Antonella Fabiani

Il maresciallo con la Ferrari

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Armando Spatafora grazie alle sue imprese è ancora un mito per intere generazioni di poliziotti. Il ricordo nel libro scritto dalla figlia Carmen

Bastava solo l’avvicinarsi del rombo del motore e i criminali capivano che non avrebbero avuto possibilità di fuga. Il rombo era quello della Ferrari e il poliziotto alla guida era il maresciallo Armando Spatafora. Due “leggende” che hanno segnato un pezzo della storia della polizia di questo Paese, che oggi risuona “epico”, fatto di inseguimenti rocamboleschi, turni massacranti di lavoro e un modo di essere poliziotti che aveva in sé spirito di corpo, capacità di sacrificio e anche un rapporto diverso con la criminalità. A far rivivere quel periodo un libro (presto in libreria a cura delle edizioni Rubbettino), scritto dalla figlia Carmen che racconta, attraverso le numerose testimonianze di chi lo ha conosciuto, con intensità e garbo, la carriera eccezionale di suo padre. «Ho voluto esaudire un suo desiderio: negli ultimi anni, quando aveva già problemi di salute – spiega la figlia del maresciallo – si chiudeva nella sua stanza a scrivere riflessioni, osservazioni, a raccogliere ritagli dei giornali che parlavano delle sue imprese, perché un giorno avrebbe voluto scrivere la storia della sua vita». Un desiderio che si è realizzato “restituendo la vita a quel materiale rimasto per tanti anni dentro un cassetto” che racconta di un uomo che amava la polizia più di ogni altra cosa, riuscendo però anche a non trascurare la sua famiglia.
Per tutti quelli che lo hanno conosciuto Spatafora era leale, coraggioso, solare, legatissimo agli uomini della sua squadra. Pur non avendo studiato psicologia, gli bastava poco per capire le persone, catalogarle senza sbagliare un solo colpo. Sempre pronto alla battuta, protagonista di rocamboleschi inseguimenti con la sua Ferrari il cui rumore risuonava di notte nelle vie di Roma, come lo ricordano le cronache dei quotidiani romani a partire dagli Anni ’60.
Sempre elegante, accanito fumatore, con un’espressione che comunicava tutto con gli occhi, capace di folgorarti se facevi qualcosa che non gli era gradito: così lo ricorda sua figlia che ne traccia un ritratto a partire dall’infanzia trascorsa a Siracusa, la città dove era nato (secondogenito di una famiglia di undici figli) e che lasciò quando decise di arruolarsi in polizia nel novembre del 1950, ma dove trascorrerà sempre i periodi di vacanze. Le prime destinazioni furono Roma, Foggia, Nettuno e poi ancora Roma dove rimarrà fino alla fine del servizio diventando una vera e propria leggenda per i colleghi e per la stampa. Taciturno per riservatezza (in famiglia non parlava mai del suo lavoro) Armando era un poliziotto che non mollava la “preda” fino a quando non l’aveva assicurata alla giustizia (sono numerosi gli interventi di cui è stato protagonista anche libero dal servizio quando gli capitava di riconoscere un latitante), ma era anche capace di slanci verso chi gli sembrava agli inizi di una carriera criminale e spesso era lui stesso a trovare un lavoro o una occupazione a un ragazzo che, secondo il suo giudizio, poteva ricominciare una vita migliore. Questo perché, comunque, esisteva un codice di comportamento tra poliziotto e delinquente, almeno fino agli anni Sessanta. Poi nel decennio successivo questo scenario cambierà, con una delinquenza diventata più aggressiva e l’esplosione del terrorismo.
«Certo potevano capitare anche gli scontri con i malavitosi – osserva Carmen – qualche coltellata mio padre se l’è presa ma non c’era l’uso indiscriminato delle armi che c’è stato in seguito. I criminali tentavano di scappare: c’era la fuga, l’inseguimento con le macchine». Inseguimenti fatti alla guida della mitica Ferrari GTE a partire dal 1962 (anno in cui ci fu il boom delle auto veloci) e che fino al 1969 faranno dell’uomo e della macchina un unico mito. Un “gioiello” che si andava ad aggiungere al parco macchine allora in dotazione alla polizia che comprendeva l’Alfa Romeo Giulia 2600, l’Alfa 1900 e la camionetta Jeep. Era lui infatti l’unico poliziotto a conoscere strade, vicoli, vicoletti delle zone allora malfamate di Roma: Quarticciolo, Primavalle, Trastevere, San Lorenzo, San Basilio per ricordarne solo alcune.
«Quando Armando tornava con la Ferrari il rombo si sentiva già da lontano. Ci affacciavamo quasi sempre a guardare chi aveva catturato… non tornava quasi mai a mani vuote», racconta l’ispettore Francesco Reda che fu testimone della consegna nel cortile della questura di Roma della Ferrari da parte del capo della Polizia Angelo Vicari nel 1962. «Con quella macchina – continua Reda – entrava e usciva da quel cortile in continuazione. Non aveva pace. Poi, conosceva benissimo tutti i pregiudicati di Roma». Una capacità che lo aiutò a fare numerosissimi arresti e che gli valse ben due promozioni per meriti straordinari. E poi ancora: «Un’ottima persona, un’ottimo poliziotto capace di affascinare la stampa! Un “romantico” della polizia innamorato del suo lavoro», lo ricorda Adelchi Caggiano, ex dirigente di sezione della Squadra mobile a Roma nei primi Anni ’60.
“Doppia Vela chiama Siena Monza 44” era la sigla con cui veniva allertata la Ferrari guidata da Armando Spatafora. Una macchina potente che imparò a guidare durante un corso di specializzazione a Maranello con i piloti di Formula1 e con la quale compì un fatto che oggi appare incredibile e che è diventato leggenda: la discesa alle sei del mattino lungo la scalinata di Trinità dei Monti, per inseguire un bandito che aveva appena compiuto una rapina. Ma la sua fama è legata a tanti altri interventi, come quello in cui riuscì a portare in soli 58 minuti in un viaggio da Roma a Napoli un flacone di sangue per un moribondo.
Un uomo che non smetteva mai di lavorare: «Aveva la polizia nel sangue. Un operativo puro – come amava ricordarlo il magistrato Claudio Vitalone, che conobbe Spatafora agli inizi della sua carriera nella Squadra mobile – aveva una sensibilità nel capire le situazioni al limite, prevenirle, contrastarle e anche un sincero sprezzo del pericolo. Era un personaggio straordinario. Un uomo vero, un uomo pieno di passione e di grandissimo rispetto per il prossimo. Anche per il delinquente più accanito».
Con l’arrivo degli anni Settanta, nonostante lo stipendio e gli orari di servizio fossero migliorati (era già stato istituito il giorno di riposo chiamato “giornata Fanfani”), iniziò un periodo difficile che coincise con la nascita del terrorismo, dei sequestri di persona, degli omicidi. Dal 1977 Armando Spatafora comanda una squadra speciale del Centro nazionale Criminalpol, mentre nel 1979 fu richiesto per un procedimento che era in atto nei confronti della Brigate rosse: «Era un investigatore molto raffinato – ricorda il magistrato Margherita Gerunda – capiva come ragionavano i criminali e aveva compreso come fossero i brigatisti; aveva intuito il loro modo di agire, di pensare, di presentarsi e quindi fu richiesto insieme ad altri funzionari e carabinieri. Una delle cose che mi ha insegnato è che durante un interrogatorio la cosa più importante è restare calmi e non arrabbiarsi mai».
Nei primi anni Settanta cominciò ad avere problemi di salute con una malattia che lo avrebbe reso sofferente per dieci anni. Il 1981 è l’anno della Riforma della polizia, che rimarrà per molti versi estranea a quel poliziotto che resterà con l’amarezza e la nostalgia per una polizia ormai passata. Qualche anno dopo proverà la delusione di non riuscire a superare il concorso per passare alla qualifica di ispettore capo, promozione che gli arriverà subito dopo la morte. Ma anche quando la salute gli dava problemi non si fermava un attimo, non voleva tirarsi indietro: partecipò, nascondendolo alla famiglia, a una edizione della Coppa delle Dolomiti, un’importante gara di auto storiche, arrivando secondo.
Nel febbraio del 1987 cessò di battere il cuore di “Armandino”, così come era chiamato dai colleghi e come lo ricorda nella prefazione al volume Antonio Manganelli, che lo aveva conosciuto agli inizi della sua carriera di funzionario: «Il poliziotto con la Ferrari. Un uomo semplice, un poliziotto con una grande passione: la polizia».


Piccola storia della “mala” romana
di Margherita Gerunda

Gli anni Settanta si può dire che segnarono un punto di svolta nella storia della malavita romana. Fino alla metà di quel decennio, infatti, Roma era una città sostanzialmente tranquilla, in cui la malavita si dedicava a furti, qualche rapina in banca, truffe e poco altro.
Le estorsioni ai negozi erano a livello artigianale e i quartieri periferici, che confinavano con una campagna allora coltivata, erano dominati da capi-banda che risolvevano le controversie con pugni e coltellate.
Gli omicidi erano scarsi, di solito motivati da fatti passionali.
I meno giovani ricorderanno il delitto di El Churbagi, per cui furono condannati i coniugi Bebawi. Vi erano allora giornali serali che si occupavano solo di cronaca nera.
Alla metà del decennio, tutto cambiò perché calò in Roma un gruppo di delinquenti francesi, con un curriculum criminale di tutto rispetto che fu chiamato, dal titolo di un famoso film, il “clan dei marsigliesi”.
Questo gruppo, capeggiato da un corso, Bergamelli, e da un marsigliese, Berenguer, iniziò a far piazza pulita dei capi delle varie bande, monopolizzando l’attività criminale.
Si videro allora a Roma le armi da fuoco, pistole e fucili, che furono utilizzate per commettere rapine in banca.
Iniziò la stagione dei sequestri, in cui si distinse la banda dei sardi, all’epoca capeggiata da Laudavino De Santis, che aveva il suo covo alla Magliana e che portò una vena di efferata crudeltà che a Roma mai s’era vista. Il primo nucleo di quella che fu chiamata la “banda della Magliana” che radunò una serie di criminali che gravitavano nell’omonimo quartiere della periferia romana.
Il denaro estorto ai sequestrati fu reinvestito nell’acquisto di droga, hashish, marijuana e poi eroina. Questo traffico portò allo scontro con la mafia siciliana, che all’epoca monopolizzava il traffico di quelle sostanze e la situazione finì con un’altra serie di omicidi, sia all’interno, che all’esterno delle carceri.
Verso la fine del decennio ci fu un fenomeno nuovo, il terrorismo, che iniziò con violenze a persone, rapine ai supermercati e alle banche, spesso con ferimenti e omicidi (i famosi espropri proletari) e si sviluppò con una impressionante serie di fatti criminali, che insanguinarono la città per quasi un decennio. Terminata quella fase, si sviluppò in grande il traffico di stupefacenti, con prevalenza di eroina e cocaina, e poi le droghe chimiche.
Verso gli Anni ‘90 la mafia sommò al traffico di stupefacenti, sempre più redditizio ma sempre più complicato a causa dell’inserimento nel traffico delle mafie asiatiche, altre forme di attività, per cui la Camorra e la ’Ndrangheta, con ottimi referenti su Roma, incrementarono gli affari investendo i ricavi in immobili, centri commerciali e attività industriali.
L’inizio di questo secolo è caratterizzato da una progressiva attività di penetrazione nei gangli vitali dell’economia, da parte di criminali non più “lombrosianamente” riconoscibili, ma collegati a centri di potere che spesso confinano con quelli legali.
C’è da dire però che le forze dell’ordine, talvolta in passato colte di sorpresa dalle nuove forme di criminalità, attualmente sembrano all’offensiva e hanno ottenuto significativi successi.
La centralizzazione delle indagini e i nuovi strumenti tecnici, usati con notevole abilità dai nostri investigatori, riusciranno presto a restituire la tranquillità ai cittadini.

01/01/2010