Paolo Di Geronimo*

L’imputato come fonte di prova

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L’apporto conoscitivo nel procedimento a suo carico. Le nuove tecniche di indagine

Nell’ambito dell’accertamento di reati, la figura dell’imputato costituisce il fulcro dell’intero sistema penal-processuale. In particolare, accanto alle garanzie di difesa e partecipative, volte ad assicurare sul piano strettamente processuale che l’imputato sia tutelato nel rapporto con l’apparato investigativo e l’autorità giudiziaria, va sottolineato il fondamentale aspetto inerente alla disciplina probatoria degli apporti che l’imputato può fornire.
Invero, su tale problematica si sono spesso incentrate le scelte dogmatiche che connotano i vari sistemi processuali, essendosi storicamente passati da un’impostazione secondo cui l’indagine ben svolta era quella che doveva condurre l’imputato ad una ammissione delle proprie responsabilità o, comunque, a dare il massimo apporto conoscitivo (così giustificandosi anche pratiche contrarie a fondamentali diritti dell’uomo), fino ad una diversa impostazione che vede nel ruolo probatorio dell’imputato una posizione neutra.
Quest’ultima connotazione è quella che caratterizza l’odierno processo penale, nel quale all’imputato si riconosce la più ampia facoltà di fornire la propria versione dei fatti, ovvero di tacere, come pure di riferire il falso in ottica autodifensiva.
In sostanza, l’accertamento penale si basa sulla autosufficienza rispetto all’apporto conoscitivo proveniente dall’imputato, che – oltre ad essere meramente eventuale – non è mai dirimente, posto che anche la confessione non costituisce una prova legale della responsabilità, dovendo essere vagliata nella sua veridicità rispetto al fatto oggetto di accertamento.
Sulla base di tale premessa, però, sarebbe un errore sottovalutare la rilevanza delle conoscenze che possono provenire dall’imputato, soprattutto ove si consideri che quest’ultimo da un lato può fornire volontariamente un contributo dichiarativo, dall’altro può essere oggetto di accertamento con il proprio corpo e con la propria condotta.
Per comprendere al meglio tale distinzione, è utile richiamare la distinzione dottrinaria tra imputato “fonte di prova” ed “organo di prova”. Il ruolo dell’imputato quale “organo” di prova trova la sua massima espressione nel fornire il proprio contributo dichiarativo, a prescindere che venga reso in sede di interrogatorio, esame dibattimentale o dichiarazioni spontanee, atti accomunati dal fatto che è l’imputato stesso a rendere consapevolmente elementi probatori. In quest’ambito, si ritiene che le dichiarazioni rese dall’imputato debbano sempre essere esaminate in una duplice ottica, da un lato tendente a verificare eventuali incongruenze da cui desumerne l’inattendibilità, dall’altro, però, occorre tener presente che l’imputato non ha un vero e proprio onere di fornire la prova della propria innocenza, potendo anche offrire semplici spunti di indagine ed accertamento che, ove dimostrati, potrebbero condurre all’esclusione della sua responsabilità.
Esclusa la sussistenza di un onere della prova in capo all’imputato, resta da verificare se nei suoi confronti possa configurarsi un quid minus, consistente nella mera allegazione di fatti a sé favorevoli. Quest’ultimo è, sicuramente, il contributo minimo che l’imputato è chiamato a fornire, posto che rientra nel suo esclusivo interesse la prospettazione di circostanze idonee a confutare la tesi dell’accusa, ovvero a far so

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01/01/2010