Antonio Manganelli, Franco Stano, Piersandro Vanzan
Per non dimenticare - Storia di un Giusto
A cent’anni dalla nascita di Giovanni Palatucci, fra tante iniziative che hanno ricordato l’eroico funzionario di polizia immolatosi per salvare dalle camere a gas e dai forni crematori migliaia di ebrei e di oppositori al nazismo, anche Poste Italiane hanno dato il loro contributo a una causa giusta: ricordare degnamente un Grande Uomo. Dunque, anche una emissione filatelica (tre milioni e mezzo di francobolli che andranno ad affrancare altrettante lettere, cartoline, missive o che finiranno nelle collezioni di tanti appassionati di filatelia) potrà risultare uno strumento utile a perpetuarne la memoria. Tuttavia, la vita e l’opera di Giovanni Palatucci sono da anni sottoposte allo studio della Chiesa. La Congregazione dei Santi sta valutando il suo profilo che, per una infinità di ragioni, potrebbe rispondere ai rigorosissimi requisiti che contraddistinguono i martiri della fede. Poliziamoderna, per documentare e aggiornare i suoi lettori sulle novità che riguardano la vicenda terrena e spirituale del Questore di Fiume che finì i suoi giorni a Dachau, propone alcuni importanti materiali di studio e riflessione. Innanzi tutto il contributo del capo della Polizia all’emissione del francobollo, avvenuta il 29 maggio scorso. Il prefetto Antonio Manganelli ha infatti scritto per l’occasione il testo che compare nel Bollettino illustrativo stampato da Poste Italiane. Insieme al capo della Polizia ha dato il suo contributo al Bollettino anche padre Piersandro Vanzan, gesuita, vicepresidente dell’Associazione nazionale “Giovanni Palatucci”, istituita presso il ministero dell’Interno, e scrittore della “Civiltà Cattolica” di Roma: noi ne presentiamo una parte importante, che contribuisce a mettere ancor meglio a fuoco la straordinaria personalità del funzionario. Infine, per fare il punto sull’iter della causa di beatificazione, pubblichiamo uno scritto di padre Franco Stano, postulatore della causa stessa presso la Congregazione dei Santi e collaboratore di Poliziamoderna.
Storia di un Giusto
di Antonio Manganelli
“Ci vogliono dare ad intendere che il cuore sia solo un muscolo e ci vogliono impedire di fare quello che il cuore e la nostra religione ci dettano”. In questa breve frase credo sia racchiuso il senso più profondo delle eroiche scelte compiute da Giovanni Palatucci.
Come scheda biografica di questo straordinario poliziotto, scelgo di riportare la motivazione della Medaglia d’oro al valor civile che il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro gli conferì, alla memoria, nel 1995: “Funzionario di Polizia, reggente la Questura di Fiume, si prodigava in aiuto di migliaia di ebrei e di cittadini perseguitati, riuscendo ad impedirne l’arresto e la deportazione. Fedele all’impegno assunto e pur consapevole dei gravissimi rischi personali, continuava, malgrado l’occupazione tedesca e le incalzanti incursioni dei partigiani slavi, la propria opera di dirigente, di patriota e di cristiano, fino all’arresto da parte della Gestapo e alla sua deportazione in un campo di sterminio, ove sacrificava la giovane vita” – Dachau, 10 febbraio 1945.
Nato a Montella, in provincia di Avellino, il 31 maggio 1909 cresce in una famiglia sana e forte della Bassa Irpinia, tra i boschi verdissimi dei Monti Picentini e le acque chiare e gli affascinanti carsismi del fiume Calore. Ha un cugino e uno zio, entrambi francescani: soprattutto lo zio, divenuto vescovo, negli anni bui delle persecuzioni razziali sarà il suo grande “collaboratore” (fornendo ricovero e ospitalità nella sua diocesi, in provincia di Salerno, a centinaia di ebrei) nella immane opera di salvataggio di tanti sventurati, braccati dai nazisti. Fortissimo si dimostra in lui l’imperativo religioso e morale di essere e di porsi al servizio del prossimo: lo ha impresso, evidentemente, nel proprio Dna biologico e culturale. Oggi la Chiesa cattolica riconosce a Giovanni Palatucci il titolo di “Servo di Dio”, ma già nel 2004 si è conclusa la prima fase del processo di canonizzazione del martire irpino – soppresso dai nazisti “in odium fidei” – ed i relativi atti sono stati trasmessi alla Congregazione Vaticana per le Cause dei Santi. Per il suo eroico comportamento, il nome di Giovanni Palatucci è, inoltre, inciso nel memoriale dello Yad Vashem di Gerusalemme, il Luogo per eccellenza della Memoria del popolo ebraico. Egli è un Giusto fra le Nazioni, ovvero uno dei 20mila eroi (gli italiani sono circa trecento) che si sacrificarono per aiutare gli ebrei nel delirio distruttivo della Shoah.
Dunque, due grandi religioni monoteiste hanno già riconosciuto l’eccezionalità del pensiero e dell’azione di Giovanni Palatucci. Ma perché? Cosa ha fatto un commissario poco più che trentenne di così straordinario? La risposta è semplice e nel contempo stupefacente: dal 1938 (anno della promulgazione delle leggi razziali in Italia) al settembre 1944 (l’inizio della fase finale della II Guerra mondiale) è riuscito letteralmente a far “sparire” da sotto il naso della Gestapo, che imperversava anche a Fiume, sua sede di servizio, almeno 5mila ebrei, sia italiani dalmati e della Venezia-Giulia, sia stranieri giunti nei porti del Quarnaro in fuga dagli altri Paesi della Mitteleuropa occupati dai nazisti. Laureatosi a Torino, già ufficiale dell’Esercito, nominato vice commissario di pubblica sicurezza nel 1937, Giovanni Palatucci viene assegnato all’Ufficio stranieri della Questura di Fiume: proprio a causa di tale ruolo egli finisce col trovarsi “in prima linea” nella sistematica opera di cattura e deportazione degli ebrei, messa in atto in attuazione della famigerata “soluzione finale” voluta da Hitler, che portò al genocidio di un popolo.
Delle due l’una: o diventare “complice” dei nazisti, fornendo le informazioni richieste alle autorità italiane, oppure opporsi alla disumana politica di sterminio, votandosi a morte pressoché certa. Palatucci, senza esitazione, sceglie la via stretta degli eroi. Come reggente della Questura, vanifica a lungo le procedure burocratiche necessarie ai nazisti per identificare e arrestare i ricercati e dà ordine all’anagrafe di Fiume di avvertirlo preventivamente delle richieste avanzate dai tedeschi: appena viene a sapere che qualcuno è finito nel loro mirino, subito si attiva per metterlo sull’avviso ed organizzarne la fuga. In questa sua opera ciclopica è aiutato soprattutto da alcuni poliziotti e da vari preti, frati, suore sparsi in tutta Italia.
Per parecchio tempo va avanti così. In molti capiscono che finirà per pagare con la vita il suo altruismo e gli offrirono di salvarsi, ma Palatucci rifiuta sempre sia provvidenziali trasferimenti sia possibili fughe nella clandestinità. Va avanti, a viso aperto, fino al 13 settembre 1944. In quel giorno le spie riescono nel loro intento ed il tenente colonnello Herbert Kappler – sì, proprio lui, il gelido esecutore della strage delle Fosse Ardeatine, in fuga da Roma dopo l’arrivo degli Alleati – lo fa arrestare all’alba. Rinchiuso nel carcere di Trieste e condannato a morte, Palatucci, l’eroico funzionario viene deportato a fine ottobre nel campo di sterminio di Dachau, dove muore di stenti, di patimenti, forse di tifo, il 10 febbraio 1945. Il suo corpo sparisce nella fossa comune. Di lui resta la matricola: 117826. E resta la memoria della sua splendida personalità e del suo fulgido esempio di poliziotto intelligente e davvero senza paura, votato a un senso superiore del dovere. Un simbolo e presto, speriamo, nel centenario della sua nascita, un Santo.
Giovanni Palatucci: uno spirito libero
di Padre Piersandro Vanzan
Giovanni Palatucci (…) entrò nella Polizia di Stato, «per stare vicino a chi ha più bisogno», disse. Il 15 novembre 1937 fu mandato alla questura di Fiume, proprio quando il regime fascista emanava le nefaste leggi razziali. E così quella destinazione si rivelò la grande opportunità per realizzare quell’umanesimo integrale cristiano nel quale credeva fermamente. Concretamente, schierandosi dalla parte di Abele contro i nuovi Caini, egli visse in mirabile crescendo quel «servire i fratelli» ch’era il suo programma di vita e, come responsabile dell’Ufficio stranieri, accostò non soltanto la varia umanità di quel crocevia etnico-religioso, ma soprattutto la comunità ebraica, minacciata da ogni parte. Tutt’attorno infatti, nei territori jugoslavi occupati dai nazisti e dagli ustascia croati, infuriava l’antisemitismo, sicché Fiume divenne l’ultima via di salvezza per quanti fuggivano dai Balcani (…).
Conseguenza: proprio in questura, con l’aiuto di fidati collaboratori, organizza una rete che in vari modi aiuta quanti sono in pericolo, e proprio lui – che istituzionalmente avrebbe dovuto contrastare la fuga degli ebrei –cerca tutti i modi di salvarli. Ma la situazione precipita dopo l’8 settembre ’43, quando i nazisti si annettono il «Litorale Adriatico» e, mentre Fiume italiana viene a trovarsi nella paradossale condizione di «alleato occupato», Giovanni è nominato Reggente di una questura fantasma. In quest’ultimo periodo si registrano i fatti che suggellano la grandezza di Palatucci.
Anzitutto, resiste alle pressioni del Console svizzero a Trieste perché abbandoni Fiume e si rifugi nella Confederazione Elvetica, dove troverebbe ospitalità nella sua casa. Poi, distrugge il materiale relativo agli ebrei (…). Infine, le relazioni ufficiali che Palatucci manda alle Autorità germaniche e repubblichine in questo periodo hanno del temerario. Sfidando le ripercussioni che potevano venirgli, difende apertamente i suoi uomini contro gli abusi e le violenze perpetrate non solo dai tedeschi, ma anche dagli ustascia.
Leggendo tali relazioni si evince chiaramente quale incredibile libertà di spirito animasse il funzionario (di soli 35 anni) che le scriveva, e quale fede profonda (e coerentemente vissuta) lo sosteneva. Ma, ovviamente, questa chiarezza provocò la brutalità degli «alleati occupanti». La cui risposta non si fece attendere. La notte del 13 settembre 1944 le SS perquisirono l’abitazione del Reggente e vi trovarono copia del piano riguardante lo Stato libero e autonomo di Fiume, che Palatucci – membro clandestino del Comitato di Liberazione – aveva stilato prevedendo il tragico destino che attendeva gli italiani quando, finita la guerra, sarebbero caduti nelle mani dei titini (le foibe). Accusato di intelligenza col nemico fu tradotto nel carcere Coroneo di Trieste e, nell’ottobre 1944, instradato a Dachau. Fu l’ultimo suo viaggio, ma alla partenza da Trieste riuscì l’ultimo e più bel gesto del suo cristiano «amore fraterno».
Un suo collaboratore, il brigadiere ps Capuozzo, quando apprese del treno che avrebbe portato a Dachau il suo capo, aiutato da un collega della Polfer raggiunse i carri piombati e, camminando sul marciapiede, lungo i vagoni, discuteva animatamente con l’amico nella speranza che Giovanni lo sentisse e potessero così salutarsi per l’ultima volta. A un tratto gli cadde un bigliettino tra i piedi e sentì la voce di Palatucci: «Capuozzo, accontenta questo ragazzo. Avverti sua madre che sta partendo per la Germania. Addio». Raccolto sul binario della morte, quel bigliettino – con indicate famiglia e via di Trieste – resta l’ultimo segno e come il testamento spirituale di un questore che letteralmente ha speso la vita «per gli altri». E perciò è immortalato dagli ebrei come “il questore Giusto”, mentre lo Stato gli ha conferito la medaglia al valore e la Chiesa ne ha introdotto la Causa di Beatificazione.
Verso la beatificazione
di Padre Franco Stano
In realtà da alcuni anni la Chiesa sta studiando e valutando attentamente le motivazioni che accompagnarono la vita e l’opera di Giovanni Palatucci. La comunità ebraica riconobbe subito al funzionario di ps il merito di aver salvato dalla morte oltre 5mila ebrei e lo fece attraverso una serie di riconoscimenti pubblici di tale portata che non poterono non interessare e non indurre alla riflessione le autorità italiane, così che nel maggio del 1995, in occasione della festa della polizia, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro gli conferì, alla memoria, la medaglia d’oro al valor civile.
Su istanza di una associazione a lui intitolata, l’associazione “Giovanni Palatucci”, con sede al civico 200 di via Panisperna, è stato avviato il processo di beatificazione nella presunzione che la radice del suo comportamento a favore degli ebrei e di tanti altri perseguitati politici e razziali, fosse una motivazione di natura profondamente religiosa e specificamente cristiana. Una presunzione tanto più significativa in quanto avvalorata dalla testimonianza di tanti ebrei e non ebrei della prima ora postbellica, i quali tale motivazione richiamarono evidentemente e decisamente.
L’indagine diocesana, conclusa il 10 febbraio 2004, esibì documenti e testimonianze a iosa, e se da una parte fu accolta dalla Congregazione dei Santi come un significativo contributo alla verità, dall’altra fu anche dichiarata insufficiente e dunque bisognosa di essere suffragata da ulteriori approfondimenti. Cosa che si è fatto e si continua a fare.
Attualmente, Giovanni Palatucci ha per la Chiesa il titolo di Servo di Dio, in quanto sulla santità della sua vita si sta attentamente indagando. Egli non è dunque né Venerabile né, meno ancora, Beato. Tali titoli, perché possano essere conferiti, attendono che il processo vada avanti ed arrivi alla stesura ed all’approvazione della Positio (Venerabile), quindi al conferimento del titolo di Beato che avviene da parte del Papa, o di un Cadinale delegato, in una celebrazione ufficiale ad hoc. In questo caso soltanto, quando cioè Giovanni Palatucci sia dichiarato Beato, a lui si potrà conferire un culto pubblico. Allo stato delle cose, egli può esser solo privatamente invocato e nulla più.
La posizione del Palatucci, già esibita alla conclusione del processo diocesano, e portata ancora tenacemente avanti, riguarda il martirio come consumazione della sua carità. È questa l’ipotesi che la biografia tecnica, ormai prossima ad essere consegnata, propone alla Congregazione dei Santi. Il processo per la beatificazione del funzionario di polizia andrà avanti solo quando tale biografia e l’ipotesi in essa prodotta siano riconosciute adeguate da un apposito collegio di esperti.
Qui ricordiamo, infine, perché si sappia, quale è la condizione perché un martirio sia riconosciuto tale. Bisogna che il soggetto sia morto di morte violenta e che dunque abbia effuso il suo sangue; che vi sia stata da parte del martire testimonianza a favore della fede e da parte del persecutore odio contro di essa; che tale morte il martire abbia accettato volontariamente per amore di Dio. Questo triplice passaggio costituisce una conditio sine qua non del martirio cristiano.