Olivia Turchetti

Giochi maleducativi

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Sangue e violenza sono gli ingredienti più apprezzati dal popolo dei videogame. L’analisi e i timori degli psicologi della polizia postale

Dal mite Pacman a Super Mario Bros fino ai bellicosi protagonisti dei videogiochi di ultima generazione, che per grafica e aderenza alla realtà si possono confondere con i prodotti dell’industria cinematografica. Il nuovo scenario del mercato dei videogame, e la parallela impennata dei casi di bullismo registrata negli ultimi mesi dal nord al sud del Paese, rilancia con forza il dibattito sull’impatto antieducativo dei passatempi dei ragazzini del nuovo millennio. Sul tema la polemica è infuocata, e malgrado gli studi di settore abbiano più volte tentato di fornire risposte univoche e ben contestualizzate, l’interrogativo-clou resta in piedi: i videogiochi violenti producono aggressività, o sono piuttosto i giovani con un’inclinazione al conflitto ad appassionarsi a certi tipi di prodotti?
A tentare di vedere chiaro nel complesso tema delle dinamiche causa-effetto tra l’utilizzo di game basati sui pestaggi e l’atteggiamento aggressivo dei ragazzi sono stati, tra i tanti, gli autori della monografia Videogiochi violenti: Craigh A. Anderson, Douglas A. Gentile e Katherine E. Buckley, tutti docenti di psicologia alla Iowa State University. Un testo che scava negli effetti negativi a breve, medio e lungo termine della violenza mediatica e punta nel contempo a dimostrare come il confronto tra figli e genitori abbia sempre un ruolo fondamentale nel ridurre l’impatto delle immagini “forti” sui bambini.
Le riflessioni degli esperti partono da un dato “storico”, legato all’evoluzione dei videogiochi: dall’apparizione dei primi game negli anni Settanta alla grande diffusione degli anni Novanta, i produttori hanno toccato con mano un dato lampante quanto insidioso. Che i prodotti a contenuto violento “vendono” di più. Non è un caso se i programmi basati sul combattimento come Double Dragon e Mortal Kombat divennero in tempi record dei best seller. Come non c’è da stupirsi per l’epilogo della vicenda che anni fa coinvolse la Nintendo, leader del mercato tra il 1980 e il 1990: fin dagli esordi l’azienda volle fissare degli standard per i suoi prodotti, una sorta di filosofia cui la ditta doveva ispirarsi. Ci volle poco a capire che un’impostazione basata su imperativi come “niente sangue ed eccessiva violenza” impediva al fatturato di decollare: i vertici del “colosso dei giochi” ne ebbero la prova quando Nintendo e Sega crearono due versioni in concorrenza tra loro, una “soft” e l’altra improntata su una maggiore aggressività. La versione Sega, dove il contenuto di sangue era maggiore, vendette tre volte tanto e per la Nintendo iniziò una fase di declino. Risultato: l’episodio non fece che riaffermare il pericoloso concetto che la violenza aiuta a vendere videogiochi ai ragazzi e la vicenda diede nuovo impulso alle società impegnate nel settore.
Nel tempo le cose non hanno fatto che peggio

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01/01/2010