Cristiano Morabito

Note d’autore

CONDIVIDI

Una vita passata a scrivere testi e motivi raffinati e indimenticabili. Il ritratto di Mario Lavezzi, un artista con la musica nel cuore

Produttore, compositore, chitarrista e cantante. Per Mario Lavezzi la musica, oltre ad essere una professione, è anche una ragione di vita. Ha collaborato con grandi artisti come Lucio Dalla, Gianni Morandi, Lucio Battisti, Ornella Vanoni, scritto canzoni a quattro mani con Mogol e fatto parte di gruppi storici come i Camaleonti. La sua musica è considerata tra le più raffinate del panorama discografico. Lo abbiamo incontrato in un albergo della Capitale.

Ha celebrato 40 anni di carriera. Quando ha scoperto di voler fare questo mestiere?
Si può dire che la mia è una passione che dura da sempre, quasi come se la musica fosse scritta già nel mio Dna; quando a undici anni vedevo, a casa di un mio cugino, una chitarra appesa ad una parete sentivo dentro di me un’irrefrenabile voglia di farla suonare. Ma devo ringraziare soprattutto mia sorella che, con il suo primo stipendio da insegnante, si comprò una chitarra, vietandomi assolutamente di toccarla. Per me era quasi un incitamento a fare il contrario; infatti dopo due mesi mi accorsi che non l’aveva mai usata e me ne appropriai. E da lì è iniziato tutto.

Lei è considerato uno dei più raffinati “music maker” italiani. Tra produttore, compositore, chitarrista e cantante, se dovesse scegliere, quale delle quattro “anime” manterrebbe?
Sicuramente il compositore. È il mio lato creativo che mi dà maggior soddisfazione. Ciò che viene “creato” dal nulla, come può esserlo una canzone, resta a testimonianza nel tempo. Una sorta di ricerca di quell’immortalità cui l’uomo aspira da sempre.

Qual è tra le sue canzoni quella che più la rappresenta?
È veramente difficile da dire, perché in ogni canzone c’è qualcosa di me, ognuna ha un suo significato. Forse radunandole insieme si potrebbe cogliere un aspetto da ognuna e farne la “mia” canzone.

Si dice che le più belle canzoni eseguite dalle donne siano state scritte da uomini. Lei che ha collaborato con cantanti del calibro di Anna Oxa, Ornella Vanoni, Fiorella Mannoia, Loredana Bertè, è dello stesso avviso?
Credo sia vero. Noi uomini spesso riceviamo delle richieste, anche se non in modo esplicito, da una donna e, puntualmente, le disattendiamo. Solo in seguito ci accorgiamo che, se avessimo fatto un piccolo sforzo per esaudirle, le cose sarebbero andate in un altro modo. Scrivere per loro una canzone è forse il nostro modo di chiedere scusa, immergendoci totalmente nel loro animo, facendo loro capire che sappiamo esattamente cosa esse desiderano da noi, ma che è la nostra natura di uomini a farci comportare diversamente.

C’è una di queste cantanti a cui è rimasto più legato?
Oggi soffro quando sento Loredana. Penso stia depauperando il suo capitale di carriera. Lei è una persona vera in un mondo che spesso non lo è, come quello dello spettacolo. Loredana ha ancora oggi un potenziale enorme da sviluppare. Se solo nel corso della sua vita avesse avuto più fiducia in qualcun altro, oggi sarebbe ancora quella grande artista che è stata nel passato.

E dopo tanti anni di carriera ha “debuttato” allo scorso Festival di Sanremo, duettando, appunto, con una donna. Come è andata?
Ero abituato a stare dietro le quinte dell’Ariston a dispensare consigli agli artisti, soprattutto ai più giovani, che portavano canzoni scritte o prodotte da me. Quest’anno, dopo esattamente 40 anni di carriera, ho voluto provare a stare dall’altra parte della barricata cantando un pezzo insieme ad Alexia (Biancaneve, ndr). L’atmosfera del retropalco era sempre la stessa: io, artista navigato, mi prodigavo a tranquillizzare gli altri e la mia stessa partner, finché non è toccato a me. Quel palco è veramente particolare, a differenza degli altri teatri dove i riflettori non ti permettono di vedere al di là della seconda fila della platea, lì si vedono tutte le facce degli spettatori fino ai posti più in fondo. Quando si è aperta la quinta e ho dovuto scendere la scalinata, ho provato quella sensazione che pensavo assalisse solo chi è alle prime armi. Ma, evidentemente, non è così.

Ogni anno la polizia organizza uno spettacolo riservato ai ragazzi delle scuole, in cui si esibiscono personaggi della musica e dello spettacolo su un tema scelto di volta in volta. Pensa che la musica possa servire a lanciare messaggi positivi alle giovani generazioni?
La musica ha un potere che mi piacerebbe definire come “terapeutico” e può ottenere risultati positivi in chi la ascolta, ma anche, purtroppo, negativi. Come è stato negli Anni ’70 in cui gli artisti inneggiavano all’uso di droghe di ogni genere. Messaggi tipo “Sex drug and rock ’n’ roll” sono senz’altro più semplici da far passare di “Mi raccomando, fate i bravi e non drogatevi”. È molto più difficile e faticoso, anche perché la trasgressione è insita nell’animo umano, sicuramente più del senso civico. E poi, la parola “creativo” da sempre si accompagna a “trasgressivo”. Purtroppo nell’immaginario collettivo se qualcosa rimane nello standard della normalità non ingenera curiosità nelle persone. Un artista che dà dei consigli positivi ai giovani rischia di cadere nella sfera del paternalismo. Bisognerebbe essere quasi “subliminali” e far recepire il messaggio in maniera quasi inconsapevole.

Da creativo, se dovesse affidare ad un testimonial una campagna sulla sicurezza stradale, chi sceglierebbe?
Non è facile, anche perché (e parlo da padre consapevole del problema) i ragazzi non vogliono sentirsi fare una “paternale”. Il testimonial deve essere credibile, possibilmente un loro mito o un loro “pari” che, come si dice nello spettacolo, ha “sfondato”. Mi vengono in mente due soluzioni diverse: penso a Valentino Rossi, che per i ragazzi, e non solo, è un vero e proprio mito; ma penso anche ai dj delle discoteche. Loro oggi, come eravamo noi dei gruppi musicali (i Camaleonti, ndr) di una volta, sono quelli che conoscono meglio il mondo dei ragazzi e che, lavorando nei locali, lo vivono più da vicino. Loro possono far passare dei messaggi positivi.

Parteciperebbe a una delle nostre manifestazioni?
Volentieri! Io sono già impegnato da anni in eventi di questo genere, soprattutto per beneficenza. Oltre ad aver partecipato a numerose partite della Nazionale cantanti, da quasi sei anni mi occupo della raccolta di fondi nel campo della ricerca sulle cellule staminali per la cura della distrofia muscolare, in collaborazione con il Centro Dino Ferrari e il Policlinico di Milano. Del resto, da padre di due ragazzi in età post-adolescenziale, mi rendo conto che manifestazioni come ad esempio il vostro concerto possono essere d’aiuto per far emergere e capire i problemi legati al razzismo, al bullismo o all’abuso di droghe e di alcol, che sono i mali che affliggono la gioventù del nostro tempo.

01/11/2009