Cristiano Morabito
Tutti pazzi per l’ovale
Una squadra e un intero movimento all’inseguimento di un sogno: entrare nell’élite del rugby nazionale
Ottanta minuti di gioco duro, con in mente la consapevolezza che si sta facendo qualcosa di grande, che la propria vita sportiva sta per cambiare, ma anche con la paura di arrivare ad un passo dall’obiettivo, di sfiorarlo solamente e di non riuscire ad agguantarlo. Poi il triplice fischio dell’arbitro suona come una liberazione da un incubo e il timore di non farcela lascia il campo ad una gioia incontenibile e ad un urlo collettivo: «Serie A!».
Questo il momento che si è vissuto il 24 maggio del 2009 quando la squadra di rugby delle Fiamme oro, sconfiggendo nella finale di ritorno dei play-off del campionato di Serie B il Reggio Emilia, è tornata di nuovo a respirare il profumo della serie superiore. Un profumo che ormai mancava da molto, troppo tempo e che vedeva il quindici cremisi navigare da quattro anni nelle acque torbide di una serie cadetta letteralmente dominata nello scorso campionato; solo per citare alcuni numeri: prima in classifica con ben 87 punti, 103 mete messe a segno durante la regular season (per un totale di 731 punti segnati sul campo) e solo due sconfitte su venti partite. Un ruolino di marcia veramente impressionante quello del quindici, altrimenti scritto a numeri romani XV (uno dei modi per indicare una squadra di rugby) della Polizia di Stato, che, a sorpresa, sta confermando quanto di buono fatto nello scorso anno anche nell’attuale campionato di Serie A, chiudendo la fase di andata al comando del girone B.
Si diceva, appunto, una sorpresa, ma, analizzando a fondo la struttura societaria e la rosa degli atleti impegnati sul campo, si può parlare di una programmazione rispettata e leggermente anticipata nei tempi. Una pianificazione iniziata quattro anni orsono quando, su mandato dell’attuale capo della Polizia Antonio Manganelli (all’epoca vice di Giovanni De Gennaro), alcuni appassionati e, soprattutto, innamorati di questo sport misero le basi per un rinnovamento profondo della società. «È stata una vera e propria sfida – ricorda Armando Forgione, vicepresidente esecutivo della squadra e direttore del primo settore dell’Ufficio ordine pubblico – nella quale ho voluto coinvolgere dei professionisti ben preparati appartenenti alla nostra Amministrazione, ma soprattutto degli amici, tra i quali Bruno Pighetti, Sven Valsecchi, Vincenzo Troiani e Rocco Salvan (gli ultimi due rispettivamente responsabile dell’area tecnica e vice allenatore, ndr), con lo scopo comune di riportare le Fiamme oro rugby ad occupare quel posto che gli spetta nella storia di questo sport». Una storia che parte nel 1955 a Padova e che conta cinque scudetti assoluti, quattro Coppe Italia e sette Campionati “cadetti”.
Un rinnovamento, dunque, necessario che è coinciso con un momento di vero e proprio “boom” di questo affascinante sport: basti pensare al seguito che gode la Nazionale impegnata nel Torneo delle Sei Nazioni ed alla visibilità data al rugby sia dalla stampa che dalle televisioni negli ultimi anni. La cosa che sorprende, e che è unica all’interno del mondo dello sport, è il fatto di come una squadra possa essere seguita da così tanti appassionati (erano in 80mila a tifare per l’Italia allo stadio San Siro per il test match contro gli All Blacks neozelandesi) pur non ottenendo risultati eclatanti. La risposta sta nello spirito e nei valori su cui è fondato il rugby: innanzitutto rispetto per l’avversario e l’osservanza delle regole, che nel mondo della palla ovale sono talmente tante da occupare un vero e proprio libro di quasi duecento pagine e che vanno dalle misure del campo all’abbigliamento dei giocatori, alla gestualità arbitrale. Un rispetto che trae origine dalla concezione anglosassone dello sport e che si sposa in pieno con i valori espressi da un’Istituzione come la Polizia di Stato, così come ebbe modo di dire il capo della Polizia Manganelli quando, insieme al ministro dell’Interno Roberto Maroni, volle ringraziare di persona la squadra per i risultati ottenuti, sottolineando come «i valori della sicurezza e della legalità coincidono con quelli espressi in ambito sportivo, in quanto valori vincenti». Elogi che poi si sono concretizzati con la presenza di entrambi alla prima partita di campionato di quest’anno sul campo di Ponte Galeria.
Una squadra unica nel suo genere quella dei poliziotti rugbisti per diversi motivi. Innanzitutto perché composta al 95% di giocatori appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione ed entrati a farne parte grazie ai concorsi riservati agli atleti delle Fiamme oro (dodici nuovi “acquisti” nell’ultimo anno). Atleti, dunque, ma innanzitutto poliziotti che, in caso di bisogno, come in occasione del terremoto che ha colpito lo scorso 6 aprile la terra d’Abruzzo, sono pronti a svestire maglia da gioco e scarpini per indossare l’uniforme e correre in aiuto. Altro motivo di vanto è quello di poter contare su una rosa che ne fa il solo team della Serie A e della Top ten che conta solamente giocatori italiani «e questo – dicono insieme Armando Forgione e Sven Valsecchi, allenatore della prima squadra – è un motivo d’orgoglio per noi. Il nostro è un team formato da ottimi atleti, alcuni dei quali hanno scelto di venire a giocare nelle Fiamme perché in altre squadre, anche della serie superiore, avevano la strada sbarrata dai troppi stranieri che giocano nel campionato italiano. A volte – continua Forgione – in campo si sentono parlare esclusivamente altre lingue, dall’allenatore all’ultimo dei giocatori. E questo, secondo me, non è bello, soprattutto per un campionato, come ad esempio quello della Serie B, che dovrebbe servire da “palestra” per far crescere i più giovani. Fortunatamente la Federazione sta ovviando a questo problema che va a danno di tutto il movimento rugbistico nazionale».
Altra caratteristica fondamentale del quindici in maglia cremisi è quella di avere un’età media molto bassa, 25 anni, ma dove sono presenti alcuni giocatori – come il pilone e capitano Castagna (classe 1973) e le seconde linee Massimiliano Bizzozzero (1972) ed Ermanno Matrullo (1969) – che grazie alla loro esperienza sono ancora in grado di fornire il loro apporto fisico, nonché di carisma, ad una squadra che, comunque, risulta essere una delle più giovani del campionato.
«Il nostro grande investimento è stato appunto sui giovani – dice il direttore generale del team Bruno Pighetti – e per questo abbiamo ricostruito da zero un settore che prima era del tutto inesistente tanto da contare, attualmente, più di 100 bambini che, durante la settimana, frequentano il nostro centro nelle varie categorie (Under 8-10-12-14-16-18). Inoltre – continua Pighetti – la nostra scuola di minirugby rivolta a bambini e ragazzi dai sette ai quindici anni viene alimentata attraverso un lavoro quotidiano presso le scuole elementari e medie del litorale romano dove, con alcuni membri della prima squadra, ci rechiamo ad insegnare i fondamenti del rugby durante le ore di educazione fisica».
Una grande attenzione, dunque, rivolta alle nuove generazioni per insegnare loro le basi non solo dello sport, ma anche di una filosofia di vita che fa del rugbista un atleta sui generis nell’ambito del mondo sportivo. Unico, come anche unico è lo spirito di uno sport particolare, in cui si corre in avanti passandosi indietro una palla non tonda che, citando lo scrittore Alessandro Baricco, «quasi come una mosca chiusa in un treno, a furia di volare all’indietro arriva comunque e sempre alla stazione finale»: un assurdo spettacolare! Ma non solo. Anche tutto il movimento che gira intorno a questa disciplina si lega a regole “non scritte” che lo rendono ancor più particolare, come quella per cui un rugbista resta tale a vita tanto che la maglia della squadra cui è rimasto più affezionato resta cucita sulla pelle e nel cuore per sempre. Un esempio su tutti quello di Mario Ravazzi, apertura storica delle Fiamme oro Padova alla fine degli anni Sessanta, che ogni domenica segue la “sua” squadra ovunque si rechi in Italia.
«Noi – ribadisce Forgione – siamo diversi da tutte le altre società e non potrebbe essere altrimenti. La nostra concezione del rugby collima con quella dell’Istituzione che rappresentiamo. Così come la polizia è a disposizione dei cittadini, noi, come squadra, lo siamo nei confronti della Federazione e di tutto il movimento rugbistico per favorirne la crescita a livello nazionale». Un esempio su tutti, l’istituzione dell’Accademia federale del rugby nella struttura di Ponte Galeria a Roma, presso la caserma “Gelsomini” (sede anche del I Reparto mobile), dove i giovani del centro-sud Italia hanno finalmente un punto di riferimento ed una struttura sportiva senza eguali nel Mezzogiorno per poter praticare il loro sport preferito e crescere professionalmente.
Uno sport di squadra, dunque, che oltre ad essere l’unico presente come tale all’interno del Gruppo sportivo della Polizia di Stato (diretto da Francesco Montini), si basa soprattutto su un lavoro in team, che prende tutti i membri dal presidente all’allenatore, ai giocatori fino ad arrivare ai magazzinieri ed agli autisti che guidano il pullman nelle trasferte in tutto il territorio nazionale «e del resto – conclude Sven Valsecchi – non potrebbe non esserlo, dovendo rimanere a stretto contatto per 320 giorni all’anno. La nostra è come una grande famiglia che si muove per un obiettivo». Anzi, per una meta da sogno.
Io e il rugby
di Mirco Bergamasco
Per un ragazzo nato a Padova come me, che voleva fare dello sport, era inevitabile fare i conti con il rugby. In famiglia ho respirato lo spirito e l’amore per questo gioco fin da piccolo: mio padre, anche lui rugbista, una volta appesi gli scarpini al chiodo ha iniziato ad allenare e a coordinare a livello sportivo il Club Selvazzano, vicino Padova. Non c’è stato bisogno di spinte paterne o di costrizioni: come una specie di attrazione fatale mi sono ritrovato fin da ragazzino a giocare con quella strana palla ovale, che avrebbe poi dato un segno decisivo alla mia vita. L’esordio nella Super 10, il debutto con la nazionale italiana allo Stade de France (indimenticabile anche per via della data, era il 2/2/2002), l’ingaggio da parte di una delle squadre più forti del campionato francese e poi il momento finora più emozionante della mia carriera: l’inserimento nel Quindici ideale del Torneo delle Sei Nazioni del 2006.
Ma non è stata sempre una passeggiata, anzi: ci sono stati momenti difficili, faticosi: un apprendistato fatto di sacrifici, di “alzatacce” nelle mattine fumose di nebbia, di corse e di allenamenti sui campi fangosi, sorretto solo dalla grande passione per questo gioco. Una scoperta continua di esperienze, di risorse morali e di insegnamenti che mi hanno fatto crescere come atleta e come uomo. Fin dalle prime esperienze nelle squadre giovanili ho imparato a far tesoro dei consigli dell’allenatore e dei compagni più esperti: chi gioca a rugby sa quanto sia importante la combattività, la grinta, la generosità, la compattezza del gruppo, il rispetto (e mai il timore) dell’avversario, ma anche la sportività, la lealtà.
Entri in campo e sai che devi gettare sul terreno di gioco ogni stilla di sudore e di energia fino all’ultimo secondo perché si può anche perdere una partita, ma non l’onore. E poi il rispetto delle decisioni dell’arbitro. «Ricordati – mi ripetevano ogni volta prima di ogni partita – niente polemiche, urla o insulti nei confronti del direttore di gara: lamentarsi o protestare non servirà a fargli cambiare opinione, rischi solo di peggiorare le cose, beccandoti una penalità e mettendo ancora più in difficoltà tutta la squadra». È un fair play che fa parte della cultura sportiva e del dna del movimento rugbistico, e che dal campo si estende agli spalti. Il nostro è uno sport di contatto, i raggruppamenti, le mischie, i placcaggi sono fasi del gioco dove lo scontro fisico è inevitabile, a volte ci può stare anche il colpo più rude, l’intervento scorretto, ma non c’è mai la volontà di far male. Alla fine della partita ci salutiamo, ci scambiano i complimenti e chi ha dato qualche pestone più duro va negli spogliatoi a sincerarsi delle condizioni di chi si è fatto male. E la sera poi, magari davanti a una birra ci dimentichiamo delle tensioni in campo, delle botte prese e di quelle date.
C’è un’atmosfera rilassata: ormai in campo nazionale e internazionale ci conosciamo un po’ tutti e se parliamo della partita appena giocata è per scambiarci consigli, per migliorare le nostre “giocate”, mentre i giovani ascoltano, un po’ intimiditi, i racconti dei campioni più affermati. Come è successo a me, la prima volta che mi sono trovato fianco a fianco con Brian O’Driscoll il mitico capitano dell’Irlanda: lui per me era un vero e proprio mito, e invece eravamo lì a chiacchierare come vecchi amici con un boccale di birra in mano. Nessun divismo, né in campo né fuori, perché tutti noi siamo consapevoli di essere un esempio sia per i ragazzi che si appassionano al nostro sport, sia per gli spettatori che sugli spalti devono continuare a vivere la partita come una vera e propria festa, tifando e intonando inni per la propria squadra, ma anche applaudendo le belle giocate degli avversari. E quando la ruota del destino ci porta in alto, non dobbiamo mai dimenticare gli insegnamenti e le ramanzine dei “vecchi”che ripetevano di tenere la testa sulle spalle e i piedi per terra se vuoi essere considerato, in campo e nella vita, un vero campione.
Il terzo tempo
Oscar Wilde disse: «Il calcio è uno sport da gentiluomini fatto da bestie, mentre il rugby è uno sport da bestie fatto da gentiluomini» e per quanto riguarda uno sport come questo dove i giocatori se le danno di santa ragione per un’ora e venti, forse non può esistere definizione più azzeccata. Una disciplina che nasce quasi per caso in Inghilterra, quando un ragazzo di nome William Ellis durante una partita di football, d’un tratto prese la palla tra le mani e corse verso la linea di fondo. Era il 1823 e da allora il rugby ne ha fatta di strada, ammantandosi di una veste epica fatta di storie leggendarie, di personaggi incredibili, di riti e tradizioni secolari come quella del cosiddetto “Terzo tempo”. I giocatori, per consolidare lo spirito di squadra, ma anche per stemperare la tensione accumulata in campo, dopo ogni incontro si ritrovano assieme agli avversari per una buona mangiata e una bella bevuta. Un vero e proprio happening al quale sono invitati anche gli arbitri, ma soprattutto le persone “esterne” al campo di gioco, come tifosi e interi nuclei familiari. E talvolta si verificano curiosi episodi da tramandare di generazione in generazione e che contribuiscono ad alimentare il mito del “Terzo tempo”. Come quello accaduto nel 1982, al termine dell’incontro tra le nazionali di Francia e di Inghilterra al Parco dei Principi di Parigi. La tradizione vuole che la squadra ospitante omaggi con piccoli regali gli ospiti e il dono in questione era un flacone di colonia. Il giocatore Maurice Clolcough, per fare uno scherzo, lo svuotò, riempiendolo di vino bianco e bevendolo sotto gli occhi del suo compagno di squadra Colin Smart, che bevve d’un fiato l’intero flacone di colonia, seguito da un’immediata lavanda gastrica. «Immagino che Colin non se la sia passata bene, però aveva l’alito più profumato che gli abbia mai sentito» questo fu il commento del compagno di squadra.
Nel corso della Coppa del Mondo del 2007, c’è stato anche il rischio che il “Terzo tempo” non si svolgesse più con la stessa puntualità di sempre al termine di ogni partita. Ciò provocò il forte disappunto di giocatori e soprattutto dei tifosi che, a differenza del calcio, hanno solo questo modo per abbattere le barriere fra spalti e campo e dimostrare tutto l’affetto e l’ammirazione alla propria squadra del cuore. Scampato il pericolo, il “Terzo tempo” continua ancora oggi ad allietare il dopo partita dei rugbisti grazie a un invitato che non manca mai: l’alcol. Che sia birra (soprattutto nei Paesi anglosassoni) o vino (nei Paesi latini) o vodka, come avvenne dopo una sfida tenuta in Siberia, poco importa.
Da qualche tempo si sta cercando di introdurre una sorta di “Terzo tempo” anche nel mondo del calcio per favorire il fair play, «Ma il “Terzo tempo” – come sostiene Andrea Lo Cicero, storico pilone della Nazionale e oggi allenatore – non si può imporre: o è qualcosa di spontaneo che nasce dentro l’ambiente calcistico oppure è destinato a fallire».
Irene Midili
All’inizio erano in quattro... storia e curiosità del “Sei Nazioni”
All’inizio erano solo Inghilterra, Irlanda, Scozia e Galles. Quattro squadre, quattro federazioni per una accanita rivalità che ha mosso i primi passi già nel lontano 1883, quando venne messo in palio il primo Home international championship, lontano antenato del futuro Trofeo delle Nazioni. La vittoria, per la cronaca arrise alla squadra inglese che si aggiudicò anche il Triple crown (Tripla Corona, un riconoscimento ancora oggi riservato a una delle quattro federazioni britanniche che riesce a vincere tutti i confronti con le altre tre). Il proverbiale isolamento britannico terminò nel 1910 quando nell’Home nations furono ufficialmente accolti anche i dirimpettai francesi: nasceva così il Torneo delle Cinque Nazioni. Anche in questo caso l’Inghilterra ribadì la propria supremazia vincendo il primo campionato della nuova era, mentre a conquistare il primo Grande slam (la vittoria in tutte e quattro le partite) fu il Galles, l’anno successivo.
Sospeso durante i due conflitti mondiali, il Torneo nel 1954 fece registrare una battuta d’arresto del predominio britannico con la prima vittoria della Francia, seppur a pari merito.
Negli Anni ’70, il Cinque Nazioni si affermò come il torneo più importante delle Federazioni dell’emisfero settentrionale europee al punto che le partite, fino ad allora gratuite o a prezzi irrisori, conquistando popolarità e visibilità mediatica, divennero a pagamento per il crescente pubblico di appassionati. Sono gli anni d’oro del XV gallese che nell’arco di 10 anni conquistò ben tre Grandi slam e un Triple crown.
Mentre le prime cinque della classe si contendevano l’importante trofeo dov’era l’Italia del rugby? Snobbata dalle federazioni d’Oltralpe e d’Oltremanica (che negli incontri con la nazionale azzurra si limitavano a schierare le seconde linee o le rappresentative giovanili) l”italietta” si faceva le ossa sul campo contro le solite rivali (Spagna, Romania e Russia su tutte). Ma i tempi erano ormai maturi e così dopo essersi assicurata la supremazia sul resto d’Europa e la prima storica vittoria contro i “blues” di Francia (vissuta come una vera e propria vergogna dalla squadra transalpina) per il XV azzurro si spalancarono le porte del paradiso. E così il 5 febbraio del 2000 la partita contro la Scozia sancì lo storico ingresso dell’Italia nell’inedito Campionato Sei Nazioni. E, tanto per continuare la tradizione, ad aggiudicarsi la prima vittoria nel nuovo torneo a sei squadre è stata ancora una volta l’Inghilterra.
Il Campionato, che ha cadenza annuale, è organizzato in maniera molto semplice: ciascuna squadra affronta le altre cinque, alternando le partite in casa e le partite in trasferta. Fino al 1993 le squadre che avevano ottenuto lo stesso punteggio vincevano il campionato ex aequo. Dopo tale data, a parità di punteggio vince la squadra con la migliore differenza punti.
La vittoria in tutte le partite fa ottenere il titolo di Grande slam. L’Inghilterra detiene il record con 12 trofei seguita dal Galles con 9, dalla Francia con 8, dalla Scozia con 3 e dall’Irlanda con 1, mentre alla squadra classificatasi ultima nel torneo viene attribuito il Wooden spoon (Cucchiaio di legno): un’onta da evitare a ogni costo. Ma la vittoria finale del Sei Nazioni non esaurisce la voglia di primeggiare delle squadre in campo. All’interno del torneo principale si dipanano rivalità, sfide e trofei personalizzati: oltre al Triple crown (record di vittorie appartenente all’ Inghilterra con 23 Triple Corone conquistate), bisogna ricordare la Calcutta cup, contesa ogni anno tra Scozia e Inghilterra fin dal 1879, il Millennium trophy, assegnato dal 1988 alla squadra vincente della partita tra Inghilterra e Irlanda. Nel 2007 anche Francia e Italia hanno istituito il loro personale titolo: si tratta del Trofeo Giuseppe Garibaldi, creato in occasione del 200° anniversario dell’eroe italiano che contribuì all’unificazione dell’Italia. E a proposito della squadra italiana nonostante i tanti Wooden spoon collezionati, il nostro XV ha raggiunto il punto più alto della sua recente storia nel torneo 2007, conquistando una doppia vittoria contro Scozia (espugnando il Murrayfield Stadium di Edimburgo) e Galles. Poi di nuovo un biennio difficile (ultimo posto in classifica e ancora Cucchiaio di legno). E il 2010 è già alle porte.
L.M.