al mondo affare più redditizio del narcotraffico: un kg di coca viene pagato in Colombia 1.200-1.500 euro. I grossisti lo rivendono a 40mila euro. Poi viene tagliato e se ne ricavano 4 kg e mezzo, con il 22-24% effettivo di sostanza stupefacente, poi rivenduti a 70 euro al grammo. Neppure le speculazioni in Borsa, nell’era del boom, rendevano tanto». I calcoli effettuati in base alla produzione annua (circa mille tonnellate, stimate dall’Unodc, l’ufficio dell’Onu contro la droga e il crimine, con sede a Vienna) e i guadagni lungo la filiera internazionale (vendita della pasta base a 800-900 dollari al chilo; purificazione e vendita del singolo chilo di idroclorato di cocaina a organizzazioni di grossisti, a 1.500-2.000 dollari; rivendita ai dettaglianti, a 30-40.000 dollari al kg; taglio per quattro o per cinque volte e spaccio minuto a 50-60 euro a grammo) permettono di calcolare un fatturato mondiale della “Cocaina S.p.A.” intorno ai circa 500 miliardi di dollari l’anno. Una somma superiore al prodotto interno lordo di Paesi occidentali e benestanti come la Svezia, il Belgio o la Grecia. Ma dove finisce una simile montagna di denaro?

Dirty money
Nell’accezione comune, il riciclaggio è una forma aggravata del reato di ricettazione. Consiste nell’investire i profitti di attività illegali (traffico di droga, estorsioni, tangenti, sfruttamento della prostituzione…), in altre attività economiche o speculazioni finanziarie, stavolta legali. Con una metafora traducibile in tutte le lingue e comprensibile a ogni latitudine del pianeta, le somme accumulate col crimine vengono chiamate dirty money, denaro sporco. Di conseguenza, il processo per farlo diventare “pulito” viene comunemente definito “lavaggio”, in inglese money laundering. I metodi di “ripulitura” sono tanti quanti ne può consentire la fantasia dei riciclatori. Senza contare il fatto che Internet, un computer portatile e una connessione wireless hanno aperto ai riciclatori possibilità più economiche e a domicilio. In quali settori finisce quel denaro? Secondo gli esiti delle indagini delle polizie di mezzo mondo, gli investimenti prediletti restano i beni di lusso e le proprietà nel settore immobiliare. Seguono l’imprenditoria, specie nel settore edile e in quello turistico, la ristorazione e le attività commerciali, in particolare i grandi supermarket e gli shopping mall. Infine, c’è il comparto finanziario: prodotti azionari o assicurativi, obbligazioni, titoli di Stato e altro ancora. Dal Messico, ad esempio, il flusso di cocaina e altre sostanze diretto negli Usa porta con sé anche una robusta quota di denaro sporco, a volte direttamente attraverso i tunnel o gli altri escamotage usati per trasferire la cocaina. In una relazione del National drug intelligence center statunitense, resa nota nel 2009 e intitolata “Strategia nazionale antidroga per il sudest”, si stima che i narcos messicani e colombiani ripuliscano ogni anno somme comprese fra i 18 e i 39 miliardi di dollari, la gran parte dei quali varca la frontiera a sud-est degli Stati Uniti.

Paradisi vicini e lontani
Quando il denaro sporco deve essere investito in altri continenti rispetto a quello di provenienza, un passaggio avviene quasi sempre in qualche località dove il segreto bancario è ritenuto sacro come una religione. Quasi sempre si tratta di micro-nazioni indicate comunemente con un’espressione che ne racchiude la fama: paradisi fiscali. L’espressione deriva dal francese paradis fiscaux, mentre gli inglesi preferiscono giochi di parole basati sull’assonanza fra i termini “paradiso” (tax heaven) e “rifugio” o “porto” (tax haven). Di simili “giurisdizioni”, l’Ocse, l’Organizzazione internazionale per il commercio e lo sviluppo, ne ha censite nella propria black list una quarantina. Molte di esse sono comprese nel territorio della Gran Bretagna o nelle Dipendenze della Corona, qualcun altro è territorio Usa. Alcuni “paradisi” si trovano in luoghi esotici. Le Isole Cayman, ad esempio, sono tre splendidi atolli caraibici, Grand Cayman, Brac e Little, per un totale di 259 km quadrati di spiagge, dove funzionano 435 banche e sono registrate, con tanto di casella postale, 75.000 società, più di quante ne esistano a Wall Street o nel cuore della City.
A 130 km da Bologna, vicina ai lidi della riviera adriatica, San Marino è indubbiamente meno esotica rispetto a Tonga o alle Antille Olandesi: di certo, non ha spiagge bianche e barriere coralline. E forse, per via dell’allegro accento romagnolo, i suoi abitanti non hanno neppure l’austera severità luterana dei funzionari che popolano gli edifici della Paradeplatz, la piazza di Zurigo simbolo del distretto bancario svizzero. Però è vicina, ha una legislazione e un segreto bancario che ancora reggono e dunque per il momento rappresenta, spiega un investigatore italiano, un luogo off-shore comodo e raggiungibile da potenziali evasori e riciclatori, italiani e non.
Eppure ormai c’è chi non vuol fare neppure quella fatica. Ed il contante sporco lo invia ai complici attraverso un bonifico via Internet o qualche remota sub-agenzia di money transfer, contando sulla difficile tracciabilità. Solo in Italia, il volume totale del denaro sbiancato sarebbe enorme.
«Secondo le ultime stime, le somme ripulite in Italia ammontano ad almeno 150 miliardi di euro l’anno. Mentre a livello mondiale le Nazioni Unite parlano di una mole di denaro sporco pari al 6-7% dell’intero Pil globale», sostiene l’avvocato Ranieri Razzante, docente di Legislazione antiriciclaggio all’università di Reggio Calabria.

Contanti, fideiussioni e teste di paglia
Una parte dei soldi che gravita attorno al mondo dell’illegalità, e dunque anche del narcotraffico, cambia di mano in contanti. Fatto che comporta tutta una serie di problemi: se si va avanti e indietro da un certo posto con valigie piene di denaro, prima o poi qualche poliziotto se ne accorgerà. Per evitare rischi simili, i grandi gruppi criminali hanno escogitato nuovi sistemi. Lo spiega il magistrato della Procura nazionale antimafia, Gianfranco Donadio: «Tutti s’immaginano un padrino con coppola e lupara che va in banca con una valigetta imbottita di contanti. Invece, in alcuni casi, il denaro neppure viaggia. Lo si appoggia su un conto bancario in un paradiso fiscale. E poi lo si usa a garanzia di un prestito o di un mutuo che verrà chiesto in Italia da un imprenditore amico del boss, in modo che il denaro erogato dalla banca italiana risulti pulito, anche se garantito dal contante sporco». Si chiama “sistema delle fideiussioni”: il riciclatore mette insieme le somme da ripulire, le affida a un emissario che si presenta in una banca e chiede un finanziamento o un mutuo, offrendo il denaro “sporco” a garanzia. L’importo concessogli è pertanto capitale “pulito”. «Quando il trucco funziona – ragiona Francesco Messina, dirigente della Polizia di Stato con anni di esperienza investigativa – significa che il funzionario di banca è connivente o, quantomeno, che non ha esercitato affatto le sue funzioni di controllo». Quando invece il contante “viaggia” fisicamente, può avvenire che venga intercettato. Accadde il 14 settembre 2008 a Culiacán, capitale dello stato messicano di Sinaloa: quel giorno l’esercito ferma un cittadino cinese, presunto imprenditore ma in realtà specializzato nell’importazione di precursori chimici per conto dei narcotrafficanti. L’uomo viene trovato in possesso di 26 milioni di dollari in contanti: una montagna di banconote fruscianti che rappresenta tuttora per le autorità messicane il secondo maggior sequestro di dinero “en efectivo” alle mafie, nella storia giudiziaria del Messico. Inoltre, nella nutrita armata dei riciclatori, un ruolo fondamentale è giocato da una semplice pedina della scala gerarchica: l’intestatario delle ricchezze. Uomini, donne, giovani e anziani che danno in prestito ai gruppi criminali le generalità, il conto bancario, il codice fiscale, in definitiva affittano loro il mero fatto della sua esistenza, diventando ciò che in spagnolo si chiama “testaferro” e in italiano viene comunemente definito “uomo di paglia” o “testa di legno”. Frazionare e affidare i propri patrimoni a centinaia o migliaia di individui ha una duplice utilità per le mafie: da un lato complica enormemente le indagini; dall’altro, permette ai boss di circondarsi di eserciti sterminati di persone, che spesso non sono propriamente degli affiliati, ma la cui fedeltà all’organizzazione è garantita dal fatto che essa assicura il loro sostentamento.

La crisi? Favorisce le mafie
Purtroppo, mentre i venti impetuosi della recessione soffiano da un capo all’altro del pianeta scuotendo come fuscelli colossi finanziari e gruppi industriali, l’impresa multinazionale delle droghe dalla crisi sembra trarre almeno tre cospicui vantaggi. Il primo è l’humus di tipo psicologico che si viene a creare nella società: se i paradisi materiali (conto in banca, villa al mare, guardaroba di lusso) mostrano improvvise crepe o diventano fuori portata, meglio rifugiarsi in quelli artificiali, come le droghe o il consumo patologico di Internet.
Una molla tale, osserva il capo della Mobile di Bologna, Fabio Bernardi, da rendere superfluo perfino il marketing aggressivo degli spacciatori: non serve più il classico “sniffa e sarai come le star”. Oggi basta un semplice “tira una striscia e dimenticherai i tuoi guai”. Il secondo atout è evidentemente imprenditoriale: in una fase di recessione, quando quasi tutte le imprese del mondo sono in carenza di liquidità, chi ne dovesse disporre potrebbe comperare a prezzi stracciati il meglio che c’è, mettendo nel proprio carnet attività economiche, proprietà immobiliari, beni di lusso. Tutte cose che nei momenti di boom costano care e invece, in tempi di magra, vengono svendute al miglior offerente. Il terzo è un vantaggio “politico”: mentre i governanti di mezzo mondo si strappano i capelli per le conseguenze della crisi nell’economia legale, nell’universo parallelo della black economy i contabili delle imprese criminali si fregano le mani soddisfatti per le nuove possibilità di controllo del sistema finanziario. Per loro, conclude con amara ironia un investigatore che ha fatto parte del Gafi, una task force internazionale anti riciclaggio: «I periodi di recessione sono come l’inverarsi sulla Terra del reame di Bengodi: più contanti hai e più riesci a pulirne, acquistando pacchetti azionari, grandi proprietà immobiliari e perfino buoni del Tesoro di varie nazioni, fino ad inquinare e controllare le economie di interi Paesi».

*Giornalista e scrittore

01/10/2010