Tito Stagno
La mia Luna
Il 20 luglio del 1969 Neil Armstrong compie quel “grande balzo per l’umanità” che ha cambiato la storia dell’esplorazione paziale. Riviviamo quella magica notte nel ricordo di chi la raccontò in diretta
Il Lem che scende verso la Luna, la notte di quarant’anni fa.
Dodici minuti di concentrazione intensa, il cuore in gola, lo sguardo perduto nell’immaginare, solo attraverso le voci di Armstrong e di Aldrin che scandivano in metri al secondo la velocità della navicella e in piedi la distanza dal Mare della Tranquillità, quel momento cruciale dell’avventura di Apollo 11 non ripresa dalle telecamere di bordo. Solo ascoltando le voci: un racconto al buio, senza vedere nulla. Gli astronauti avevano troppo da fare, e i computers facevano le bizze, per pensare alla tv: l’atterraggio si sarebbe visto più tardi, in differita.
Nell’auricolare, che non mollavo neppure per un attimo, una pioggia di sigle e di numeri, che per fortuna ero in grado di interpretare, e di messaggi concisi, essenziali tra i due uomini e i controllori del volo a Houston. Io dovevo stare attentissimo a non perderli, pronto a tradurli in una cronaca fedele, puntuale, appassionante delle operazioni e delle emozioni di quei coraggiosi americani che lassù, a 400mila chilometri da noi, stavano per conquistare la Luna. Fino al momento del contatto con il suolo lunare e del memorabile annuncio del comandante Armstrong: «Eagle has landed», «Aquila è atterrata». Ecco, di quella diretta tv di trenta ore sono proprio quei dodici minuti vissuti e lavorati alla cieca, e con paura – diciamolo pure – e alla fine con commozione, i più vivi nella memoria. Ancora oggi mi capita di ripensare a quel mio «Ha toccato!» come al grido di tutta l’umanità inneggiante al successo dell’impresa.
Ma che bella domenica in tv fu quella del primo sbarco sulla Luna, il 20 luglio 1969! Quante sensazioni mi rimangono e quanti bei ricordi, al di là della giovinezza fuggita e della prima linea raggiunta in un mestiere gratificante come pochi e in una occasione storica.
Lo Studio3 della Rai, a Roma, via Teulada. Un ambiente inconsueto per noi giornalisti: di solito era riservato a commedie e programmi di varietà. Ma la maratona lunare aveva le sue esigenze: centocinquanta invitati, grandi schermi per i collegamenti, postazioni per il coordinatore della trasmissione, Andrea Barbato, per il redattore scientifico, Piero Forcella, per lo scienziato, Enrico Medi, per il telecronista Tito Stagno; e poi le cabine per i traduttori simultanei e per le telefoniste, pedane, quinte, componibili di scena per i cosiddetti riempitivi, canzoni, sfilate di moda, spettacoli di vario genere in onda ogniqualvolta la linea con lo spazio era interrotta. Dello Studio 3 due sensazioni mi restano. Il sollievo fisico dell’aria condizionata, regolata magistralmente durante l’intera trasmissione con i riflettori sempre accesi, e il conforto dell’atmosfera di enorme professionalità che mi circondava e che mi sembrò di avvertire per la prima volta, facendomi sentire orgoglioso di far parte di quel gruppo di lavoro forte e affiatato che mi sosteneva, che mi dava sicurezza. Tanti di loro non ci sono più, come i miei tre meravigliosi compagni di cordata.
L’uscita sulla Luna, i primi passi nel Mare della Tranquillità. Quelle immagini in bianco e nero così suggestive. Ero come incantato, un incanto simile allo stupore infantile. Mi chiesi persino se ciò che vedevo e raccontavo, la magnifica desolazione nella quale due di noi raccoglievano sabbia e sassi, era davvero reale o si trattava di una sorta di allucinazione dovuta all’impatto con un mondo sconosciuto. Come non ricordare la notte di quel torrido luglio quarant’anni dopo? Sono d’accordo con quanto mi disse Camilla Cederna: «Non ascoltare chi afferma di averla vissuta con indifferenza e distacco. Quella notte ci si sentiva sconvolti da un religioso stupore, una misteriosa speranza, e di me posso dirti che ero schiacciata dalla commozione». Quella strabiliante domenica televisiva accomunò nell’entusiasmo acute intelligenze e menti disarmate, scrisse il mio bravo collega Franco Goy: «Quasi nessuno dormì nell’emisfero notturno, e quelli che erano già in piedi, nell’emisfero diurno, danzarono di gioia». La mia personalissima nostalgia, riferita a quella notte e a quell’impresa, è tutta terrestre. E sinceramente un po’ amara. Perché è rimpianto di una stagione purtroppo breve della vita, nella quale volgarità, banalità, ignoranza furono (come dire?) messe in secondo piano dal rigore scientifico, dalla fede, dal coraggio, dall’orgoglio di primeggiare: insomma, da quello “Spirito di Apollo” che prese le mosse dalla “Nuova frontiera kennediana”.
Uno sguardo sulle esplorazioni spaziali del futuro? Ma sì, è d’obbligo. Nei prossimi venti anni, spese belliche permettendo, dovrebbe sorgere sulla Luna una base abitata, una colonia stabile. Ed entro cinquant’anni, progetta lo scienziato americano David Criswell, dalla Luna potrà arrivarci tanta energia elettrica da decretare la fine di ogni blackout. E Marte? Il giorno dello sbarco sul pianeta rosso lo vedo lontanissimo. Anzi, non lo vedo affatto. Una cosa è certa: il telecronista che vi parla – volevo dire: che vi scrive – sarà già partito per lidi lontani.
Il nostro cielo, domani
di Massimo Capaccioli*
Da quel primo, piccolo passo su un suolo alieno, quarant’anni fa, nessun astronauta s’è spinto ancora nel cielo profondo, oltre quei magici 400mila chilometri che ci separano dalla Luna, dove scorrazzavano le missioni Apollo. Tuttavia molti e spettacolari progressi sono stati fatti nell’esplorazione robotica del Sistema solare. Veicoli intelligenti costruiti dall’uomo sciamano ormai in lungo e in largo tra i pianeti, ne indagano le superfici e le trivellano, forano atmosfere fitte di impenetrabili nubi, scivolano tra le corone dei satelliti, tra immensi anelli fatti di ghiaino, e tra gli asteroidi che sono fonte di grande preoccupazione per il futuro della nostra specie, si tuffano come kamikaze della scienza su questo o quell’altro corpo che galleggia attorno al Sole, catturano le polveri interplanetarie per riportarle nei laboratori terrestri, urtano le comete per vedere di che son fatte, passeggiano su terreni inospitali come intrepidi e dinoccolati esploratori, si spingono fino a Mercurio dove i giorni sono lunghissimi e torridi e altrettanto lunghe e gelate le notti, o varcano le colonne d’Ercole del Sistema solare per farci sapere che c’è dopo Plutone, là tra i nuovi piccoli pianeti dai nomi esotici, e per verificare se la gravità di Newton e Einstein continui davvero a funzionare senza intoppi a quelle immense distanze dal Sole. Alcune di queste sonde portano i nomi di grandi italiani: Giotto, Galileo, Cassini, i fisici Enrico Fermi, Bruno Rossi e Beppo Occhialini, e il meccanico celeste padovano Bepi Colombo, e sono frutto dell’industria più avanzata del nostro Paese e dell’ingegno dei nostri ricercatori.
L’Italia è in prima fila nel grande rally spaziale dalle molte facce: scientifica, tecnologica, militare e sociale. Lo è anche nell’esplorazione del cosmo, ossia nell’astrofisica e nella cosmologia, discipline in cui più che altrove convivono e concorrono la ragion pura e quella pratica, e dove, un po’ come nella meccanica dei quanti, l’impossibile diventa possibile. Ne è esempio il telescopio Vst, uno strumento di nuova tecnologia concepito, progettato e realizzato a Napoli dall’Osservatorio di Capodimonte, in una delle stagioni più nere per questa affascinante città, sull’orlo di un decadimento senza precedenti.
Vst è un telescopio terrestre. La sua casa è una cupola ruotante collocata su un’ampia piattaforma ottenuta spianando una vetta andina, il Cerro Paranal, nel Cile settentrionale. Sul pianoro si ergono maestose le quattro cupole del Vlt, il più grande telescopio ottico del mondo, gestito dall’Eso, un’organizzazione europea cui l’Italia aderisce. E dal Vlt il telescopio napoletano prende il nome, Vst = Vlt Survey Telescope (nella foto qui a destra), e la ragion d’essere: è infatti uno strumento, esso stesso per qualche anno il maggiore del pianeta nella sua classe, interamente rivolto all’esplorazione sistematica del cielo. Questa caratteristica richiede che il suo occhio vitreo, uno specchio di 2,6 metri di diametro, sia accudito da oltre un centinaio di dita e braccia meccaniche che, con l’aiuto di un’intelligenza artificiale distribuita, si preoccupano di assicurare alla faccia riflettente la sua forma ottimale. Compatto e leggiadro nei movimenti, il Vst è un concentrato di tecnologia, un intricato puzzle di sottosistemi che devono funzionare e durare nel tempo nelle difficili condizioni di una montagna sperduta nel deserto di Atacama, a 2.600 metri sul livello del mare, squassata sovente da terremoti disastrosi ma dove il cielo è più vicino agli uomini.
A partire dal 2010, in ogni notte serena, accudito dai tecnici dell’Eso che lo avranno in carico, il telescopio made-in-Naples cercherà asteroidi, censirà nuove stelle e galassie, scaverà lo spazio per snidare la materia oscura e dar corpo a quell’enigmatica energia oscura che sembra alimentare l’accelerazione del cosmo, e ci inonderà di fenomeni e oggetti rari o sconosciuti, com’è sempre accaduto a ogni salto tecnologico. Un gioiello, che non è stato semplice realizzare, per gli elevati costi, per le difficoltà tecniche, e per un singolare accanimento della sorte che ha voluto la distruzione dello specchio primario durante il trasferimento dalla Russia, dov’era stato prodotto, al Sudamerica. Vst è stato finanziato dal Cipe con un primo contributo straordinario che ha dato il via al progetto, dal ministero dell’Università, dall’Istituto nazionale di astrofisica cui ora appartiene, ma anche dalla Regione Campania che ha creduto nel valore maieutico dell’impresa: una palestra di livello europeo per giovani fisici e ingegneri e un’occasione unica per far crescere l’astronomia nel Sud. Napoli ha messo in questa avventura il genio, la simpatia e la generosità della sua gente ma anche la viscosità di un ambiente difficile e malato. Oggi, alla fine di un sentiero lungo, irto e un po’ troppo pieno di meandri, in vista della vetta tiriamo un sospiro di sollievo, nella consapevolezza che nella vita oltre all’indispensabile fortuna bisogna saper stringere i denti, saper soffrire e crederci: allora anche a Napoli è possibile…
*Direttore dell’Osservatorio astronomico di Capodimonte