Alice Vallerini

Lettori spariti

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Crisi economica e diffusione planetaria di Internet hanno messo in ginocchio l’informazione su carta stampata. E la tv rimane il medium dominante

Boom della stampa gratuita, esplosione dei social network. Utenze in impennata per la tv digitale e il satellite. A picco i giornali a pagamento. La nuova dieta mediatica degli italiani viaggia di pari passo alla congiuntura economica e ridisegna nuovi scenari nello sfaccettato mondo della comunicazione. Prima l’avvento di Internet e poi la recessione hanno modificato il consumo di giornali e tv da parte delle famiglie, col risultato che la televisione generalista oggi fa i conti con la battuta d’arresto subìta e la fetta già ristretta di lettori di quotidiani a pagamento si assottiglia pericolosamente giorno dopo giorno. Lo sconquasso che ha interessato la finanza globale, d’altronde, ha svelato all’improvviso le numerose fragilità dell’assetto sociale del Paese e inciso in modo netto sulle abitudini degli italiani, anche in tema di consumi mediatici. Lo dimostrano i dati contenuti nell’ottavo rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione, pubblicato proprio nel mezzo di quella che è stata definita una delle più gravi crisi economiche degli ultimi decenni. Il Rapporto si focalizza in particolare su tre questioni-chiave: la moltiplicazione degli usi della tv grazie alle recenti innovazioni tecnologiche, i cambiamenti nel rapporto di fiducia del pubblico nei confronti dei media, gli effetti della crescita dei cosiddetti social network.
Per una fotografia nitida della metamorfosi che ha interessato l’intero settore basta prendere in considerazione il biennio 2007-2009: in era di andamento economico sfavorevole (secondo le stime del Censis) la lettura di quotidiani a pagamento da parte di chi passa in edicola almeno una volta alla settimana è scesa dal 67% al 58%, per non parlare delle persone abituate a comprare almeno tre volte a settimana un quotidiano che nel 2007 costituivano il 51% del totale e nel 2009 sono scese a quota 34,5. Tirare le somme, con dati alla mano, è operazione rapida: se prima dell’ultima recessione la metà degli italiani aveva un contatto stabile con i giornali, ora la “fetta” si è ridotta ad un terzo.
Se da un lato gli addetti ai “lavori” sottolineano che la crisi ha solamente accelerato il processo di trasformazione dei media già in corso, dall’altro gli autori della relazione Censis-Ucsi offrono spunti di riflessione che permettono di inquadrare in un’ottica inusuale le diverse “facce” della metamorfosi.
Tra le considerazioni degli esperti spiccano quelle relative alle distinzioni tra i mezzi di comunicazione penalizzati dalla crisi e quelli invece premiati: nel Rapporto è messo in evidenza come le preoccupazioni economiche abbiano influito in modo evidente sul calo della lettura dei giornali, ma non abbiano intaccato l’aumento degli abbonamenti alla tv satellitare e la tendenza massiccia all’acquisto di decoder per il digitale terrestre. Questo perché gli italiani oggi appaiono orientati a spendere pur di poter disporre di media capaci di offrire servizi diversificati e adatti a tutti i membri della famiglia. Non è un caso, in sostanza, che non si esiti a mettere mano al portafoglio per la pay tv: se il marito può guardare le partite di calcio, i bimbi i cartoni e la moglie le fiction, la necessità di uscire per andare al cinema o allo stadio viene meno e ci si sente soddisfatti nell’aver investito in passatempi adatti a tutte le occasioni. Stesso discorso per Internet e il costo dell’Adsl: la connessione veloce consente di telefonare gratis in tutto il mondo grazie a Skype, di restare aggiornati 24 ore tramite i siti Internet, di mandare e ricevere mail in tempi record. Tutte attività considerate essenziali, non rinviabili, a differenza di un libro il cui acquisto – nell’immaginario collettivo – può tranquillamente essere posticipato. Così come la lettura di un quotidiano a pagamento: nessuno sforzo nel rinviare il “lusso” al fine settimana e a sostituire il piacere con un’occhiata rapida alle edizioni dei giornali online o ai quotidiani free press.
La crisi – questo è fuori dubbio – non ha aiutato la stampa periodica a riprendersi dal declino che ha interessato l’ultimo decennio: in notevole calo rispetto a due anni prima, oggi la lettura anche occasionale dei settimanali coinvolge il 26% degli italiani (- 14,2% rispetto al 2007) e quella dei mensili il 18,6% (-8,1%). Per non parlare del reparto libri: se nel 2007 la percentuale dei lettori si attestava al 59,4%, nel 2009 è scesa al 56 e poco più. Secondo gli esperti il calo riguarda indistintamente uomini e donne di ogni grado d’istruzione e fascia sociale, col risultato che la televisione, dopo tanti alti e bassi, resta il medium dominante.
C’è poi un’altra dinamica da non sottovalutare nella moderna metamorfosi del rapporto italiani-media e ha a che vedere con la credibilità delle fonti e la fiducia dello spettatore. La digitalizzazione dei media ha infatti provocato come effetto la circolazione fluida e libera delle informazioni ma anche determinato una maggiore difficoltà per il pubblico nel valutare l’attendibilità dei contenuti: più si assottiglia il confine tra verità e finzione, più diventa appannaggio solo di una élite la capacità di operare una corretta distinzione tra i due campi. Proprio per questo il compito del servizio pubblico radiotelevisivo appare con il passare del tempo più che mai arduo. La tv nazionale – che secondo i monitoraggi è il mezzo al quale viene attribuita più fiducia – avrebbe il compito di garantire lo sviluppo democratico della possibilità di accesso alle nuove tecnologie della comunicazione e dovrebbe accompagnare tutti gli italiani verso l’acquisizione delle competenze necessarie per entrare a pieno titolo nella società digitale. Inoltre, tra le sue funzioni c’è quella di fornire agli utenti informazioni ed elementi utili alla formazione delle opinioni, specie in occasione di elezioni.
Gli autori del Rapporto precisano come uno degli indicatori più adatti a segnalare lo “stato di salute” della partecipazione democratica delle persone alla vita del Paese sia proprio la mappa delle “diete mediatiche” dei cittadini. Su questo fronte oggi i dati descrivono una nazione spaccata in due: da una parte ci sono i fruitori di vari media sia digitali che non, dall’altra coloro che “attingono” solamente alla tv e saltuariamente ai giornali o a qualche libro. In termini tecnici si può definire press divide il nuovo divario tra quanti contemplano nel proprio “menu” i media a stampa e coloro che non li prendono in considerazione: l’indice suggerisce dati in aumento, visto che nel 2006 era il 33,9% degli italiani a non avere contatti con i giornali mentre nel 2009 si è arrivati a 39,3% . In queste categorie si inserisce quella dei giovani che utilizzano Internet e tv, ma ignorano la stampa e l’editoria, oggi in numero sempre più consistente. Quasi la metà degli italiani nell’ultimo periodo ha decretato il successo dei social network come Facebook, Youtube e Messenger, diventati per molti una sorta di seconda famiglia. Sono stati proprio i ragazzi – senza volere – a far uscire Internet dalla dimensione elitaria che aveva contraddistinto la Rete agli esordi: grazie al boom dei supporti informatici che consentono di entrare in comunicazione con il popolo del Web tramite telefonino e palmare, i social network hanno cominciato a calamitare anche i non appassionati di computer e a veder crescere in modo esponenziale i propri utenti, mentre piccoli apparecchi portatili come Smartphone e lettori Mp3 diventavano sempre più complementari rispetto all’utilizzo del Web.
I dati parlano chiaro: quella di Internet è un’ascesa inarrestabile. Ma i monitoraggi invitano comunque alla cautela e ad evitare deduzioni semplicistiche: la variazione nel numero di utenze tra il 2007 e il 2009 infatti è stata minima (si passa dal 45,3% al 47%) e il dato porta a concludere che i cambiamenti nell’utilizzo del Web vadano cercati non tanto nei numeri quanto nell’aspetto qualitativo dell’uso della Rete. Inoltre sono ancora quasi solo i giovani e le persone con grado d’istruzione medio-alto ad avere familiarità con il Web. Tanto che sono proprio i ragazzi a sacrificare un buon numero di attività a vantaggio di Facebook. Su tutte, la più penalizzata è la lettura di libri.
Quanto ai quotidiani e ai periodici, la morale che si può trarre è questa: il loro pubblico appare sempre più selezionato e quindi preparato ed esigente. Dunque, per i media su carta l’imperativo della qualità è cogente. Ci avviamo probabilmente verso una aristocrazia di lettori alla quale deve corrispondere una stampa sempre attendibile, documentata, facile ma non semplicistica, autorevole ma non mai seriosa. In una immagine cara ai lettori, il cane da guardia del quarto potere dovrà essere sempre più di razza.


A scuola da Roberto Cotroneo

«L’Italia non è mai stata un Paese colto, fatto di grandi lettori».
A parlare è Roberto Cotroneo, scrittore affermato e giornalista brillante, che dai primi di novembre dirige la neonata Luiss writing school, prima scuola in Italia di scrittura creativa a livello universitario, che mira a fornire, ai suoi 55 allievi, una base per intraprendere un’attività professionale nel mondo della scrittura e della sceneggiatura.
Professore, gli italiani e i libri: un rapporto che non funziona, perché?
In Italia abbiamo un sistema scolastico che, per motivi diversi, è rimasto agli Anni ’20. In alcune cose riesce a mantenere una tradizione, basti pensare ai licei classici, ma non forma di certo lettori. I ragazzi leggono fino ai quattordici anni con una certa assiduità ed è nella scuola media che bisogna cercare il vero colpevole: è un retaggio ibrido intermedio che non favorisce una buona formazione di lettori.
Si dice che ci sono più aspiranti scrittori che lettori, è così?
Questa è più una battuta, una forzatura. Anzi, le cose stanno cambiando: una volta chi voleva fare qualcosa di creativo o si metteva a dipingere, avendo comunque dei costi, o prendeva un semplice foglio di carta e raccontava la sua storia; oggi, un ragazzino con pochi soldi può fare delle ottime fotografie o girare il proprio film. La scrittura sta diventando semplicemente uno dei tanti mezzi a disposizione.
Perché nascono le scuole di scrittura? È davvero possibile insegnare a scrivere?
Perché si è capito che la scrittura non è il frutto di un genio talentuoso che non si può insegnare. S’insegna a scrivere come s’insegna a dipingere. Nelle scuole d’arte si può imparare a usare i colori, le tempere, gli oli con delle tecniche ben precise. Il mondo è pieno di gente che scrive per mestiere e scrive cose diverse pur senza talento. Se noi oggi abbiamo trenta canali digitali e tutti vedono il Dottor House o Sex and the city qualcuno queste cose deve scriverle. Oggi c’è una domanda d’intrattenimento e di cultura che trenta anni fa era impensabile.
Le scuole di scrittura in Italia sono ormai tante e molti scrittori hanno fondato le loro scuole. In che modo la Luiss ha evitato di ripetere gli errori di troppe fabbriche d’illusi e d’illusioni?
Il vero errore delle scuole di scrittura fino a oggi è stato puntare sul talento e non sulla professionalità della scrittura. La Luiss è una business school. Noi non promettiamo di trasformarvi in Hemingway ma v’insegniamo a lavorare e a vivere questo tipo di lavoro, poi se a tutto ciò si aggiunge il proprio talento, ben venga.
Che profilo ha l’allievo che decide di iscriversi a questi corsi?
I più diversi! Non si può trovare un elemento unico che si può isolare e può portare a dire: «Questa è la tipologia». Ci sono allievi che a fine carriera, con una certa età, vogliono imparare una tecnica nuova e ci sono ragazzi, molto giovani,che invece riversano tutte le loro speranze in questo tipo di mestiere.
Il Web ha permesso di far cinoscere a milioni di persone il proprio pensiero e il proprio, eventuale, talento. Si scrive e si lancia. Questa novità assoluta ha cambiato in qualche modo il rapporto tra noi e la parola scritta?
Il rapporto tra noi e la scrittura è divenuto certamente più immediato. Oggi si può far conoscere in un secondo il proprio mondo e le proprie sensazioni, pensiamo agli stati di Facebook…
Da un lato questo è positivo perché dà la sensazione che le cose si possono fare, ma d’altrocanto talvolta si è istintivi e la mediazione del mondo culturale che prima ti suggeriva «Questo va bene», «Questo mettilo da parte», «Questo riscrivilo», era utile per far sedimentare le cose.
Oggi c’è molta più facilità, più immediatezza e talvolta anche un po’ di superficialità.

Giuseppe Raffo


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Il libro elettronico

01/01/2010