Annalisa Bucchieri

Parola di poliziotto

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Dal Codice Monza ai cellulari e alle intercettazioni. Come cambia il gergo del mestiere a secondo delle malelingue con cui gli uomini in divisa hanno a che fare

Il capo pattuglia della volante in uscita comunicava «011» e la sala operativa rispondeva «016». Tradotto: «come mi sentite?» «bene». Una volta il turno di servizio iniziava così e per tutto il giorno la polizia “dava i numeri”. Si trattava del Codice Monza, usato via radio per comunicare tra colleghi e con la Centrale in modo da non essere compresi dai malviventi all’ascolto. Ormai nelle questure da molti anni si usano frequenze criptate pertanto chi vuole ascoltare deve disporre di sofisticate e costose apparecchiature. Qualche numero Monza si usa ancora, motivato più da consuetudine e tradizione che da reali esigenze. Ora si comunica in maniera differente. A cambiare il linguaggio poliziesco, rendendolo più dinamico e sciolto, ha contribuito l’avvento dei cellulari che hanno assorbito la maggior parte degli scambi verbali degli operatori delle Squadre mobili, della polizia giudiziaria e della Digos. Non solo. Le intercettazioni telefoniche dedicate alla criminalità organizzata e alle cosche hanno costretto ad un vero lavoro di interpretazione e decrittazione degli slang delinquenziali, delle parole segrete dei terroristi e soprattutto dei codici di ’ndrangheta, Cosa nostra e Sacra corona unita, intrisi di dialetto. Ore di ascolto attento alle costruzioni sintattiche, alle metafore e alle simbologie hanno trasferito per osmosi ai poliziotti il frasario del male che sono chiamati a combattere. Per interagire con i delinquenti bisogna parlare la loro stessa lingua: ne risulta un pastiche semantico che avrebbe sicuramente ispirato Carlo Emilio Gadda per un seguito di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Entrambe le parti in questione usano le stesse accortezze: investigatori e pregiudicati evitano di dare indicazioni e dettagli, si esprimono in maniera allusiva e costruiscono allegorie e sensi traslati.
Sia dalla parte dei buoni che da quella dei cattivi i processi di omogeneizzazione dialettale hanno dato vita a slang sabaudo-calabresi, partenopei-pugliesi, lombardo-siculi, e così via. Difatti gli anni fuori sede che ogni poliziotto deve trascorrere nella sua carriera lontano dalla regione d’origine comportano un adeguamento al frasario del posto in cui si presta servizio ma anche la contaminazione dello stesso con il proprio dialetto e vocabolario natìo che si è portato appresso come bagaglio culturale. Dall’altra parte, le infiltrazioni mafiose nel Settentrione hanno prodotto una diffusione di meridionalismi delinquenziali. Per cui paradossalmente alcuni investigatori della Mobile di Torino sanno decifrare molto meglio le conversazioni della ’ndrangheta in calabrese stretto rispetto al linguaggio della mala piemontese. Inoltre, considerando che le persone arrestate girano in diverse carceri della Penisola e che all’interno della cella parlano per giornate intere delle loro malefatte, è facile che un linguaggio o un modo di agire tipico del Sud venga importato da malavitosi del Nord. Qualche differenza però resta rispecchiando identità e realtà regionali.
Dalle Alpi Giulie fino all’Etna, accavallato o calzato è un soggetto armato, ma già quando si

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01/06/2009