Alberto Oliverio, Alberto Intini, Annapaola Palagi, Riccardo Lezzerini

Dna: l’impronta che rivela

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Un percorso all’interno del codice della vita. Utilizzato inizialmente dalla medicina per rilevare le malattie genetiche, il Dna isolato dai reperti biologici permette di scagionare o incastrare il responsabile di un delitto. I casi di cronaca risolti dal

L’Elica geniale
di Alberto Oliverio*

Nel 1953, in una nota quasi telegrafica sulla rivista Nature, James Watson e Francis Crick annunciarono alla comunità scientifica di aver dipanato la struttura biochimica del Dna e di aver quindi scoperto il codice della vita, un codice semplicissimo che si avvale di un alfabeto di quattro lettere A, G, C e T, le basi azotate adenina, guanina, citosina e timina. La combinazione di queste lettere non è completamente libera e in ogni campione di Dna vi devono essere tante A quante T e tante G quante C. La doppia elica del Dna è infatti formata da due filamenti: su uno dei filamenti c’è una A, sull’altro c’è una T e ogni volta che su uno c’è una G, sull’altro c’è una C.
Un gene non è altro che una lunga sequenza del tipo: TACGATGGC… ma nella specie umana solo il 5% dei geni sono “strutturali” o codificanti, vale a dire contengono le informazioni critiche necessarie a sintetizzare una delle tante proteine di cui è fatto il nostro corpo. In teoria, sul metro di Dna che costituisce il nostro genoma ci sarebbe spazio per un milione di geni ma in realtà molto materiale genetico è ripetitivo, formato da quello che viene definito Junk Dna, Dna spazzatura. A che serve questo Dna che occupa la maggior parte del posto sui cromosomi? In realtà di spazzatura non si tratta: da un lato questo Dna è una “riserva” di materiale genetico cui la specie attinge quando deve far fronte a nuove sfide selettive e reagire con nuovi geni che codifichino informazioni utili; dall’altro, questa “spazzatura” è utile a stabilire l’architettura del Dna, cioè la sua struttura spaziale. L’aspetto per noi interessante è che nel Junk Dna vi sono sequenze di basi azotate che vengono spesso ripetute centinaia di volte, come le cosiddette frequenze Alu (Arithmetic logic unit) che costituiscono oltre il 10% del Dna: sono proprio queste frequenze, che presentano sequenze diverse da individuo a individuo, a consentire di stabilire le impronte digitali genetiche.
Tutto inizia intorno alla metà degli Anni ’80 quando vennero realizzati i “sequenziatori”, macchine in grado di analizzare frammenti di Dna sulla base della Pcr (Polymerase chain reaction). I sequenziatori, o in slang Pcr, sono macchine che semplificano molto il lavoro di analisi: un frammento di Dna viene moltiplicato (clonato) un miliardo di volte, attraverso una vera e propria reazione a catena. La macchina divide il frammento di Dna in molti “pezzetti” le cui estremità sono marcate con sostanze coloranti diverse, ciascuna delle quali si attacca ad una sola delle basi A,C,T e G. Separando questi pezzetti e notando il colore delle estremità marcate, la macchina Pcr ricostruisce l’intera sequenza del frammento originario.
La polizia si serve del Dna, generalmente isolato dal sangue, dalla pelle, dalla saliva, dai capelli e da altri tessuti e fluidi biologici, per identificare i responsabili di atti criminosi, come delitti o violenze. Il processo utilizzato è noto come “fingerprinting genetico” (impronte digitali genetiche): la tecnica consiste nel comparare la lunghezza delle sezioni variabili del Dna ripetitivo, come le short tandem repeats o minisatelliti; ad esempio la coppia di basi AT ripetuta 4 volte (ATATATAT) ma il numero delle ripetizioni può essere superiore. La comparazione tra due campioni di Dna in esame non si basa perciò sull’analisi di tutta la sequenza della sua molecola, cioè di miliardi di basi, ma solo su tali sezioni. Infatti, mentre in tutti gli esseri umani la sequenza Alu è ripetuta per centinaia di migliaia di volte, come se la “fotocopiatrice” fosse impazzita, in ognuno di noi la frequenza di ripetizione è diversa, estremamente individuale, proprio come avviene per le impronte digitali dei polpastrelli delle dita.
Questo metodo, sviluppato nel 1984 dal genetista britannico Sir Alec Jeffreys, fu usato per la prima volta nel 1988 per incriminare un inglese, Colin Pitchfork, responsabile dello stupro e dell’omicidio di due ragazze e riconosciuto colpevole grazie al test del Dna. Il fingerprinting genetico può essere utilizzato anche per identificare le vittime di incidenti di massa come, ad esempio, nel caso delle Torri gemelle. Ma quanto è affidabile il test del Dna? Esso è stato utilizzato da oltre 20 anni, inizialmente per rilevare la presenza di malattie genetiche, in seguito in medicina legale: se, analizzando campioni di materiale biologico provenienti, ad esempio, dallo scenario di un delitto, risulta che il Dna coincide con quello di una persona sospettata, si può dedurne che il sospettato è colpevole. Infatti, con l’eccezione dei gemelli identici (omozigoti), il Dna di ogni individuo è unico. Come abbiamo notato, il test si basa sull’estrazione di un campione di Dna da un tessuto o da un liquido del corpo: il campione deve essere poi spezzettato in “strisce”, grazie ad alcuni enzimi che riconoscono specifiche sequenze di basi lungo il filamento di Dna e che lo “tagliano” esattamente in corrispondenza di queste sequenze; se le sequenze, simili a quelle di un codice a barre, coincidono in diverse strisce, esiste un’elevatissima probabilità che la coincidenza non sia casuale.
Nel caso in cui si prende in esame un alto numero di “strisce” e si seguono metodi moderni, la probabilità di una coincidenza casuale è 1 su 100 miliardi, vale a dire praticamente nulla: se invece le strisce utilizzate sono poche le probabilità possono scendere a 1 su 5 milioni, il che lascia ben poco spazio a una coincidenza casuale ma qualche spazio all’opera degli avvocati. Soprattutto in passato, quando il campione era scarso o vecchio e la tecnica meno perfezionata, l’affidabilità dei risultati veniva posta in discussione, ma oggi i metodi sono sempre più raffinati e il campione può essere veramente minimo: un mozzicone di sigaretta contiene tracce sufficienti per rivelare l’identità di chi l’ha fumato. Esistono comunque problemi metodologici, prevalentemente legati al modo in cui vengono condotte le indagini: ad esempio l’identificazione di un presunto colpevole può essere pregiudicata qualora la scena del crimine sia contaminata dal Dna di diverse persone.
* Scienziato e ricercatore


La Banca Dati del Dna
di Alberto Intini*

In assenza di una banca dati del Dna, il limite dell’applicazione forense del test del Dna è determinato dal fatto che per identificare la persona che ha rilasciato sulla scena di un delitto una propria traccia biologica occorre vi siano dei soggetti indagati, o anche solo sospettati, per poter procedere al confronto del profilo genetico di questi ultimi con quello estratto dalla traccia biologica repertata nel corso del sopralluogo.
La situazione è analoga a quella che riguardava le impronte digitali fino alla metà degli anni Novanta, quando il Casellario Centrale d’Identità (l’archivio dei cartellini fotodattiloscopici del Servizio Polizia Scientifica) fu informatizzato con la costituzione dell’Afis (la banca dati delle impronte digitali) che, invece, oggi consente la ricerca automatica per il confronto identificativo con le impronte digitali “esaltate” sulla scena del crimine (ovviamente se riguardano persone che sono state oggetto in passato di fotosegnalamento di polizia).
La raccolta dei dati del Dna in un archivio informatico di persone implicate in procedimenti penali permetterebbe inoltre la comparazione dei profili dei Dna di tali soggetti con i profili dei Dna già ottenuti da tracce biologiche rinvenute in passato sulle scene di gravi reati (omicidi, violenze sessuali, rapine, sequestri di persona, eccetera) non ancora risolti, per poterne così identificare gli autori.
In sintesi, questa è la evidente forza risolutiva di una banca dati del Dna: poter dare un nome ai segni lasciati sul luogo del crimine da persone che non hanno mai avuto alcun rapporto con la vittima, in quanto scelta per caso, e questo avviene quando operano recidivi della rapina, della violenza sessuale, dell’omicidio senza apparente movente, dell’azione predatoria in genere.
Quando si parla di banca dati del Dna non è corretto riferirsi esclusivamente all’uso criminalistico del profilo genetico. Basti pensare agli incidenti aerei, ai cadaveri bruciati o irriconoscibili, ai resti scheletrici. In alcuni di questi casi, come per le persone scomparse, l’unica alternativa per l’identificazione è l’analisi del Dna.
Le difficoltà principali che hanno caratterizzato il ritardo italiano riguardano la necessità di garantire i profili della tutela della privacy in sintonia con le esigenze di sicurezza, al fine di contemperare l’avvertito bisogno di un efficace contrasto del crimine con un’adeguata tutela dei diritti degli interessati.
Le resistenze alla istituzione di una banca dati del Dna sono, in sostanza, legate alla ipotetica possibilità che dai campioni biologici raccolti si possa, in maniera abusiva e illecita, trarre informazioni come gli orientamenti sessuali, la predisposizione a malattie ed altri elementi personalissimi, informazioni affatto diverse dal profilo del Dna a fini identificativi. In realtà, si tratta di una sequenza alfanumerica identificativa di alcuni punti del Dna, che la stessa norma si preoccupa di indicare come “non codificanti” ossia inidonei a fornire informazioni ulteriori sulla persona cui appartiene.
La legge istitutiva della Banca dati del Dna sembra invece soddisfare le esigenze del Garante della Privacy, soprattutto con riferimento alla previsione che la Banca dati Dna abbia specifiche finalità di identificazione, siano previste rigide modalità di conservazione, sia assicurata la tracciabilità di chi accede al dato.
Lo schema generale della Banca dati del Dna è contraddistinto da una netta separazione tra il laboratorio che analizza i campioni biologici e la banca dati dei risultati: tra queste due entità esiste una totale distinzione, addirittura in due ministeri diversi, senza possibilità di commistioni. Inoltre, vi è un ulteriore criterio di sicurezza: l’immediata separazione del campione biologico dal nome della persona a cui appartiene, grazie a un comune codice identificativo di tipo criptico.
Infatti, si prevede l’istituzione presso il ministero della Giustizia, Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria, del Laboratorio centrale per la Banca dati nazionale del Dna, per la tipizzazione dei profili di Dna e la conservazione dei campioni biologici (saliva) prelevati nei confronti dei soggetti che – per i soli delitti non colposi per i quali è previsto l’arresto facoltativo in flagranza, con una serie di esclusioni (delitti tendenzialmente non connotati da violenza o minaccia, quelli contro l’amministrazione della giustizia, i delitti di falso, quelli fallimentari) – sono sottoposti alla misura della custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, arrestati in flagranza di reato, sottoposti a fermo di indiziato di delitto, detenuti o sottoposti a misura alternativa a seguito di sentenza irrevocabile per un delitto non colposo, sottoposti a misura di sicurezza detentiva.
Contestualmente viene istituita presso il ministero dell’Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, la Banca dati nazionale del Dna per la raccolta ed il confronto dei profili del Dna, rimandando ad uno o più regolamenti di attuazione, proposti di concerto dai ministri dell’Interno e della Giustizia, la disciplina della materia; i codici che vengono raccolti, per il solo confronto ai fini di identità, pervengono, pertanto, dal Laboratorio Centrale per la tipizzazione ovvero dai reperti biologici tratti sul luogo del delitto, o comunque su cose pertinenti al reato.
In questo modo, i profili di Dna ottenuti dai soggetti detenuti e trasmessi alla Banca dati nazionale Dna presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza potranno essere utilizzati per i necessari confronti con i profili di Dna ottenuti dalle tracce biologiche repertate sulla scena del crimine dalle forze di polizia nel corso delle attività investigative, al fine di giungere, con la stessa modalità attualmente utilizzata per le impronte digitali, all’identificazione della persona che ha lasciato la propria traccia biologica sul luogo del delitto.
Una tale informazione costituisce tecnicamente solo un indizio, sufficiente a sottoporre ad indagine una persona al fine di stabilire, nel procedimento e con ogni garanzia difensiva, il suo profilo del Dna per mezzo di perizia o consulenza disposta dall’autorità giudiziaria. La Banca dati del Dna non è, pertanto, una macchina che forma la prova dei processi, ma è solo un archivio che fornisce un indizio, decisivo, ma pur sempre solo un indizio: la prova si dovrà formare nel procedimento nel quale è stato acquisito il reperto biologico.
Poiché l’impronta genetica è anche utile nei casi di rinvenimento di resti umani, in quanto permette di poter risalire all’identità della persona, l’archivio dei profili del Dna potrà contenere quelli delle persone scomparse o dei loro congiunti, qualora si rendano disponibili, proprio per facilitare la identificazione di persone o resti umani non identificati.
Inoltre, l’archivio dei dati sarà anonimizzato e verrà consultato, esclusivamente al fine della identificazione criminale, da personale autorizzato ed i cui accessi saranno tracciati proprio per garantire il sistema da indebite interrogazioni del database.
Infine, sono stati individuati due organismi di controllo indipendenti dall’Autorità Giudiziaria e dagli Organi di Polizia: il Garante per la protezione dei dati personali, per la Banca dati nazionale del Dna istituita presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza; il Comitato nazionale per la biosicurezza e le biotecnologie, per il Laboratorio centrale per la Banca dati nazionale del Dna istituito presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.
* Direttore del Servizio Polizia Scientifica della Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato
 


I casi risolti
di Annapaola Palagi

Permette di sapere se una persona era presente o no sulla scena del crimine, di scagionare persone accusate di reati, di identificare le vittime di catastrofi naturali o verificare l’identità di persone scomparse. È il Dna: l’impronta genetica che rende unico ciascuno di noi e la cui analisi facilita anche il lavoro degli investigatori permettendo di risalire in modo inequivocabile al “proprietario” della traccia biologica prelevata sulla scena del crimine. Il test del Dna permette anche di escludere con certezza, così come è successo anche in alcuni recenti casi di cronaca, la presenza di una persona ad esempio in casi di violenza sessuale: il profilo di Dna della persona sospettata di aver commesso il reato può essere confrontato con quello estratto dalle tracce di liquido seminale dello stupratore e, se diverso, permette l’esclusione certa del soggetto indagato. L’impronta biologica è infatti unica per ogni persona (tranne per i gemelli omozigoti) e la sua analisi permette – con un dato scientifico assolutamente inconfutabile – di dire se quel liquido o quella cellula appartiene o no a una determinata persona. «La scienza è esatta nei risultati – spiega Renato Biondo primo dirigente tecnico della Polizia Scientifica – ma il dato non sempre è facile da interpretare e soprattutto da calare nella realtà processuale». Le difficoltà nascono in special modo quando si analizzano situazioni di violenze sessuali o omicidi in cui i liquidi biologici possono essere mischiati. In poche parole sulla scena del delitto c’è sempre una traccia: se è unica, può essere facilmente confrontata con quella dell’imputato o del sospettato; se invece è mista la certezza del risultato c’è, ma è più difficile da interpretare e da spiegare a una giuria nel corso del dibattimento.
Nel caso, ad esempio, di una violenza sessuale di gruppo, viene estratto una campione di liquido seminale dove sono presenti più fluidi biologici; i vari punti del Dna analizzati forniscono una sequenza di numeri da comparare con quella dei sospettati. Se nelle 2 sequenze poste a confronto c’è anche un solo numero diverso (che compare in una, ma non nell’altra) vuol dire che non è quella la persona che stavamo cercando. In base a standard internazionali sono 16/17 i punti del Dna analizzati per un sequenza totale di 32/34 numeri (2 valori per ogni punto). Spiega ancora il biologo Biondo: «Per noi ogni punto analizzato permette di lasciare nella lista dei sospettati solo il 10 per cento del totale. Questo vuol dire che quando si hanno 10 punti analizzati quel Dna può corrispondere solo a 1 persona su 10 miliardi». Quando è possibile invece analizzare solo 6 punti del Dna il risultato non è utile all’identificazione: può esserci solo la compatibilità.

Mozziconi di sigaretta, saliva e sangue
«Il test è asettico, il risultato scientifico è inattaccabile – sottolinea il primo dirigente tecnico della Polizia di Stato – ma noi possiamo dire se quella impronta genetica corrisponde o no a una determinata persona, non siamo noi a poter dire se quella persona ha commesso il reato oppure no». Gli esami si possono effettuare su campioni di sangue, saliva, liquido seminale, ossa, denti, frammenti di pelle o di altri tessuti. Un mozzicone di sigaretta lasciato sul luogo del delitto contiene abbastanza saliva da permettere l’esame. Ed è proprio grazie alle analisi del Dna – effettuate sui tanti mozziconi di sigaretta trovati sul monte che sovrasta l’autostrada A/29 Trapani-Palermo – che sono stati incastrati gli esecutori della strage di Capaci (Pa). Le prove riconducevano a Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera come artificieri del commando mafioso che – il 23 maggio del 1992 – fece esplodere un’enorme carica di tritolo che uccise il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e 3 agenti della scorta. «Quelli erano i primi test effettuati dalla polizia scientifica e all’epoca – spiega Renato Biondo – fu svolto il test di un punto del Dna denominato HLA DQalpha che oggi non si usa più per le indagini. Questo test, che analizza un punto specifico e che necessita di grandi quantità di sostanza biologica, viene però ancora oggi utilizzato ad esempio in ambito sanitario per valutare la compatibilità per i trapianti di organi».
Numerosi sono i progressi fatti in questo campo nel corso degli anni e le moderne tecnologie, sempre più sensibili, permettono oggi ai biologi esperti della polizia scientifica, e non solo, di svolgere la analisi anche su microtracce di liquido biologico dove altri test forensi forse fallirebbero. Una microtraccia lasciata su un minuscolo pezzo di scotch ha permesso di confutare, ad esempio, la testimonianza di Angelo Izzo nel caso del duplice omicidio di Maria Carmela Maiorano e della figlia quattordicenne Valentina. Le donne furono uccise, legate con un nastro adesivo e poi sotterrate in una villetta nei pressi di Ferrazzano, in provincia di Campobasso, il 28 aprile 2005. Nella sala da pranzo, dove secondo gli investigatori era stata uccisa la giovane ragazza, Izzo diceva di non esserci mai entrato. Gli inquirenti non erano riusciti a trovare, in quel luogo, impronte o altri reperti utili per fornire prove da usare durante il processo. Furono trovati solamente alcuni piccoli pezzettini di nastro adesivo che probabilmente l’assassino aveva staccato con la bocca e che gli erano rimasti appiccicati al labbro. Il Dna estrapolato da quei microframmenti di scotch corrispondeva a quello di Angelo Izzo e dimostrava che l’imputato in quella stanza – a differenza di quanto affermava – ci era entrato. «Questo caso – sottolinea ancora il dirigente Biondo – dimostra quanto sia fondamentale che ci sia molta attenzione da parte di chi fa l’analisi così come da parte di chi svolge le indagini». Se quei pezzetti di scotch non fossero stati repertati, magari oggi confutare quella versione sarebbe stata impossibile.
Sempre nel 2005 un altro caso di omicidio fu risolto a Firenze grazie a delle piccolissime tracce di sangue trovate sui vestiti dell’assassino. Si tratta dell’omicidio di Emanuela Biagiotti trovata morta, accoltellata, all’interno del supermercato “Penny Market” dove lavorava. Dopo varie indagini i sospetti caddero su un collega della vittima: Leonardo Tovoli. Nonostante l’uomo avesse lavato gli abiti che indossava, gli investigatori riuscirono a trovare tra le fibre del tessuto dei pantaloni una piccola traccia di sangue: l’analisi del Dna dimostrò che si trattava proprio del sangue della vittima.

Un capello per l’omicidio D’Antona
Ma anche la radice di un solo capello può rivelare con esattezza il proprietario della traccia biologica. Ed è proprio grazie ad un capello che le indagini sull’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona arrivarono ad una svolta: sul luogo del delitto c’era anche la brigatista Laura Proietti. In via Salaria, la mattina dell’omicidio, era parcheggiato un furgone bianco sul cui sedile gli uomini della Scientifica hanno trovato un capello; l’analisi del Dna chiarì subito che apparteneva ad una donna. «E sì perché la prima cosa che l’analisi dell’impronta genetica dice, senza sbagliare – afferma l’esperto Renato Biondo – è il sesso della persona a cui appartiene». Pochi giorni più tardi quel risultato fu confrontato con il Dna della Proietti estratto dalla saliva recuperata da un mozzicone di sigaretta: erano gli stessi.

Cromosoma Y e legami parentali
Le ultime tecnologie permettono anche di fare analisi specifiche sui Dna per capire se esiste una relazione parentale di origine materna o paterna. Questa possibilità è stata utilizzata nel caso dell’omicidio di Giuseppina Potenza, trovata morta sulla spiaggia di Manfredonia nel 2004. «In quell’occasione è stata utile – spiega Biondo – la professionalità del medico legale della Polizia di Stato che, oltre al classico tampone vaginale, ha preso anche un campione sulla superficie esterna della vittima che è servito a individuare il Dna dell’ultima persona che aveva avuto un rapporto sessuale con la donna prima che morisse. I sospettati erano tanti – precisa – e per ridurre il campo è stata fatta un’analisi sul cromosoma Y di questo Dna estratto per vedere se c’era un legame parentale con la vittima». Il cromosoma Y viene, infatti, trasmesso di padre in figlio in tutta la progenie maschile. In questo caso il cromosoma Y corrispondeva a quello del padre di Giuseppina, ma il Dna non era il suo. Rimanevano “in gioco” una decina di persone tra fratelli del padre, figli dei fratelli e cugini. Il Dna trovato nel liquido seminale corrispondeva a quello di un cugino da parte del padre.
Tutto questo è ovviamente sempre possibile solo se i reperti e le cellule biologiche sono integre. Il Dna si regge infatti su un’architettura formata da una struttura centrale proteica la cui stabilità è fondamentale per mantenerne le caratteristiche. Ma le alte temperature o i batteri possono intaccarlo, cambiarne la struttura e spezzarlo. Se i punti di rottura del Dna sono quelli che servono per le analisi non si ottiene alcun risultato. Se invece le parti che servono per il test sono integre e conservate in modo corretto, è possibile grazie alle moderne tecnologie ottenere buoni risultati anche su campioni di 20 anni fa. Per questo motivo nei laboratori della Scientifica della Polizia di Stato i campioni di Dna, estratti e analizzati, vengono conservati in frigoriferi a temperature che stanno all’incirca a 25 gradi sotto zero.

Identificare le vittime di disastri naturali
C’è un gruppo di missione composto da esperti della Polizia Scientifica, il Disaster victim identification (Dvi), che lavora in casi di catastrofi naturali per l’identificazione delle vittime senza nome. Dopo lo tsunami che ha colpito la Thailandia (dove il gruppo è riuscito a identificare ben 40 italiani) e l’attentato terroristico a Sharm El Sheik, il Dvi ha applicato le sue sofisticate tecniche anche a L’ Aquila dopo il terremoto. Per dare un’identità ai corpi spesso martoriati dalla macerie si procede con la ricerca di segni di riconoscimento, con il prelievo – quando possibile – di impronte digitali o dentarie o con il prelievo di materiale biologico per estrarre il profilo genetico della vittima.


Come lo utilizzano le polizia straniere
In Gran Bretagna, qualche mese fa Sean Hodgson ha ritrovato la libertà dopo quasi trent’anni di carcere. A tirarlo fuori il test del Dna: applicato ai fluidi rinvenuti sulla scena del delitto ha escluso che fosse lui l’autore dell’omicidio della barista ventenne per il quale sarebbe rimasto dietro le sbarre a vita. Il percorso inverso lo ha fatto Steve Wright, condannato l’anno scorso all’ergastolo per l’omicidio di cinque prostitute. A inchiodarlo il materiale genetico rinvenuto su tre di loro e risultato sovrapponibile a quello prelevatogli anni prima per il furto in un pub. L’errore giudiziario e l’assassino seriale sarebbero rimasti tali senza la Banca dati nazionale del Dna, la più estesa al mondo in rapporto alla popolazione, che dal 1998 al 2008 ha dato alla polizia l’identità del possibile autore di 390mila reati.
Per meglio bilanciare la lotta al crimine con il diritto alla privacy e in risposta ad una sentenza di condanna della Corte dei Diritti dell’Uomo, il governo ne ha appena annunciato un ridimensionamento. Secondo stime dell’Home Office, avrà come conseguenza 4.500 reati in meno all’anno su cui indagare perché a tempo indeterminato continueranno ad essere conservati solo i profili genetici dei condannati a una pena detentiva. Se scagionati dalle accuse, saranno invece cancellati automaticamente quelli degli indiziati di reati sessuali e violenti e di tutti gli altri reati ma solo dopo, rispettivamente, 12 e 6 anni. La banca dati, dalla quale a dicembre sono già state rimosse le impronte genetiche dei minori di 10 anni, dovrebbe così alleggerirsi di un milione circa di profili.
Aumentano invece quelli raccolti dall’Fbi che dallo scorso aprile, uniformandosi a 15 Stati americani, sottopone al prelievo anche chi è in attesa di giudizio. Quarto emendamento della Costituzione Usa permettendo – quello posto a tutela della sfera privata individuale – nei prossimi anni i profili attualmente conservati, circa sette milioni, dovrebbero avere un’impennata.
In California, intanto, dove tutti i pregiudicati per reati sessuali vengono identificati geneticamente, l’arresto di John Thomas il mese scorso potrebbe far riaprire una serie di cold case. Il suo Dna, prelevato per una vecchia condanna a cinque anni per violenza carnale, gli ha finora attribuito due omicidi, ma la polizia di Los Angeles pensa di aver finalmente trovato il “West Side rapist” che negli anni Settanta e Ottanta stuprò e uccise una trentina di donne sole e anziane.
Più frustranti le ricerche condotte dalle forze di polizia di diversi Länder tedeschi che per due anni hanno dato la caccia a una donna il cui Dna era stato trovato su 40 diverse scene del crimine, tra cui l’omicidio di una poliziotta. Lo scorso 27 marzo hanno annunciato di averla trovata: era la dipendente della ditta fornitrice dei tamponi con cui veniva prelevato il Dna, colpevole soltanto di averli contaminati con il proprio nell’impacchettarli.
Loredana Lutta


La Scientifica sul territorio
Da Milano a Palermo passando per Roma: tre emblematiche strutture periferiche della Polizia Scientifica, caratterizzate dalla poliedrica attività specialistica sul territorio, assicurata in gran parte dai videofotosegnalatori e dai dattiloscopisti. «La nostra specialità è nata con loro perché il nostro principale compito è quello di svolgere attività di sopralluogo in casi di reato» dice Giovanna Petrocca, direttore del Gabinetto interregionale di Lazio, Umbria e Abruzzo con sede a Roma. Lo ribadisce anche il vice questore aggiunto Manfredi Lo Presti che dirige a Palermo il Gabinetto per la Sicilia occidentale: «Il fulcro dell’attività della Polizia Scientifica è il sopralluogo, che deve essere fatto con il massimo scrupolo, da personale attento, esperto e fornito di intuito». Infatti, molti operatori dei Gabinetti regionali e interregionali sono impiegati esclusivamente in questa attività. «Per trovare le impronte del ladro, bisogna sapere dove cercare» dice Lo Presti, parlando dei sopralluoghi per furti in abitazioni. «Perché ovunque in casa si possono trovare impronte ma sono per lo più quelle di chi vi abita: è importante quindi sapere come muoversi e evitare azioni che potrebbero inquinare le prove». Con gli uffici investigativi c’è un vero e proprio lavoro di squadra; solo dopo che i videofotosegnalatori hanno completato i rilievi sulla scena del crimine e repertato impronte e tracce utili alle indagini, entrano in gioco i dattiloscopisti: fanno un lavoro di valutazione e comparazione delle impronte, dopo averle inserite nella banca dati (Afis). Le analisi, diverse a seconda dei casi, vengono poi svolte in laboratorio e ogni Gabinetto regionale ha, in questo campo, potenzialità peculiari che rispecchiano le specifiche esigenze operative locali.
«A Roma – dice Giovanna Petrocca – l’ufficio è particolarmente impegnato, oltre che nell’attività di sopralluogo, anche in quelle di ordine pubblico e fotosegnalamento». La posizione di Capitale e sede del Governo, dove manifestazioni e cortei sono all’ordine del giorno, impone l’impiego quotidiano di decine di specialisti, che filmano e fotografano situazioni di tensione o disordini tra la folla e i manifestanti. All’interno degli stadi dirigono le telecamere mobili nei punti caldi, riprendendo gli scontri fra tifoserie. È un modo per aiutare e supportare nel suo lavoro la Digos: le riprese vengono poi analizzate dagli esperti del settore videofotografico per individuare e confrontare le persone. Altro grosso impegno è quello di raccogliere e schedare ai fini identificativi foto e impronte di autori di reati, stranieri che entrano illegalmente in Italia o che richiedono il permesso di soggiorno, asilo politico e altro, così come stabilito dalla legge Bossi-Fini. «Questo lavoro occupa molta parte del nostro personale – dice il primo dirigente Petrocca – e il fotosegnalamento viene svolto principalmente nella sede distaccata di via Patini, dove ha sede l’Ufficio Immigrazione della questura di Roma e dove sono impegnati, per questa attività, una quarantina di operatori specializzati». Per quanto riguarda le analisi da effettuare sui reperti raccolti durante i sopralluoghi, il Gabinetto interregionale di Lazio, Umbria e Abruzzo si appoggia ai laboratori centrali del Servizio Polizia Scientifica, tranne che per le impronte latenti e i narcotest.
A Milano, il Gabinetto regionale per la Lombardia è invece dotato di numerosi laboratori che permettono autonomamente di fare quasi tutte le analisi in loco: da quelle chimiche-merceologiche a quelle balistiche, dalle indagini video-fotografiche all’impiego del recente “laboratorio digitale frammenti”. Qui si acquisiscono e si riproducono fotograficamente i frammenti di impronta secondo un protocollo che consente di memorizzare dettagli delle linee papillari decisivi per il giudizio di utilità e identità dattiloscopica. «Si tratta – specifica Giuseppina Menna, dirigente del gabinetto lombardo – dei frammenti di impronta digitale o palmare, “esaltati” con le tradizionali polveri metalliche o a seguito dell’impiego di sostanze chimiche». Di particolare rilievo i numerosissimi interventi effettuati dai videofotosegnalatori nell’area milanese per i rilievi tecnici su omicidi, violenze, rapine o furti ma anche per la ricostruzione di altri tipi di casi. «Si pensi ad esempio al settore degli infortuni sul lavoro, anche mortali – dice il primo dirigente Menna – il sopralluogo è di fondamentale importanza, il lavoro da svolgere è complesso e, a seguito di intese ormai da tempo consolidate, viene svolto in sinergia con i medici dei distretti sanitari competenti e con l’ausilio dei Vigili del Fuoco».
I Gabinetti di Palermo e Catania si dividono l’area occidentale e orientale della Sicilia: «Uno solo non sarebbe mai bastato – afferma il vice questore Lo Presti, dirigente del primo – sia per la dimensione della regione che per il numero elevato di episodi criminosi. Per guerre di mafia solo in una città contiamo decine di omicidi all’anno». Per questo gli uffici della Scientifica del capoluogo siciliano sono dotati di quasi tutti i laboratori che servono per operare in modo efficace e diretto. «Abbiamo anche – specifica il dirigente – un laboratorio all’avanguardia, costituito 5 anni fa: quello di biologia dove, con attrezzature sofisticate e costose, si esaminano tracce biologiche e si fa l’analisi del Dna. È il nostro fiore all’occhiello e solo nell’ultimo anno – sottolinea Lo Presti – abbiamo compiuto ben 8 mila accertamenti, alcuni dei quali ci hanno permesso di scoprire gli autori di reati gravissimi». Un altro settore molto importante a Palermo è quello delle indagini grafiche dove un esperto, utilizzato spesso dalla procura, ha analizzato, tra gli altri reperti, i “pizzini” trovati nei rifugi di Provenzano e Lo Piccolo, riuscendo spesso a individuarne gli autori.


Quanti sono
L’organizzazione periferica della Polizia Scientifica, ove operano quasi 2.500 specialisti, sia del ruolo ordinario che del ruolo tecnico-scientifico, è improntata alla massima efficacia di intervento sul territorio. Conta 14 Gabinetti regionali o interregionali, situati nei capoluoghi delle regioni più vaste e dipendenti direttamente dal Servizio Polizia Scientifica, nonché 89 Gabinetti provinciali, presenti in tutte le questure e inseriti nelle Divisioni anticrimine. Inoltre, in 270 commissariati distaccati di ps, sono stati istituiti altrettanti Posti di segnalamento e documentazione.

 

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01/06/2009