Alice Vallerini

Vigilanza privata e sicurezza partecipata

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La sicurezza come investimento collettivo per la qualità della vita, condizione essenziale per lo sviluppo socio economico e la crescita della comunità. La sicurezza come necessità, come risposta alla sensazione di smarrimento avvertita dai cittadini ogni qual volta i media portano a galla episodi legati al crimine diffuso, al terrorismo, alla violenza. È attraverso un percorso di accordi tra Stato, Regioni, Province e Comuni, ma anche grazie a un sodalizio di ferro tra le forze di polizia e gli altri soggetti chiamati a garantire il rispetto delle regole alla base del vivere civile, che si è andato affermando negli anni quel concetto di sicurezza condivisa oggi ritenuto basilare per la tranquillità di tutti: ogni componente offre la sua esperienza e competenza nel settore e l’indiscussa regia dello Stato garantisce interventi coordinati tra loro e in grado di aumentare la vivibilità dei piccoli centri come delle grandi città. Proprio sulla base di questa impostazione, anni fa si è andata affermando l’idea che le imprese di vigilanza privata potessero in qualche modo fornire un contributo sussidiario e complementare a quello delle forze dell’ordine pubbliche. Ecco allora “spuntare” guardie giurate negli aeroporti, nelle stazioni, nei mercati e nei grandi magazzini. Figure a sostegno degli agenti e dei cittadini con le quali anche la gente nel tempo ha sviluppato familiarità.
Di pari passo con l’evoluzione normativa di settore si è andata modificando la figura del vigilante. Hanno assecondato questo cambiamento precise variazioni del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e del relativo regolamento di esecuzione, tutte incentrate sul concetto di sicurezza complementare. I principali cambiamenti legislativi (realizzati anche grazie all’apporto del prefetto Giulio Cazzella che, in qualità di direttore dell’Ufficio per l’amministrazione generale del Dipartimento della pubblica sicurezza, ha curato in modo costante i contatti con gli Organismi dipendenti dalla Commissione europea) sono sintetizzati e approfonditi in modo chiaro e puntuale nel testo “La nuova normativa sugli istituti di vigilanza, di investigazione privata e sulle guardie giurate” realizzato in collaborazione dal vice capo della Polizia Paolo Calvo, il prefetto Carlo Mosca, il viceprefetto Giovanni Migliorelli e il professore universitario ed esperto in diritto penale, oltre che redattore di numerosi articoli pubblicati in diverse riviste giuridiche, Leonardo Mazza.
Il libro, la cui introduzione è firmata dal capo della Polizia Antonio Manganelli, è stato presentato a Roma il 14 ottobre scorso e a Firenze il 10 dicembre. Passa in rassegna le tappe principali dell’evoluzione della disciplina di settore, partendo dalla sentenza che rappresenta il punto di svolta nel campo. Quella della Corte di giustizia delle Comunità Europee del 13 dicembre 2007, la numero C-465/02, che ha posto in evidenza come la normativa italiana sull’ordinamento della sicurezza privata fosse in contrasto con gli artt. 43 e 49 del Trattato istitutivo della Comunità Europea, riguardanti la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi. 

La sentenza della “svolta“
A partire dal dicembre 2007 in attuazione di quanto disposto dal giudice comunitario sono scattate sostanziali modifiche nel testo (in particolare con l’emanazione del decreto legge 8 aprile 2008 n. 59 e del dpr 4 agosto 2008 n. 153) che hanno inciso profondamente sul regime delle autorizzazioni delle imprese di vigilanza privata. Un esempio su tutti sono i cambiamenti nella valutazione del titolare della licenza di polizia, nella quale (accanto all’antico intuitus personae, che prima caratterizzava in modo non sempre coerente gli assensi o i dinieghi in materia) diventa basilare un attento esame dell’assetto tecnico organizzativo ed economico dell’impresa e delle modalità di svolgimento dei servizi di vigilanza. Le nuove disposizioni puntano anche alla qualificazione del personale, con un sistema di controlli ad hoc per garantire la tutela dei lavoratori, l’adeguatezza delle dotazioni tecnologiche a loro disposizione e il rispetto del contratto nazionale di categoria.
Nel volume, il professor Mazza ripercorre in modo lineare e dettagliato l’evoluzione della disciplina che regolamenta la vigilanza privata, che agli esordi si limitava a dare la possibilità ai proprietari terrieri di impiegare guardie private deputate alla vigilanza della proprietà rurale, proprio come disponeva la legge di pubblica sicurezza del 20 marzo 1865 n. 2248 (in particolare l’articolo 7 recitava: “Per la custodia delle terre i privati possono deputare guardie giurate particolari approvate dal prefetto e aventi i requisiti stabiliti dai regolamenti approvati con decreti reali”). È stata la legge 21 dicembre 1890 a permettere con l’articolo 45 il superamento del carattere per così dire “rurale” delle guardie particolari: la norma attribuiva ai Comuni, ai corpi morali e ai privati la facoltà di destinare queste figure alla “custodia delle loro proprietà” previa approvazione del prefetto e giuramento davanti al pretore. Va sottolineato come la legge del 1865 non disciplinasse la possibilità di organizzare, in una prospettiva imprenditoriale, veri e propri gruppi di guardie particolari che svolgessero attività di custodia per conto di terzi, col risultato che il legame guardia particolare-proprietario terriero non veniva ancora superato.
Proprio qui si inserisce la grande intuizione di Giuseppe Lombardi, ex garibaldino, che nel 1880 a Padova diede vita a un “corpo di guardie notturne” con l’incarico di “tutelare la sicurezza dei cittadini, sia personale sia delle proprietà”. Nasceva così, non senza scossoni e polemiche, l’istituto della vigilanza privata. Un evento segnato da forti contrasti, visto che Lombardi, dopo aver aperto un’agenzia specializzata a Venezia, fu denunciato dal prefetto per aver “costituito una raccolta di uomini pericolosi per la sicurezza”. Un caso con alterne vicende: assolto in Tribunale, condannato in appello per usurpazione di funzioni pubbliche, Lombardi venne definitivamente assolto nel 1883 dalla Corte di cassazione di Firenze. Ma l’odissea non finisce qui. Una volta trasferita la sede della sua attività nella città di Milano, a Lombardi fu contestato di aver messo in piedi una milizia capace di turbare la pace dello Stato. Da quel momento seguirono nuove e tormentate tappe giudiziarie: prima assolto in entrambi i gradi di giudizio, fu condannato dalla Cassazione di Torino (la sentenza è del 9 dicembre 1887) per non aver chiesto la licenza al prefetto. Veniva così indirettamente ammessa la prima legittimazione degli istituti di vigilanza privati. Il riconoscimento ufficiale si avrà solo con il rd 4 giugno 1914 n. 563, quando viene approvato il primo regolamento per gli istituti di vigilanza privata.

Una nuova norma in armonia con l’Europa
Il contributo del prefetto Paolo Calvo inquadra a perfezione la “virata” nel settore della vigilanza privata determinata dalle modifiche nella normativa. Si parte dal momento-chiave, quello in cui nel dicembre 2007 la Corte di giustizia europea ha messo nero su bianco che la normativa italiana entrava in conflitto con alcuni aspetti basilari del trattato istitutivo, in particolare con la parte in cui si tratta della libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi. In riferimento a questa presa di posizione, Calvo ricorda come il giudice comunitario già nel 2001 (quindi sei anni prima della “grande svolta”) era intervenuto per censurare la legislazione nazionale e aveva imposto l’equiparazione dei cittadini comunitari agli italiani. Questo perché nel testo unico della leggi della pubblica sicurezza tra i requisiti fondamentali per l’esercizio dell’attività di vigilanza privata e quelli per conseguire la nomina di guardia particolare giurata si prevedeva come necessario il requisito della cittadinanza italiana. Risultato: con la legge comunitaria del 2002 furono modificati alcuni articoli del testo unico della leggi di pubblica sicurezza, permettendo in questo modo ai cittadini degli Stati membri dell’Ue di conseguire le autorizzazioni così come consentito da sempre agli italiani.
Il cambiamento dovuto all’input della Corte non ha solo una valenza sul piano pratico, ma va inquadrato nell’ambito di una presa di posizione del giudice comunitario, che nell’esporsi ha voluto evidenziare la necessità di rinnovare un impianto normativo ritenuto obsoleto. Criticità che tra l’altro anche il legislatore italiano aveva già rilevato da tempo. Il bisogno di intervenire a livello normativo e le lacune del sistema erano già state riscontrate nel 2004 nel corso di un monitoraggio portato avanti dal Dipartimento della pubblica sicurezza sugli istituti di vigilanza che sul punto aveva raccolto decine di segnalazioni dei prefetti, dei questori, delle associazioni di categoria e dell’autorità garante della concorrenza e del mercato. Proprio grazie a questo “lavoro” svolto in precedenza, quando è arrivata la sentenza del 2007 l’amministrazione non si è trovata impreparata bensì pronta ad accoglierla e consapevole della portata dell’intervento. Come sottolinea Calvo, «l’urgenza di legiferare in materia ha posto il ministero dell’Interno nella condizione di seguire due strade»: da un lato è subito partita la collaborazione con l’autorità comunitaria per evitare che scattassero pesanti sanzioni economiche per l’Italia, dall’altro in sede legislativa ci si è attivati per fornire una risposta completa e adeguata alle carenze riscontrate dal giudice. Di fatto, a soli sei mesi dalla sentenza della Corte, un decreto legge del giugno 2008 ha modificato le norme del tulps. Poi un secondo intervento, stavolta anche più deciso e globale, è stato attuato con un dpr sempre del 200

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01/01/2010