Anacleto Flori
A fior di pelle
Tatuaggi e disegni per tutte le occasioni. Ricerca estetica, desiderio di essere alla moda, ma anche voglia di ribellione e di esprimere la propria appartenenza a gruppi politici o a bande di criminali
Come seguendo i contorni di un ricamo, l’ago penetra lentamente nella carne mentre un filo intriso di colore e sangue scorre sotto la pelle, lasciando dietro di sé una scia indelebile. Tra le tecniche tattoo, questa è forse la più primitiva (sicuramente la più dolorosa) per un tatuaggio letteralmente “cucito” su misura. Oggi le cose sono cambiate e anche chi non è disposto a versare lacrime e sangue a tutti i costi può tranquillamente aspirare ad avere il proprio tatuaggio. Infatti, lasciati alle spalle il metodo giapponese (in cui gli aghi vengono infilati senza fretta e in modo obliquo) e quello samoano (in questo caso per incidere l’epidermide vengono usati martelletto e bastoncini appuntiti), ancora troppo dolorosi, il modo migliore per introdurre inchiostri colorati sotto la pelle è quello americano: una sorta di pistola ad aghi che, grazie alla velocità di “perforazione”, riduce sia la durata sia la sofferenza dell’intervento. Ma bastano le opportunità offerte da un mercato non più underground e in continuo, inarrestabile sviluppo e i richiami ammaliatori delle sirene di una moda che tutto giustifica, a spiegare, da soli, il crescente numero di persone che decidono di sottoporsi a lunghe, dolorose (e decisamente costose) sedute per farsi letteralmente dilaniare lembi e lembi di pelle in modo permanente?
Per bellezza…
«In molti casi il tatuaggio rappresenta soltanto un elemento di decorazione – spiega l’antropologa Alessandra Castellani, docente presso l’Accademia delle belle arti di Frosinone e da anni attenta studiosa dell’universo che ruota intorno al tatuaggio – tanto più che negli ultimi 15 anni il corpo ha acquisito un significato diverso rispetto al passato. Oggi il nostro aspetto si può modificare, cambiare, trasformare con interventi chirurgici ed estetici di ogni tipo: c’è chi, ad esempio, sceglie di rifarsi il naso o il seno e chi invece di tatuarsi. Sembra ormai caduto per sempre l’antico anatema della Genesi che vietava di alterare il proprio corpo “fatto ad immagine e somiglianza di Dio”. È vero che adesso il tatuaggio è di moda e per alcuni farsi tatuare un disegno è come indossare un abito, comprare una maglietta, ma non bisognerebbe mai dimenticare che la moda prima o poi passa. Per altri, invece, il tatuaggio comporta una ricerca approfondita che può addirittura durare anni, perché quel segno da incidere sulla propria pelle dovrà essere una sorta di mandala (simbolo buddhista che rappresenta il viaggio iniziatico verso la crescita interiore), in grado di contenere, rappresentare l’essenza stessa della loro vita. Si tratta di una scelta fortemente individuale e identitaria in cui il disegno viene per lo più tatuato in zone nascoste e private del corpo».
A volte alla passione per immagini colorate e simboli misteriosi, alla vanità del proprio corpo, trasformato in opera d’arte, da mostrare con orgoglio e malizia, si può aggiungere l’onda emotiva di una data, di un evento o di un nome indimenticabili, da portare per sempre con sé, non solo nel cuore ma anche sulla pelle. È il caso di Michela, 25 anni: il primo tatuaggio, un colibrì, se lo è fatto fare su una spalla non appena raggiunta la maggiore età, poi, per anni più nulla perché il suo ragazzo non voleva. Una volta finita la storia, quella voglia mai passata di disegnarsi il corpo riemerge ancora più forte quando suo cugino muore in un incidente. Non ci pensa due volte e decide di tatuarsi, sempre sullo stesso braccio, un ramo di edera, intrecciato alle iniziali del ragazzo. «C’è voluto quasi un mese di tempo e una bella dose di dolore da sopportare – confessa Michela – anche perché il tatuatore ha fatto un lavoro in grado di resistere al passare degli anni, alla forza del laser e a qualsiasi pentimento, passando e ripassando più volte il colore sul disegno. Adesso mi rendo conto di aver avuto un po’ di fretta, forse il risultato non è proprio quello che mi aspettavo e soprattuto avrei potuto scegliere una zona meno visibile, dal momento che in giro c’è ancora molta gente prevenuta nei confronti della ragazze con tatuaggi molto estesi. Non dico di essere pentita, adoro i tatuaggi e forse prima o poi ne farò altri. Però certo prima di farsi tagliuzzare la pelle, bisogna pensarci bene…».
… e per rabbia
Se al tatuaggio è affidato il compito di ratificare un’adesione a valori in cui credere fortemente o di creare uno scenario di appartenenza che non si vuole nascondere, l’incisione allora dovrà essere più o meno visibile. È il caso dei cosiddetti “ribelli per la pelle”, come li ha ribattezzati Alessandra Castellani nei suoi libri: coloro, cioè, che hanno scelto e scelgono di tatuarsi come forma di trasgressione, di provocazione, come gesto di protesta, di rottura con il conformismo sociale. Un modo di essere sempre e comunque contro. Un filone di ribellismo che muove i primi passi intorno agli Anni ’70-’80 con la nascita del movimento punk e l’apparizione dei primi “skins”, le cui frange hanno attraversato indenni tutta la decade successiva, quella del riflusso, contrassegnata dalla trasformazione del tatuaggio da elemento socialmente disturbante e circoscritto a precise categorie sociali (galeotti, prostitute, criminali, eccetera) a fenomeno di massa. Giunti, quasi indenni, fino all’alba del terzo millennio, “skinheads” e “redskins” fanno ancora oggi del tatuaggio uno degli elementi preferiti di identificazione e di contrapposizione. Alcuni simboli sono ovviamente di esclusiva pertinenza, come ad esempio la croc